Mentre, qui in Italia, molti ancora si accapigliano sull’assemblea sindacale dei lavoratori di Pompei che ha sollevato un (inutile) polverone a fine luglio, a Londra circa 200 dipendenti della National Gallery appartenenti al sindacato Public and Commercial Services (PCS) hanno dichiarato uno sciopero che va avanti a oltranza da ieri. È uno sciopero consistente: come apprendiamo dall’Independent, la forza lavoro complessiva del Museo conta su un personale di 600 unità.
Le motivazioni? Nella capitale inglese sta accadendo qualcosa di molto simile a ciò che è già successo in Italia: come ci fa sapere il giornalista Damien Gayle in un preciso e puntuale articolo apparso sul Guardian, il direttivo della Galleria ha firmato un contratto per affidare a una ditta privata specializzata in mansioni di sicurezza, chiamata Securitas, una serie di servizi legati all’accoglienza dei visitatori. I lavoratori assunti dalla ditta si occuperanno, per esempio, del guardaroba, della sicurezza, ma anche della custodia delle sale, e il rischio che paventano i lavoratori della National Gallery (oltre, ovviamente, a quello di perdere il posto di lavoro o di vedersi ridurre gli orari) è quello di poter trovare in futuro, per le sale del museo, personale completamente digiuno in fatto di storia dell’arte, senza conoscenze sui dipinti, e quindi incapace di dare informazioni anche minime ai visitatori. E non dobbiamo trascurare il fatto che molti lavoratori che ora sono in forza alla Galleria, passeranno alle dipendenze della Securitas: c’è dunque da domandarsi se tale trasferimento potrà incidere sui contratti dei dipendenti. Perché la Securitas non si occupa soltanto di musei, ma anche di sicurezza negli aeroporti, negli uffici, nei supermercati, nelle attività commerciali: persone che lavorano da una vita alla National Gallery potrebbero un domani essere trasferite altrove.
Il picchetto dei lavoratori allo sciopero di ieri alla National Gallery di Londra. Foto tratta dalla pagina Facebook No Privatisation at The National Gallery |
È ancora Damien Gayle a renderci edotti circa altri possibili effetti delle privatizzazioni alle quali si stanno opponendo i lavoratori della Galleria. Uno dei lavoratori avrebbe detto che c’è il timore che la National Gallery “diventi meno galleria d’arte e più luogo dove passare il tempo, insomma più un luna park che un museo”. Un altro lavoratore, al Guardian, ha dichiarato senza mezzi termini che: “la National Gallery verrà trasformata in una specie di Disneyland, e noi non vogliamo affatto che questo accada”. Non dimentichiamo poi che la visita alla National Gallery, come ad altri musei pubblici inglesi, è gratuita: c’è anche il timore che le privatizzazioni possano portare all’applicazione di un biglietto d’ingresso. Il clima, comunque, è parecchio teso, e questo non è che uno dei tanti scioperi che si sono susseguiti nel museo londinese dall’inizio dell’anno. Come apprendiamo dalla BBC, ci sono stati ben 56 giorni di sciopero nella Galleria a partire da febbraio, con anche uno sciopero non-stop di 10 giorni a maggio, quando è stata licenziata la sindacalista Candy Udwin, una delle più ferme contestatrici delle privatizzazioni (per ordine del tribunale è stata poi reintegrata, ma non le è ancora stato concesso di tornare al lavoro).
A farne le spese sono stati anche, come è facile immaginare, i visitatori, che ieri hanno trovato chiusa la maggior parte delle sale della National Gallery (e che comunque hanno compreso le ragioni della protesta). Gayle, nel suo articolo, ha postato un’immagine della mappa del museo con le sale chiuse al pubblico a causa degli scioperi (che vi riportiamo qui sotto). Anita Singh sul Telegraph ci ha fatto anche un parziale elenco di opere che i visitatori non hanno potuto ammirare, a cominciare dai Girasoli di Van Gogh, uno dei simboli della Galleria, senza contare le opere di Constable, Seurat, Tiziano. E, aggiungiamo noi, tutte le opere olandesi del Seicento (Rembrandt, Rubens, van Dyck... ), tutti gli impressionisti, gran parte degli artisti medievali italiani, il Settecento veneziano, e moltissimi altri. Insomma: su un totale di quasi settanta sale, quelle aperte erano poco meno di venti. Siamo nel pieno della stagione turistica, e non stiamo parlando di un piccolo museo di provincia, ma del secondo museo più visitato di tutto il Regno Unito (e del quarto nella classifica mondiale stilata da The Art Newspaper).
This is how much of the National Gallery has been shut down by today's strike pic.twitter.com/BZvMmEqRif
— Damien Gayle (@damiengayle) 11 Agosto 2015
Ma nonostante ciò l’opinione pubblica, contrariamente a quanto spesso accade in Italia, è nettamente schierata con i lavoratori: i più riconoscono l’importanza dello sciopero e supportano i lavoratori, augurano loro buona fortuna, e c’è anche qualcuno che auspica che i media parlino di più della protesta. E perché dobbiamo sostenere lo sciopero ed esprimere dunque la nostra solidarietà ai lavoratori, ce lo spiega l’editorialista Polly Toynbee del Guardian, in un interessante articolo apparso ieri sul giornale inglese. In modo chiaro e semplice: “gli impiegati della National Gallery sono una piccola sacca di resistenza contro lo tsunami che sta arrivando per spazzare via quel poco che rimane dei diritti dei lavoratori della nazione”. Quanta differenza tra i commentatori inglesi e la vergognosa campagna mediatica italiana che ha travolto, appena due settimane fa, i lavoratori del sito archeologico di Pompei. Ma anche quante similitudini: privatizzazioni che interessano i musei, diritti dei lavoratori messi in secondo piano, musei visti come luoghi per fare profitto piuttosto che come luoghi per fare cultura. Ed è proprio per tutti questi motivi che parte della stampa inglese dimostra di solidarizzare con la protesta. Sarà anche per tale ragione che in Italia, eccezion fatta per qualche giornale di settore, nessuno parla di ciò che accade alla National Gallery?
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).