Su queste stesse pagine il 21 gennaio si era parlato di “un tema di cui nessuno parla”, cioè il fatto che il Covid abbia allontanato le scuole dai musei. Un problema per i musei stessi, per i loro introiti ma anche per la loro capacità di impattare sulla società. Un problema per chi in quei musei lavora, in particolare gli educatori o mediatori museali, tra i più colpiti dalle conseguenze delle chiusure e limitazioni che si sono succedute dal 2020 a oggi.
L’educazione museale è una disciplina recente dalla definizione ancora non universalmente condivisa. Possiamo definirla “l’insieme degli strumenti e delle metodologie utilizzate dalle istituzioni museali per rendere accessibili a più fruitori possibili e a ’target differenti’ le collezioni, le raccolte, le mostre e gli altri generi di esposizioni culturali” o ancora “l’insieme delle metodologie e degli strumenti utilizzati dalle istituzioni museali e da quelle scolastiche per rendere accessibili ad un più vasto pubblico collezioni, raccolte, mostre e in generale ogni tipo di esposizione culturale”. Una definizione più ampia aggiornata parla di pedagogia del patrimonio o educazione al patrimonio come di “una pedagogia fondata sul patrimonio culturale, integrante metodi di insegnamento attivi, un dispiegamento delle discipline, un partenariato tra insegnamento e cultura che ricorre ai metodi di comunicazione e di espressione i più diversi”.
Non è chiaro quando nasca come disciplina autonoma, prima con il nome di “didattica” e poi con il più inclusivo nome di “educazione”, e ancora oggi non esiste un percorso formativo omogeneo per diventare educatore museale. Il suo sviluppo è legato, a livello nazionale, a grandi nomi della museologia, come Palma Bucarelli, Paola della Pergola, Bruno Munari, Fernanda Wittgens, Maria Fossi Todorow. In ogni caso, tra gli anni Quaranta e Ottanta del secolo scorso, in particolare coi convegni di Perugia del 1955 e di Roma nel 1971, si impone a livello internazionale l’idea che i musei abbiano necessità di sviluppare il loro ruolo educativo e sociale. Un processo ancora in corso, come testimonia non solo il dibattito globale sulla definizione di museo, ma anche il fatto che la stragrande maggioranza dei musei italiani non abbia un dipartimento educativo, e che l’Associazione Italiana degli Educatori Museali, AIEM, nata nel 2020 e formalizzata nel 2021, sia ancora lontana dal vedere riconosciuta la propria professione dal punto di vista legislativo. “Molti educatori museali non hanno coscienza di esserlo” spiega Cristina Chiesura del direttivo dell’associazione, che accenna anche al fatto che la scelta del termine educatore museale sia giunto dopo aver escluso altri termini in uso come operatore didattico o mediatore “avere un nome con cui definirci è il primo passo per aumentare l’autoconsapevolezza professionale”.
Abbiamo chiesto ad AIEM quale sia la situazione della professione e della disciplina dopo due anni di Covid. Partendo dal presupposto che la situazione non fosse rosea neppure prima: la maggior parte di loro lavoravano e lavorano a partita IVA, non sono assunti dalle istituzioni per cui lavorano. In molti facevano altri lavori oltre all’educatore museale, che non gli consentiva di mantenersi. E la situazione, già fragile, ha visto un peggioramento con l’inizio della pandemia: i dipartimenti educativi, non solo in Italia, sono stati i più colpiti da licenziamenti e interruzione di collaborazioni al momento delle chiusure della primavera 2020. Il malinteso, dovuto a una poca conoscenza della pratica dell’educazione museale, ma anche alla volontà o necessità di risparmio, era che in assenza di visitatori, questi operatori fossero inutili o superflui per il lavoro “dietro le quinte” del museo.
Con le riaperture, molte collaborazioni sono state riattivate, ma la situazione continua ad essere complessa. Anzi, “drammatica. Molti di noi, dopo l’azzeramento di qualche mese, hanno visto un calo strutturale delle commesse”, spiega Francesca Masotti, educatrice e socia AIEM, che sottolinea come in molti casi l’educatore museale sia visto come qualcuno che può lavorare solo con i bambini, quindi come lo stop alle gite scolastiche, ma anche il Green Pass (che spinge a non organizzare uscite collettive per non escludere i non vaccinati), o l’imposizione di gruppi ristretti abbia avuto un impatto sulle attività e sui salari di molti educatori ed educatrici. Nonostante infatti questi operatori potrebbero e dovrebbero lavorare con molti pubblici diversi, in moltissimi casi si lavora solo con i minorenni e le scuole, anche per ignoranza dell’istituzione committente. In pochi e illuminati casi isolati i mesi di restrizioni sono stati utilizzati per ampliare il pubblico. In altri, l’imposizione di gruppi ristretti, ha portato i musei semplicemente a decidere di non offrire quei servizi educativi (esternalizzati) a gruppi così piccoli, bloccando quindi le commesse a società a professionisti esterni. Ci sono stati anche casi limite: l’associazione fa l’esempio dei Musei Civici di Venezia, che hanno deciso di tenere chiuso in zona arancione, e che hanno mantenuto orari ridotti per mesi, invece di utilizzare i momenti di assenza o calo di turisti per attività educative e divulgativa rivolte alla cittadinanza.
La stagione turistica 2021 è andata bene, ma con il crollo delle attività scolastiche la crisi non appare conclusa. Ancora Francesca Masotti, sottolinea come in troppi casi gli educatori museali siano stati esclusi dagli aiuti dedicati al turismo o alla cultura, soprattutto perché per diversi di loro le attività museali non erano l’unica fonte di reddito. Con la crisi del settore, questa assenza o parzialità degli aiuti ha portato molti (impossibile calcolare quanti, spiega l’associazione) a cambiare lavoro o a integrare l’attività museale con altri impegni, fenomeno che era già forte prima della pandemia. “Per ogni grande realtà che annuncia la ripartenza a pieno regime, i nuovi progetti, ce ne sono molte di più che scompaiono in silenzio, che non hanno i mezzi per rialzarsi”, spiega Masotti.
Tra le realtà sopravvissute c’è quella di Chiara Lachi, educatrice museale e socia fondatrice dell’associazione L’immaginario, che lavora con diversi musei del fiorentino. Lachi conferma che, seppur la situazione sia in relativa ripresa, la programmazione di gennaio è saltata quasi completamente. La sua associazione grazie a bandi e progetti pre-pandemia, è riuscita a reggere l’urto delle chiusure e sta lavorando bene, ma conferma la contrazione di commesse che ha colpito il settore “decisioni obbligate per i musei, anche data la nostra situazione lavorativa, fornitori di servizi esterni con cui non pareva il caso di portare avanti attività a museo chiuso”. Anche loro, come tutti, hanno dovuto ridurre il numero di collaboratori e di ore lavorate. Lachi ci tiene ad aggiungere che “l’allarme è che si possa pensare che questo lavoro possa essere fatto in maniera artigianale, da autodidatta, facendo a meno di una professionalità che invece ha peculiarità” fa riferimento a realtà toscane che conosce, cita il complesso di Santa Maria della Scala, dove è stata richiesta la terza media per operatori che dovrebbero occuparsi anche di didattica museale, ma anche altre realtà dove si sta provando ad affidarsi a collaboratori occasionali che magari conoscono i contenuti, ma non hanno sviluppato una professionalità specifica nella mediazione con il pubblico “il rischio è un cambio di approccio che, per un risparmio immediato, porti a perdere decenni di professionalità e esperienza acquisita”.
Proprio per fotografare una situazione in larga parte ignota, AIEM ha condotto un sondaggio online ottenendo circa 500 risposte da educatrici ed educatori museali di tutta Italia. I dati saranno presentati in conferenza stampa il 28 febbraio, ma Finestre sull’Arte ha avuto la possibilità di visionarne alcuni in anteprima. Le paghe sono basse, spesso sotto i 12 euro lordi l’ora, quasi mai sopra i 30: in molti casi l’intervistato spiega di non poter quantificare la sua paga oraria. Sono paghe orarie molto spesso occasionali, dato che la larga maggioranza degli intervistati lavora a partita IVA o ritenuta d’acconto. Paghe che si rivolgono a professionisti specializzati: chi ha risposto al questionario di AIEM ha quasi sempre una laurea magistrale, a volte titoli post-lauream come master o scuole di specializzazione. Un quadro simile a quello emerso da questionari su altri settori del comparto culturale, ma con la specificità, non marginale, che gli educatori museali lavorano per musei, per istituti pubblici o privati ma stabili, che mal si configurano come spazi idonei a collaborazioni saltuarie.
C’è poi un aspetto molto rilevante che emerge dai dati AIEM visionati: molti degli educatori museali intervistati, che evidentemente si considerano tali, se hanno risposto al questionario, svolgono altri compiti all’interno della struttura museale dove lavorano. In ordine di frequenza, addetti all’accoglienza, alla biglietteria, alla guardiania e al bookshop, ma non mancano casi in cui si occupano anche di guardaroba o pulizie. Addetti museali a 360 gradi, con tutto ciò che ne consegue per la specializzazione della professione e la qualità del servizio, ma rispettano in qualche modo le indicazioni ministeriali: il Ministero della Cultura infatti non prevede di assumere educatori museali o didattici che dir si voglia, ma soltanto “AFAV”, addetti all’assistenza, fruizione, accoglienza e vigilanza. La strada per il riconoscimento professionale degli educatori museali, ma anche della disciplina educativa come fondante dell’azione di un museo contemporaneo è ancora lunga e accidentata. Purtroppo le politiche governative che hanno seguito lo scoppio dell’emergenza COVID stanno ponendo ostacoli sempre nuovi e poche soluzioni. Ma non è tutto nero. “Devo sottolineare”, conclude Masotti, “che dal basso c’è un enorme bisogno di parlare di educazione museale. Prima ancora di nascere, la nostra associazione veniva contattata ripetutamente, ICOM sta affrontando il tema come mai prima d’ora, stiamo ricevendo appoggi istituzionali e abbiamo creato un comitato tecnico-scientifico di alto profilo”. Molto più di quanto sperassero: il futuro dell’educazione museale italiana è ancora tutto da scrivere.
L'autore di questo articolo: Leonardo Bison
Dottore di ricerca in archeologia all'Università di Bristol (Regno Unito), collabora con Il Fatto Quotidiano ed è attivista dell'associazione Mi Riconosci.