Gentile dottor Giordano,
mentre leggevo l’articolo che Lei ha firmato oggi per il quotidiano Libero (Tutta colpa degli archeologi), non ho potuto resistere alla tentazione di pormi una domanda: quali sono le qualità che dovrebbero appartenere a un buon giornalista? Ogni reporter avrà la propria idea in merito, ma trovo interessanti gli argomenti con cui lo storico nonché giornalista britannico Timothy Garton Ash ha risposto alla domanda in un suo recente lavoro (è uscito appena un paio di mesi fa per la Yale University Press), Free Speech. Tento di riassumere i principali traducendo dall’originale: “provare a cercare la verità, o almeno un’importante parte di essa”, “analizzare tutte le fonti possibili, incluse quelle difficili o pericolose da raggiungere”, "fare fact checking e condurre esplicite valutazioni sulla qualità delle prove a supporto“, e infine ”cercare di raccontare la vicenda, oppure di descriverla, mostrarla, spiegarla e analizzarla nel modo più chiaro e limpido possibile, e facendo in modo che i contenuti siano accessibili a un pubblico che altrimenti non avrebbe modo di accedervi“. Sempre tenendo a mente che, citando Bill Kovach e Thomas Rosenstiel, ”il primo obbligo del giornalista è raccontare la verità".
È un lavoro di grande responsabilità, ne converrà. E mi piacerebbe sapere come la ricerca della verità, e con essa la responsabilità che dovrebbe conseguirne, possano conciliarsi con il pezzo che Lei ha scritto oggi per le colonne di Libero. Mi piacerebbe saperlo perché, Le confesso molto umilmente, in questo articolo non ho trovato nessuna delle qualità sopra elencate. Anzi: ho trovato una buona dose di quel “cinismo giornalistico” dal quale un altro grande giornalista, Ryszard Kapuściński, consigliava di tenersi ben lontani. La cultura in generale e l’archeologia in particolare sono materie incredibilmente bistrattate nel nostro paese: potrei raccontarLe storie di giovani dottori di ricerca impiegati in scavi per i quali percepiscono pochi spiccioli, potrei parlarLe dei loro colleghi costretti a emigrare all’estero a causa delle poche opportunità offerte dal nostro paese, potrei parlarLe degli scavi che spesso si bloccano per insufficienza di personale (il Ministero dei Beni Culturali è fortemente sottodimensionato: nel 2014 contava su poco più di diciottomila dipendenti, contro i 25.050 del 1997). Ma Le basti sapere che la categoria non se la passa affatto bene. Vedersi dunque attribuire le colpe di una tragedia che ha causato la morte di tante persone, seppur a scopo provocatorio (tale infatti immagino sia stato il Suo intento: dubito fortemente che un giornalista della Sua esperienza riesca davvero a trovare negli archeologi una sorta di capro espiatorio), è veramente offensivo, è un insulto nei confronti di una categoria composta nella sua stragrande maggioranza da persone che lavorano in modo serio, coscienzioso e professionale. Immagini come si saranno sentiti gli archeologi quando si sono visti sbattuti in prima pagina in questo modo, e quando hanno letto che Lei ha voluto riconoscere nei ritrovamenti “uno dei motivi per cui 23 cristiani sono stati condannati a morte”, tra l’altro con un’enfasi del tutto fuori luogo e con un’espressione come “condannati a morte” che è del tutto inappropriata.
Pur dovendoLe ricordare che i veri responsabili del disastro ferroviario saranno individuati dagli organi competenti, mi sento comunque di escludere in maniera categorica che parte della colpa sia da attribuire a un professionista, il dottor Michele Sicolo, che ha semplicemente fatto il suo lavoro esattamente come lo doveva fare, ovvero redigendo un documento, la valutazione di impatto archeologico, che elencava le interferenze archeologiche, vale a dire i ritrovamenti con cui la realizzazione del raddoppio del binario nella tratta interessata dall’incidente avrebbe avuto a che fare. Documenti del genere vengono firmati da archeologi ogni volta che si progettano lavori su aree interessate, appunto, da ritrovamenti: non è quindi folle il fatto che si possa scrivere (benché, probabilmente, con cinica e strumentale ironia) che “i parenti delle vittime della strage dei treni in Puglia” debbano prendersela con “l’indice di persistenza geoarcheologica” e con i “ciottoli”, le “pietruzze” e i “frammenti ceramici” rinvenuti lungo il percorso della ferrovia? Ha senso utilizzare, in un articolo destinato a un giornale che si rivolge a un pubblico di non specialisti, il lessico scientifico del documento con lo scopo neppure troppo velato di opporre le normali prassi e i normali termini della materia alla “modernizzazione del sud”? Ha senso canzonare un rapporto tecnico prendendosela con l’italiano gergale utilizzato nel documento, facendo inopportune similitudini con i “reportage di Piero Angela a Quark” (sbagliando clamorosamente esempio, peraltro, dato che Quark è un programma divulgativo e pensato per un grande pubblico: l’esatto opposto di un documento tecnico) e definendo “astruse” le argomentazioni elencate dal professionista nella pratica? Non si crucci troppo del fatto che, come asserisce nell’articolo, né Lei né forse il suo pubblico abbiate capito alcunché: è materia per specialisti, non ci sarebbe da stupirsi.
Ovviamente non mi aspetto che Lei risponda alle domande di cui sopra. Probabilmente neppure leggerà questa lettera aperta. Avrà però sicuramente già dato un’occhiata alla risposta che le associazioni degli archeologi Le hanno voluto dare qualche ora fa. Mi sento di dire che si tratta di un comunicato da cui si denota la grande dignità con la quale la categoria è solita lavorare. Una categoria “che opera tra mille difficoltà la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio culturale comune” e che dunque non può sopportare alcun tentativo di “sciacallaggio giornalistico” che viene perpetrato “speculando sul dolore delle famiglie e di tutti gli Italiani”. Un dolore a cui il sottoscritto si unisce, insieme a tutto lo staff di Finestre sull’Arte. Le analisi dovrebbero essere condotte a freddo, o almeno dovrebbero essere condotte nel rispetto di tutti, con lucidità, con argomentazioni valide e sensate, con chiarezza e con l’obiettivo di giungere a ricostruire la verità. Di certo, non dovrebbero basarsi sugli strali contro l’altrui reputazione, né dovrebbero tirare in ballo professionisti che, molto semplicemente, si limitano a fare il loro mestiere.
Gradisca cordiali saluti,
Federico Giannini - Fondatore di Finestre sull’Arte
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).