Quando, esattamente tre anni fa, Matteo Renzi, in qualità di sindaco di Firenze, chiuse Ponte Vecchio per consentire un raduno di facoltosi ferraristi che avevano avuto la simpatica idea di cenare sul più noto ponte fiorentino, si sperò che si trattasse di un caso più unico che raro. Nessuno, insomma, auspicava che la "chiusura di bene pubblico per festa privata" potesse diventare, in futuro, una prassi. Speranza vana: con la passiva accondiscendenza di una classe politica affetta da una buona dose di servilismo, e spesso con l’esplicita tolleranza di tanti cittadini che paiono accettare di buon grado l’idea di rinunciare a un bene per qualche ora in cambio di donazioni, restauri e quant’altro, sembra che ultimamente diverse aziende private facciano a gara per appropriarsi (benché soltanto per qualche ora) di spazi che appartengono alla collettività.
Sono notizie delle ultime ore. A Roma, il Colosseo viene chiuso per consentire lo svolgimento di una festa vip volta a celebrare la fine della prima parte dei restauri, in barba ai turisti che avevano prenotato la visita e che sono stati costretti a rimanere fuori dai cancelli. Il tutto senza che nessuno (o quasi) si sia minimamente curato di diffondere la notizia: eppure, quando lo scorso anno il Colosseo chiuse due ore causa assemblea sindacale regolarmente convocata, si sprecarono titoli sulle prime pagine dei giornali, con un adiratissimo ministro Franceschini che parlò di “misura colma”, tanto che il governo emanò in fretta e furia un decreto per inserire i musei tra i “servizi pubblici essenziali”. Non, come sostiene Tomaso Montanari, “per costringere se stesso a tenere aperti archivi e biblioteche, o a finanziare teatri e musei, ma per impedire ai lavoratori della cultura di esercitare i loro diritti costituzionali”. Insomma: come si suol dire, due pesi e due misure. Sempre a Roma, ieri sera Piazza di Trevi è stata chiusa dalle 17:30 alle 22 per permettere alla maison Fendi di organizzare una sfilata di moda (uno spettacolo per soli duecento invitati) direttamente dentro alla fontana. A Napoli, la città chiude per ospitare, per ben tre giorni, la festa vip per i trent’anni della casa Dolce & Gabbana: interdette al pubblico le principali vie del centro storico (come i Decumani e via San Gregorio Armeno), negozi costretti a chiudere, addirittura chiusura anche per le sedi dell’Università che rientrano nella “zona rossa” (“sarebbe stato parecchio complicato ‘accreditare’ tutti gli studenti, fornirli del braccialetto obbligatorio per stazionare nella zona interdetta”, commenta la direttrice del dipartimento di scienze sociali).
Preparativi per la festa al Colosseo. Foto dall’articolo di Tomaso Montanari su Repubblica |
Eppure, per molti non c’è niente di male in tutto ciò: del resto, le aziende offrono alle città somme di denaro con le quali si possono restaurare monumenti. E di fatto ci si arrende all’idea per cui quel denaro possa comperare qualsiasi cosa, all’idea che i soldi possano giustificare tutto. Si tratta però di un’idea indegna e servile: ci devono essere dei limiti dettati, se non dai nostri diritti (perché parlare di diritti ormai sembra non andare più di moda), almeno dal buon gusto e dal buon senso. E il buon senso dovrebbe suggerire che è assurdo creare disagi a una comunità, arrivando addirittura a far chiudere un’università, perché c’è una festa vip da organizzare. Il buon gusto e il buon senso dovrebbero imporre dei limiti, evitando che i privati possano appropriarsi, anche se solo per poche ore, di spazi pubblici. Anche perché quasi sempre le aziende hanno già il loro tornaconto, in termini di ritorno d’immagine e di pubblicità. Aziende che spesso non paiono certo mosse da disinteressata filantropia: anche le donazioni fanno parte dei piani marketing delle imprese. Prendiamo la fontana di Trevi: è famosa in tutto il mondo, dopo il Colosseo è probabilmente il più celebre monumento di Roma. Un’azienda che organizza una sfilata di moda sulla fontana riuscirà ovviamente a catturare molta più attenzione di un ipotetico concorrente che organizzi la stessa sfilata a Villa Torlonia o davanti alla Basilica di San Crisogono (per citare due luoghi che forse avevano più bisogno d’interventi rispetto alla fontana di Trevi). Insomma, non sempre si tratta di atti di munifica generosità che non s’aspettano di essere ripagati, e spesso le donazioni di cui leggiamo sono tali assumono il sapore di operazioni mirate a garantire un vantaggio all’aziende, che però indossano intelligentemente la maschera dell’atto liberale.
Certo: adesso ci saranno sicuramente coloro che diranno “meno male che c’è qualcuno che restaura i monumenti, quindi ben venga la chiusura dei luoghi pubblici in cambio degli interventi”, oppure coloro che domanderanno “preferite che le piazze siano aperte e che i monumenti cadano a pezzi?”, e ancora chi si rassegnerà dicendo “per una sera possiamo anche sopportare”, e non mancheranno neppure coloro che ci accuseranno di snobismo, di miopia, di eccesso di polemica. Ma ci preoccupa il fatto che questa sopportazione stia diventando una pessima abitudine: se pochi anni fa le chiusure erano eccezioni, adesso sembra quasi stiano diventando la regola. E ci preoccupa il fatto che si pensi che il denaro possa giustificare tutto. Noi rivendichiamo il diritto di criticare un’operazione anche quando c’è qualcuno che paga, perché, ed è forse retorico dirlo ma sembra non essere più così scontato, il denaro non può e non deve comperare ogni cosa. Soprattutto quando si parla di cultura. I diritti, la dignità, la cultura non possono essere messi in vendita. Un monumento, un palazzo, un’opera d’arte dovrebbero essere tenuti in considerazione non perché sono belli, ma perché sono parte integrante di un patrimonio che dovrebbe renderci cittadini consapevoli, uguali e liberi. E ogni volta che una somma di denaro compra la possibilità di chiudere uno spazio pubblico, è come se un po’ di questa uguaglianza e un po’ di questa libertà se ne andassero, oltretutto con il plauso di chi pensa che non ci sia “niente di male”. Noi però non vogliamo rassegnarci a questa idea, perché pensiamo, e lo ribadiamo, che il patrimonio pubblico appartenga a tutti, e che non dovrebbero esistere cittadini a cui possa appartenere “un po’ più” che a qualcun altro. L’interesse dei cittadini (o meglio: di tutti i cittadini) dovrebbe sempre essere messo al primo posto. È una regola elementare, peccato che a qualcuno paia sfuggire.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).