A dispetto della sua storia, narrata sempre come costellata di eventi infausti, la Calabria si può riscattare a partire dalle sue stesse “rovine”. Non soltanto quelle archeologiche, che pure sono immense, ma anche attraverso una narrazione meno stereotipata e soprattutto mediante alcune oculate scelte strategiche che, finalmente si stanno mettendo in atto anzitutto a Sibari, in provincia di Cosenza. “Ci sono luoghi che custodiscono primati del pensiero filosofico e spirituale - luoghi, tuttavia, misteriosamente destinati a passare dalla sofferenza al tormento prima di potersi risollevare sulle rovine che si sono accumulate” (Domenico Nunnari, La Calabria spiegata agli italiani. Il male, l’orgoglio, la bellezza della nostra Grecia, Rubbettino, 2017).
Ma quale Calabria ci avventuriamo a raccontare? “Mi fu sempre difficile spiegare che cos’è la mia regione”, diceva Corrado Alvaro nel 1931 in una conferenza a Firenze. Forse, a tutt’oggi, basterebbe la sua dichiarazione a farci desistere, ma è un tentativo che va fatto ogni volta per ricalibrare la storia presente in un’ottica anche “intenzionale” (mi riferisco alla “intentionale Geschichte”, teorizzata da H. J. Gehrke, nel 1945).
E come facciamo a parlare di Sibari, una città in tre che ancora stentiamo a riconoscere? Ecco che, in re, come un messaggero alato, “plana” Filippo Demma, direttore del Museo della Sibaritide e Direttore Regionale dei Musei: a lui abbiamo strappato un’intervista, che riportiamo in calce. Proviamo dunque a fare il punto sulla Calabria, partendo proprio dalla complessa storia di Sibari, pensando alla colonia panellenica di Thurii, quando in realtà dovremmo dire Copia.
La città, con la guida esperta di Demma, si spoglia sotto i nostri occhi, come l’involucro sottile di una cipolla, ma non è Sibari o Thurii né Copia solamente. È difficile da distinguere ogni sua fase senza nozioni da archeologo: Sibari si svela piano e piano scopriamo, che ci sono state altre tappe della sua lunga storia fino alla sua riscoperta: c’era, secondo Diodoro (lo storico siceliota, i cui dati sono però messi in discussione) almeno Sibari II (o di Tessalo) e Sibari III, non contemplata da Diodoro (si veda Emanuele Greco, Città greche di Magna Grecia e Sicilia: caratteri e strutture, 2013) ma anche quella di Polizelo, prima della rifondazione (nel 446/5?) e la fondazione panellenica (operata secondo i canoni dello hellenikon sociale, politico e urbanistico) col nome di Thurii (del 444/3?), seguita dalla fase della stasis e poi da Copia. Insomma, una complessità che andava meglio documentata e narrata.
E questo è l’obiettivo del nuovo allestimento, cool e provvisorio ma che tiene conto di aggiornati criteri museografici del Museo presentato l’8 dicembre 2021, giorno in cui è stata anche inaugurata una mostra molto suggestiva dell’artista Giorgia Catapano, Invocazioni, curata da Serena Guidone e Camilla Brivio. Grazie a un uso indovinato dei mezzi tecnologici e oltre al nuovo modulo ippodameo (con l’apertura della sala multimediale), si rende finalmente più chiara l’anima “millefoglie” (dal nome del dolce, detto anche Napoléon, che la tradizione francese vuole di 3 strati) di Sibari, la città dei veli e delle stratificazioni che qui hanno visto i millenni e non di certo senza colpo ferire! Devastazioni, alluvioni, presenza di cosche mafiose che ancora abitano parte dei 168 ettari del Parco archeologico del Cavallo: Sibari è un vasto impero tutt’ora da controllare sino ai confini. Un luogo cruciale da salvaguardare, potenziare, da conoscere.
Quando nasce la polis greca? Va subito detto che la vexata questio della nascita della città greca, in generale, è “un fenomeno non definibile in termini di evento puntuale (i contorni sono molto sfumati) ma piuttosto di progressiva e lenta trasformazione della società greca dal crollo dei palazzi micenei”, ciò che spinge le comunità aristocratiche a dare vita alle prime forme di aggregazione politica, la polis, appunto.
Non ci spingeremo fin lì, l’argomento però è utile per ripercorrere cursoriamente una delle principali tappe del nuovo percorso espositivo all’interno del Museo e per avere contezza del termine ante quem da cui occorre partire per parlare di Sibari. In realtà, sono numerosi i passi indietro che dovremmo fare, per esempio, per considerare quale sia stata l’incidenza su un territorio abitato da popolazioni autoctone all’arrivo delle colonie provenienti dall’Acaia: la regione greca la cui importanza è stata riscoperta solo da scavi recenti che hanno rimesso in discussione la, finora dubbia, capacità di questi coloni di fondare Sibari e Crotone, come si riteneva fino a poco tempo fa, in quanto “regione senza città prima del VI secolo a.C.” (Emanuele Greco). E come fare a mettere in luce anche la vita della colonia romana di Copia, le cui vestigia sono le più resistenti e visibili?
Quel che pare pacifico è che l’arrivo dei nuovi coloni a Thurii non dovette alterare troppo l’impianto urbano concepito da Ippodamo di Mileto nel V sec. a. C. È invece più avanti, in età augustea e giulio-claudia che la struttura subisce una radicale trasformazione (urbanistico/topografica e monumentale) con, per esempio, la costruzione dei cd. Emiciclo e dell’Edificio Rettangolare. Sappiamo inoltre, che la scelta di questo nome, Copia, per i romani, era “evocativo dell’antico splendore di Sibari e Thurii” (Alessandro D’Alessio e Carmelo Malacrino). Un omaggio ai fasti passati, insomma. E perciò, come si fa a raccontare una storia fatta di secoli accumulati uno sull’altro e da ampi e indefiniti margini cronologici? Questi dati sono ancora da rivedere, come afferma Demma, e saranno oggetto di studio e ricerca, una volta che l’area archeologica avrà un sistema di sicurezza più adeguato. E poi, da quali fonti partire per narrare in modo verosimile la fine della città di Sibari? Perché e come avvenne?
Lo studioso Kukofka sostiene che “se pure Crotone ricevette l’aiuto occasionale di Dorieo, non sembrano comunque esservi solidi indizi documentari per attribuire la sconfitta di Sibari ad una grande coalizione aggregatasi contro la potente città achea e suscitata dalla sua stessa politica imperialistica”. C’è, tutto sommato, molto ancora da verificare e chiarire, sia sulla “scomparsa” o sconfitta di Sibari, sia sulla sua origine. Sibari resterà sempre a metà tra mito e leggenda?
ADFS. Qual è la situazione che ha trovato al suo arrivo a Sibari?
FD. Sono molte le criticità che ci siamo trovati ad affrontare. A partire dall’organico sempre insufficiente: si contano sulle dita di una mano il numero di dipendenti amministrativi che sono incaricati di gestire il bilancio, l’ufficio degli appalti e la comunicazione, oltre alla difficoltà di gestire nell’immediato la manutenzione ordinaria, dal momento che i geometri andati in pensione, non sono stati ancora “sostituiti”. Le problematiche sono diverse, la più importante è la questione della messa in sicurezza degli scavi. Due delle pompe idrovore, previste da un progetto del 1965, sono anche saltate e non riescono quindi a contenere l’acqua; sono state, è vero, sostituite, dopo la tragica alluvione del 2013, da un progetto di realizzazione di trincee drenanti però disatteso nel suo valore scientifico. E non solo, è stata compiuta una ingenuità: scavare le suddette trincee, e poi alcuni pozzetti mai manutenuti, al di sotto delle strade (plateiai) di Thurii e Copia pensando che fossero perfettamente sovrapposte. L’errore era immaginare che lo schema della vecchia città (di Thurii con ogni probabilità) ricalcasse esattamente quello di Sibari!
Cosa è riuscito a fare in pochi mesi?
Dall’inizio del mio incarico (novembre 2020) abbiamo lavorato su più fronti senza sosta. Ho anche sollecitato direttamente la Direzione Generale e il professor Osanna (i cui studi di dottorato iniziano con lo studio sulle colonie greche dell’arco ionico) che nell’esercizio delle sue funzioni sta provvedendo a venire incontro alle nostre necessità più stringenti. Sul tema più urgente della messa in sicurezza, prima del mio mandato, c’è stata un’ispezione ministeriale che ha accertato una serie di criticità, dopo le quali ho affidato l’incarico per realizzare una puntuale supervisione e un preciso masterplan a un grande esperto (è docente a Glasgow, e vicedirettore operativo del progetto dell’orto botanico dell’emirato dell’Oman) il quale durante le primissime indagini ha rilevato quanto con ogni probabilità è stato possibile individuare la provenienza della falda, a suo avviso, dall’antico corso del Coscile. Il fiume era parallelo all’altro Crati, e con esso arrivava al mare rendendo la piana di Sibari come una “Mesopotamia ionica” su cui in seguito si è installata la città.
Ma a un certo punto della sua storia il Coscile modificò il suo corso, andando a confluire nel Crati. Una parte delle acque, in seguito a questi sconvolgimenti, iniziò un movimento sotterraneo verso il mare che dovette portare oggi alla costituzione della falda attuale, localizzata al di sotto dell’area archeologica. Il progetto per la soluzione definitiva del problema è complesso e diverse fasi lunghe e costose, con una serie di accordi anche con il Ministero della Transizione Ecologica, ma la messa in sicurezza dell’area archeologica potrà avvenire con un primo intervento già quasi interamente finanziato.
Un’ipotesi avvincente che sarà suffragata da altre indagini accurate?
Certo, un museo è soprattutto un centro di ricerca, un collettore di molte esperienze e competenze differenti. Una volta superate le emergenze operative il museo si aprirà anche a studi e convegni.
Il museo abita in un territorio difficile e fuori mano, come si può dare impulso per un impatto reale sul piano culturale e turistico?
Attraverso una serie di iniziative che facilitino il trasporto e la permanenza dell’utenza, e anzitutto con un patto condiviso con le comunità che devono essere chiamate in causa per progettare insieme un futuro per questa terra. Non si può ancora limitare l’offerta turistica esclusivamente alle pochissime settimane estive. In quest’ottica di apertura, stiamo anche mettendo a sistema due progetti specifici. Uno è quello di creare un’offerta culturale integrata che preveda una forte valorizzazione di tutti i musei civici e l’altro, di una Rete dei musei della Magna Grecia che coinvolgerà in una prima fase Crotone, Sibari e Metaponto, tutti siti che costeggiano l’autostrada blu, il Mare Jonio. È così che le rovine, anche quelle archeologiche, diventano il grimaldello per fare cultura e la bellezza un’azione condivisa che sappia riscattare Sibari e la Calabria tutta.