Il finto Michelangelo di Marcialla: un caso montato sul nulla


Nei giorni scorsi i media hanno dato la notizia di un presunto Michelangelo 'ritrovato' nel Chianti: ecco cosa c'è di vero.

Un affresco di Michelangelo scoperto nelle campagne nel Chianti fiorentino. La notizia, posta in questi termini (ovvero come l’hanno titolata, con buona dose di sensazionalismo, certi mezzi d’informazione), sarebbe davvero epocale: tuttavia, come accade ogni volta che la stampa non specialistica dà conto di presunte scoperte eccezionali, è sempre d’obbligo indagare più a fondo e capire cosa in realtà si nasconde dietro ai titoli enfatici. E spesso si finisce con lo scoprire che i media hanno montato un caso sul niente, rielaborando con certa creatività ipotesi che fondono dati storici (pochissimi e a loro volta di dubbia attendibilità) con voli di fantasia (troppi): è esattamente quanto accaduto anche con la vicenda del finto Michelangelo chiantigiano. Un’opera, peraltro, di ottima qualità e assegnata dai veri esperti (come si vedrà tra poco) a un artista aggiornato, Tommaso di Stefano Lunetti (Firenze, 1490 - 1564). Non è, insomma, un’opera di Michelangelo, per quanto possiamo saperne. Tocca dunque andare con ordine.

Tommaso di Stefano Lunetti, Pietà
Tommaso di Stefano Lunetti, Pietà (1525 circa; affresco; Barberino di val d’Elsa, Marcialla, Parrocchiale di Santa Maria)


Particolare della Pietà
Particolare della Pietà

La notizia, riassunta, è più o meno questa: nella chiesa di Santa Maria a Marcialla, frazione del Comune di Barberino val d’Elsa, esiste un affresco che la tradizione locale attribuisce alla mano di Michelangelo Buonarroti (Caprese, 1475 - Roma, 1564). Un certo Robert Schoen, statunitense, presentato da molte testate (per esempio qui) come “uno dei massimi esperti internazionali” di Michelangelo, accoglie l’invito del sindaco a esaminare l’opera. Si reca dunque tra le colline del Chianti, compie un sopralluogo ed emette il proprio giudizio: citando un virgolettato riportato dall’ANSA, per Schoen “in quell’affresco c’è l’anima di Michelangelo”, “forse fu dipinto” sulla base di “un disegno, un bozzetto forse un dono di Michelangelo ai padri agostiniani che lo ospitarono”, e “il dipinto potrebbe essere di Sebastiano Mainardi”. Malgrado l’abbondanza di dubbi (due “forse” e un “potrebbe” in un solo periodo), molti giornali si sono affrettati a fornire le più estrose interpretazioni dell’idea del cosiddetto “esperto”, uscendo con titoli come “la Pietà di Marcialla è di Michelangelo”, “un Michelangelo a Marcialla”, “confermato Michelangelo in una chiesa di Marcialla”, e via dicendo.

Basterebbe anche solo leggere il virgolettato per comprendere che siamo in presenza di un caso inesistente, perché non sussistono appigli né, tanto meno, basi solide per formulare un’attribuzione a Michelangelo. E non possiamo neanche dire che siamo in presenza di un affresco realizzato su disegno del grande artista del Rinascimento, per il semplice fatto che il disegno non esiste, o quanto meno, volendo concedere una remota possibilità al “massimo esperto”, nessuna fonte ne ha mai parlato e non è mai stato trovato: che l’autore possa aver dipinto la Pietà su uno sconosciuto disegno di Michelangelo altro non è che una mera supposizione. E soprattutto: siamo di fronte a una questione vecchia Anzi: vecchissima. La Pietà di Marcialla è un’opera ben nota agli studiosi di Michelangelo, categoria nella quale torna difficile includere Robert Schoen (per motivi che tra poco si diranno): e gli studiosi si sono già pronunciati in passato sul dipinto. Tuttavia, non si comprende bene per quale motivo l’opera torni ciclicamente a destare l’interesse dei mezzi d’informazione, e ogni volta sempre col solito refrain: comincia a tornare in auge l’ipotesi che l’opera possa essere di Michelangelo, interviene un “esperto” che non conferma né smentisce le voci, si ignorano sistematicamente gli studî scientifici, sulla stampa esce qualche titolo a effetto, e tutto poi si spegne in attesa che qualcuno, con un pretesto qualsiasi (la “scoperta” di un nuovo particolare, la formulazione di un’ipotesi che potrebbe tirare in ballo l’opera), faccia tornare di moda l’affresco. È almeno la terza volta che succede nel giro di dieci anni.

In casi come questi, l’operazione più sensata che si possa compiere è ricorrere alla bibliografia scientifica, all’interno della quale non compaiono titoli di Robert Schoen. Lo statunitense non si può certo annoverare tra i “massimi esperti internazionali” di Michelangelo, ruolo del quale molti media lo hanno improvvidamente investito: occorre ridimensionare la sua figura a quella di scultore con la passione per l’artista fiorentino. Il suo unico contributo su Michelangelo (almeno a quanto mi risulta da una rapida ricerca) è un intervento nell’ambito del dibattito sul cosiddetto Giovane arciere del Metropolitan di New York: l’opera, ben nota agli studiosi e la cui paternità rimane tuttora incerta, viene vista da Schoen nel 1984 a New York, al palazzo dei servizi culturali dell’ambasciata francese, e lo scultore interviene nella discussione attribuendo il Giovane arciere a Michelangelo. La notizia, data oggi da molti, secondo cui Schoen sarebbe “noto per aver identificato a New York” (cito, in questo caso, dal Corriere Fiorentino, ma la si può trovare ovunque) “il Cupido scolpito da Michelangelo nel 1497 di cui si era persa da secoli ogni traccia”, è destituita di ogni fondamento. Si confonde il Giovane arciere, scultura che nel 1984 era già stata abbondantemente pubblicata e discussa in sede scientifica, con il Cupido dormiente, opera attestata dai biografi di Michelangelo ed effettivamente considerata perduta. In ogni caso, siamo lontanissimi dall’asserire che Schoen abbia rinvenuto opere di cui si erano da secoli perse le tracce.

La bibliografia scientifica include da tempo alcuni contributi sulla Pietà di Marcialla. Ce n’è uno, scritto da Roberto Weiss, che rimonta addirittura al 1942 e nel quale si dà conto di come “una tradizione locale abbastanza antica” attribuisca “l’affresco di Marcialla a Michelangiolo Buonarroti, ma nessuno studioso moderno di Michelangiolo ne è a conoscenza”. Questa tradizione, secondo Weiss, finì col suggestionare gli eruditi settecenteschi: lo scrittore d’arte Anton Francesco Gori, nelle sue note alla Vita di Michelangelo scritta dal suo primo biografo, Ascanio Condivi, parlava di un “prezioso quadro [...] il quale sta esposto ad un Altare a mano destra nella Chiesa Priorale di Marcialla”. Questo quadro, continuava Gori, “è a fresco, ed è della prima maniera di Michelagnolo; e rappresenta una Pietà, posta nel mezzo dalle immagini di due Santi Martiri”. Ancora, l’erudito riportava la tradizione secondo cui “Michelagnolo lo facesse in congiuntura che si portava a far qualche giorno di campagna nella villa de’ nobili signori Serragli”. La nota di Gori rappresenta la prima fonte storica che parla di un soggiorno di Michelangelo a Marcialla: ma si tratta di una fonte che, a sua volta, dà fiducia a voci di paese (e oltretutto siamo a quasi tre secoli di distanza dall’epoca dei fatti), quindi la sua attendibilità è già di per sé decisamente scarsa (anche perché non esistono documenti che testimonino un’amicizia tra Michelangelo e la famiglia Serragli). Semmai, è più plausibile che Michelangelo si fosse recato a Marcialla su invito del priore di Santo Spirito, col quale i rapporti sono documentati: il monastero di Marcialla dipendeva da quello di Santo Spirito a Firenze. Non abbiamo però notizie di un suo soggiorno.

Per trovare invece il primo documento in cui si parla di Michelangelo come autore dell’opera è necessario tornare al 1689, anno in cui l’arcivescovo di Firenze, Jacopo Antonio Morigia, è in visita alla chiesa di Marcialla: nel verbale si registra che “Contra dictum Altare Conceptionis adest in pariete picta Pietas manu pictoris Buonarroti satis pulchra”, ovvero “di fronte al detto altare della Concezione c’è, in una parete dipinta, una Pietà di mano del pittore Buonarroti, piuttosto bella”. Il verbale veniva peraltro già citato in un contributo del 1848 (“pieno di errori”, lo definiva però Weiss) di un erudito locale, Luigi Biadi: anch’egli attribuiva la convinzione che l’opera fosse di Michelangelo alla fama che circondava il dipinto.

Tutto questo per dimostrare che la discussione di questi giorni è un qualcosa di trito e che non è emersa alcuna novità: da oltre tre secoli circola il nome di Michelangelo, e le ipotesi che la stampa ha diffuso in questi giorni non aggiungono niente di serio al dibattito, anche perché non risultano ancora pubblicazioni al riguardo (riesce dunque difficile anche capire perché Robert Schoen abbia parlato di un probabile affresco di Sebastiano Mainardi su probabile disegno di Michelangelo, visto che al momento disponiamo solo delle sue dichiarazioni riportate dai quotidiani). Al momento, il più aggiornato (e affidabile) studio sull’opera è quello di Alessandra Tamborino pubblicato sulla rivista scientifica Paragone nel 2007: nell’articolo, la storica dell’arte, specialista del Rinascimento, ipotizzava che l’affresco fosse opera di Tommaso di Stefano Lunetti, per ragioni eminentemente stilistiche. Si tratta infatti di un’opera che presenta forti affinità con la tavola della Natività presente nello stesso edificio di culto, e che Federico Zeri aveva riferito a Tommaso di Stefano Lunetti sulla base di raffronti con altre opere dell’artista, che presenterebbero caratteri del tutto simili. Se c’è da vedere, in questa Pietà, un’ombra di Michelangelo, la si può ravvisare nella “avvenuta assimilazione della prepotenza formale michelangiolesca”, che comunque era “già da qualche anno elemento fatto proprio da molti dei pittori della vecchia e della nuova generazione”: in altri termini, è noto che tantissimi artisti che operarono nei primi decenni del Cinquecento (questo affresco sarebbe da datare al 1525 circa) si immersero nell’arte di Michelangelo per trarne ispirazione e, spesso, per includere citazioni dirette nelle loro opere. Poiché dallo studio di Alessandra Tamborino in avanti non è stata pubblicata alcuna novità significativa, riesce molto difficile pensare (ancora) che il giovane Michelangelo possa aver avuto qualche ruolo diretto nella realizzazione dell’opera.

Questo è quello che possiamo dire seriamente e con cognizione di causa sul dipinto di Marcialla. Tutto il resto altro non è che rumore di fondo che svilisce la storia dell’arte e la riduce a semplice materia per sensazionalismi.

Tommaso di Stefano Lunetti, Natività
Tommaso di Stefano Lunetti, Natività (1525 circa; affresco; Barberino di val d’Elsa, Marcialla, Parrocchiale di Santa Maria)


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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