Al via Miart, la fiera internazionale d’arte moderna e contemporanea di Milano organizzata da Fiera Milano, che quest’anno giunge alla sua ventottesima edizione, la quarta diretta da Nicola Ricciardi. Dal 12 al 14 aprile, nel Padiglione 3 del Centro Congressi Allianz MiCo, sono infatti visitabili 181 gallerie provenienti da 28 Paesi che portano in mostra opere d’arte moderna e di artisti contemporanei affermati ed emergenti. Tema dell’edizione 2024 di Miart è no time no space, che si pone l’obiettivo di allargare sempre di più i propri confini sia dal punto di vista geografico che dal punto di vista temporale. Oltre alla sezione principale (Established) e alla sezione Emergenti, novità di quest’anno è la sezione Portal, volutamente anacronistica, che intende confondere i tempi per parlare del nostro tempo, cogliendo nel mutevolissimo flusso dell’immediata attualità ciò che nell’arte è stabile e durevole. Quali sono i dieci migliori stand di Miart 2024 secondo la nostra redazione? Come sempre abbiamo visitato la fiera in anteprima e abbiamo selezionato quelli che a nostro avviso si sono distinti per originalità della proposta, novità, cura dell’allestimento, impatto scenografico, chiarezza espositiva. Eccoli qui di seguito, in rigoroso ordine alfabetico.
Uno stand... diviso in tre, quello della galleria parigina 193 Gallery. Si comincia con Thandiwe Muriu, artista keniota classe 1990, che porta una folata d’Africa a miart che, con le sue fotografie che sembrano opere digitali, affronta il tema della percezione del sé cercando allo stesso tempo di ridefinire l’identità femminile attraverso la scelta dei materiali, e in particolare di tessuti e stilemi che parlano di Africa. Di fronte, il trentasettenne neozelandese Rob Tucker, pittore di paesaggi e nature morte che si distinguono per le loro forme quasi geometriche, la tavolozza giocosa, i riferimenti al mondo del design, lo sguardo che si rivolge, per esempio, alla pittura di David Hockney. Nel mezzo, è ancora Africa con Sesse Elangwe, camerunense del 1994 (anche se vive a San Antonio, Texas), con i suoi dipinti che traggono spunti dal realismo, dalla Pop Art e dal surrealismo per raccontare la condizione dei neri di tutto il mondo.
L’americana Andrew Kreps presenta un dialogo, a nostro avviso riuscito, tra le opere di due giovanissimi: Henry Shum, nato a Hong Kong nel 1998, e Isabella Costabile, artista di origini maremmane nata a New York nel 1991. Shum dipinge raccogliendo immagini che incontra sia negli spazi fisici che digitali, e sviluppando connessioni tematiche attraverso materiali disparati. Lo spazio bidimensionale e quello tridimensionale sembrano spesso ripiegarsi l’uno sull’altro, suggerendo l’esistenza di più piani o virtualità all’interno di un’unica opera. Questo suggerimento non riflette i desideri di Shum, ma riflette invece una realtà specifica dei nostri tempi: l’incessante manovra tra il collettivo e l’individuale, lo storico e l’astorico. La ricerca di Isabella Costabile parte da oggetti e materiali di scarto che dànno vita a nuovi e singolari oggetti memori dell’infanzia e dei suoi giochi, ma che sono anche in grado di riflettere sulle possibilità del linguaggio quotidiano e sull’ambiguità delle forme.
L’artista inglese Alexis Soul-Gray, classe 1980, è il protagonista del solo show della galleria Bel Ami di Los Angeles. La ricerca di Alexis Soul-Gray combina pittura, disegno e collage per indagare come l’immaginazione possa illuminare un percorso attraverso la tristezza e la perdita e come la curiosità e la sperimentazione facciano emergere strati nascosti, rivelando la vita emotiva dell’infanzia e come questa condizioni le nostre percezioni e risposte nell’età adulta. Appropriandosi delle immagini della pittura rinascimentale italiana e delle pubblicità che idealizzano la vita familiare di popolari riviste britanniche, Soul-Gray trova scene di donne e bambini, scegliendoli per la loro qualità artificiale, “dove la famiglia è spesso falsificata ma anche, in qualche modo, sentita”. Quindi disegna delicatamente momenti inquietanti che sembrano inaspettatamente reali, ad esempio uno sguardo all’indietro o un gesto giocoso. Per sfondare la superficie di queste composizioni scenografiche e stilizzate, Soul-Gray cancella la facciata strofinando, raschiando o persino utilizzando sostanze chimiche caustiche come la candeggina. Dipinge o fa collage sulle figure nel tentativo di ricostituire la loro umanità non studiata e penetrante. Man mano che le immagini sbiadite diventano più trasparenti, traspare la consistenza rassicurante della tela, del lino o della carta. Attraverso veli luminescenti di blu e oro, i figli di Soul-Gray, intrappolati in una visione del passato, emergono improvvisamente in superficie con un’esplosione di realistico realismo. Per miart, Soul-Gray ha dipinto, ed espone nello stand di Bel Ami, una nuova serie di sette piccoli ritratti di donne e bambini, facendo riferimento al delicato legame tra la Madonna e il bambino. I dipinti sono peraltro appesi su pareti dipinte di blu cobalto, a simboleggiare la purezza della pittura rinascimentale. Nel lavoro di Alexis Soul-Gray, lo stesso blu diventa il colore dell’elaborazione del dolore e dell’arrivo in un nuovo luogo.
Quello di Eidos è uno degli stand più particolari: la galleria ha infatti sviluppato un dialogo tra due artisti, Mario Schifano e Nam June Paik, entrambi attivi negli anni Settanta ed entrambi in grado di esplorare il medium della televisione e il flusso incessante di informazioni e immagini che ci ha condotto nell’era di internet. La loro visionarietà ha permesso loro di anticipare l’era in cui ci troviamo immersi. Schifano durante gli anni Sessanta e Settanta, abitava in uno studio dominato da decine di televisori sempre accesi, che riversavano costantemente un flusso di immagini nel suo spazio visivo. Con la serie dei “Televisori”, Schifano è stato uno dei primi artisti a sperimentare con i media per creare un nuovo linguaggio artistico, focalizzandosi sulla velocità delle immagini e sulla capacità di catturare frammenti per costruire nuove narrazioni. Nam June Paik, anch’egli attivo durante lo stesso periodo, ha dedicato la sua ricerca artistica principalmente alla televisione e al concetto di flusso delle informazioni. Concepiva l’arte come comunicazione globale, cercando di proporre nuovi modelli artistici al di fuori dei canoni tradizionali. Nelle sue performance, la televisione diventava un oggetto metafisico, sia contenitore che contenuto, trasformandosi in una sorta di scultura robotica che interagiva immediatamente con gli spettatori.
Decisamente curiosa la proposta di Carlo Virgilio che imposta tutto lo stand sul tema “parentele”, attraverso una mostra intitolata. “Parentele. Sei storie di famiglia”. Famiglie di artisti: l’idea è quella di raccontare i sentimenti, gli affetti, i contrasti, le gioie e le stanchezze. Ecco le coppie di artisti: Adolfo Wildt e Francesco Wildt (padre e figlio), Giorgio De Chirico e Alberto Savinio (fratelli), Nino Bertoletti e Pasquarosa (marito e moglie), Paola Consolo e Gigiotti Zanoni (moglie e marito), Pasquale Di Fabio e Alberto Di Fabio (padre e figlio), Isabella Ducrot e Giuseppe Ducrot (madre e figlio). Opere di artisti che attraversano le epoche, dai primi del Novecento fino al contemporaneo, con artisti spesso da riscoprire e ancora da studiare (a cominciare da Francesco Wildt), e che figurano tra le proposte più interessanti di questa edizione di Miart.
Una mostra monografica di Anna Boghiguian è la proposta della Galleria Franco Noero, che esplora il multiforme universo artistico dell’artista nata al Cairo attraverso dipinti vibranti e... sculture di uccelli che pendono dal soffitto. La galleria torinese s’inserisce nella sezione Portal con uno stand interessante e raccolto che offre uno sguardo profondo nella produzione recente dell’artista di origini armene. Anna Boghiguian crea un dialogo universale, affrontando temi come la migrazione, l’identità e la memoria, riflessi di una vita errante, con efficace immediatezza.
Degli stand dedicati a esposizioni più articolate, quello di Kaufmann Repetto è sicuramente uno di quelli più scenografici, non fosse altro per le enormi tele dell’argentina Vivian Suter, con i loro colori intensi che ricordano quelli delle foreste tropicali nelle quali l’artista a lungo ha vissuto, oppure i grandi fiori di Lily Van der Stokker, opere femminili e spensierate ma allo stesso tempo anche abbastanza ambigue. La selezione si completa con oepre di artisti come Adrian Paci, Elene Chantladze, Anthea Hamilton, Latifa Echakhch e diversi altri.
La galleria pietrasantina Marcorossi presenta un solo show dedicato a Giosetta Fioroni: da non perdere soprattutto i teatri in ceramica, tipici della produzione di un’artista che si distingue per le sue opere intrise di atmosfere fiabesche, magiche e fantastiche, in grado di trasmettere un senso di meraviglia e incanto allo spettatore. Giosetta Fioroni, artista poliedrica, si distingue per la sua continua ricerca espressiva che abbraccia una vasta gamma di media artistici. Dai suoi primi lavori con gli argenti degli anni Sessanta, ha progressivamente esplorato nuove strade artistiche, passando dalla pittura su tele e disegni realizzati con smalti e vernici industriali all’utilizzo dell’alluminio come supporto per le sue opere. Le ceramiche fanno parte delle sue ricerche più recenti: un percorso intrapreso dal 1993, con una produzione iniziata presso la rinomata Bottega Gatti di Faenza.
Tre artisti ben amalgamati compongono lo stand di Paris-B. Laura Garcia Karras, nata in Francia nel 1988, con le sue piante curate e alcune vecchie tavole botaniche a farle compagnia, propone dipinti che rivelano le viscere dell’idea con una pittura morbida e gestuale allo stesso tempo. Jacques Julien, francese classe 1967 di Lons le Saunier, con le sue opere combina in modo umoristico l’analitico e il poetico. Per lui, la scultura è un punto di partenza verso il doppio invisibile, il corpo mancante o la figura vuota. Dagli anni Novanta, ha sviluppato una riflessione sulla forma: la sua elaborazione, realizzazione e abbandono. Di conseguenza, il suo lavoro ruota attorno alla pratica della scultura in studio, dove il tempo passa e si perde alla maniera della vita ch vi si svolge, dove l’opera è una serie di esperimenti empirici che cercano di trovare una forma di autonomia in sintonia con il territorio che l’ha fatta nascere, con il rapporto con lo spazio che rimane al centro della sua interrogazione. Infine, ecco Léa Belooussovitch, nata a Parigi nel 1989: partendo tipicamente da un’immagine violenta trovata nei media e derivata dall’attualità, l’artista ne fa un doppio, un’alternativa, sottoponendo l’immagine iniziale a una serie di trasformazioni che la decostruiscono definitivamente. Dall’immagine originaria chiara e meccanica, dunque, l’opera risultante diventa lanuginosa, vellutata, quasi polverosa, formando nuvole di colore che si fondono l’una nell’altra, al punto che, senza conoscerne l’origine, si potrebbe pensare di trovarsi di fronte a un’immagine puramente astratta.
Sans Titre presenta una mostra personale dell’artista tedesco Robert Brambora, classe 1984. La mostra unisce due serie complementari di lavori sviluppati dall’artista nell’ultimo anno. Paesaggi urbani contemporanei si sovrappongono a sculture in ceramica dall’aria serena e contemplativa. La serie di lavori, completata dalla carta da parati sullo sfondo, invita a un dialogo sui contrasti presenti nel mondo oltre la fiera. Ispirata al romanzo Le città invisibili di Italo Calvino, la serie di dipinti su legno di Brambora ritrae paesaggi urbani ed è stata prodotta utilizzando uno stile neoimpressionista caratterizzato da una combinazione di tecniche tradizionali e contemporanee. Scene di città avvolte dallo smog evocano gli effetti del cambiamento climatico, incendi, forti piogge e scene apocalittiche conferiscono un’atmosfera fantascientifica. I dipinti di Brambora richiamano un ambiente fortemente surreale, suscitando al contempo un senso di solitudine, desolazione e noia: aspetti familiari a chi abita i vasti e impersonali paesaggi urbani delle città capitaliste contemporanee. Sopra alcuni di questi paesaggi dipinti appaiono frammenti di testi digitali e pubblicità futuristiche generate dall’intelligenza artificiale. I testi sono sovrapposti ai dipinti tramite tecniche di stampa UV e creano un effetto visivo particolare, unendo l’industriale con il fatto a mano, l’intelletto con l’affetto. La carta da parati, anch’essa disegnata da Brambora, ritrae lingue che s’intrecciano, a simboleggiare la diabolicità e il tumulto degli ambienti urbani. In netto contrasto con le immagini distopiche e frenetiche dei dipinti, troviamo altre opere di Brambora: grandi orecchie dorate di ceramica. Queste sculture evocano un profondo senso di serenità, quiete e meditazione. Nel frenetico contesto di una fiera d’arte vogliono invitare gli spettatori a riflettere sula natura delle sensazioni e della ricettività.