di
Federico Giannini, Ilaria Baratta
, scritto il 07/10/2018
Categorie: News Focus / Argomenti: Politica e beni culturali - Patrimonio
Manifestazione per la cultura del 6 ottobre, la più grande di sempre per il lavoro culturale: i volti e le storie di chi era in piazza, le rivendicazioni, le proposte.
La freschezza, la risolutezza, lo sguardo alto e fiero di chi s’è appena affacciato sul mondo del lavoro saggiandone già tutte le contraddizioni, ma con la voglia di provare a cambiare il corso della partita giocando al meglio e con convinzione le proprie carte. L’orgoglio, la dignità, la rabbia di chi invece si fa carico dei tanti anni d’esperienza e combatte tanto per garantirsi un diritto al futuro, quanto per solidarizzare coi colleghi più giovani, per aiutarli, per sostenerli. Piazza Mastai a Roma, punto d’arrivo della manifestazione del 6 ottobre, la più grande di sempre per il lavoro culturale, è un crogiolo di storie diverse. Un sabato mattina d’inizio autunno cominciato sotto il segno d’una pioggia battente che non ha però fermato i tremila lavoratori scesi in piazza per chiedere condizioni di lavoro migliori, il riconoscimento della propria professionalità, più adeguate gratificazioni economiche, e soprattutto per sottolineare quanto sia essenziale la cultura nella vita d’un paese democratico.
Quello della cultura è un corteo che unisce. Italiani e stranieri. Giovani e meno giovani. Ceti sociali diversi. Anche appartenenze politiche diverse. E poi, tutte le professioni. In piazza Mastai ci sono gli attori e i musicisti, gli archeologi e gli storici dell’arte, i bibliotecari e gli archivisti, i ballerini e gli artisti del teatro, e ancora professionisti dei cori e delle orchestre, i registi, i lavoratori della televisione, dei musei, della comunicazione, dell’editoria, ci sono i restauratori, gli antropologi, gli storici, e ci sono anche tantissimi studenti che sono arrivati a Roma da ogni parte d’Italia per unirsi ai lavoratori, in un grande abbraccio solidale che travalica le età, le differenze sociali, le origini culturali. Mentre scattiamo alcune fotografie troviamo Laura, una giovane lavoratrice dello spettacolo, che sottolinea l’importanza di quest’unità. “È la prima manifestazione in Italia del nostro settore, ed è la prima volta che assistiamo a un’unione così intensa di tutti i lavoratori della cultura. È importante rimanere uniti, perché uniti riusciamo ad affrontare meglio le questioni che ci riguardano, dallo sfruttamento ai tagli, fino ad arrivare alla scarsità di lavoro. Da questa piazza vogliamo ricostruire un qualcosa per poter affermare i nostri diritti. E come assunto di base c’è il fatto che la cultura è importante per lo sviluppo di una società più equa, più libera, più critica”. Le fa eco Elisabetta, restauratrice. Ha da poco finito gli studi. “Ho fatto un dottorato di ricerca”, ci racconta, “e poi... un anno di volontariato. Non ho mai avuto un impiego fisso, stabile”. E in realtà Elisabetta potrebbe anche aver diritto a quell’impiego fisso e stabile che sogna, perché nel 2016 ha partecipato al concorso del Ministero dei Beni Culturali per il profilo di restauratore: le prove sono finite nel novembre del 2017, e da allora lei e i suoi colleghi (in tutto quasi duecento) aspettano ancora le graduatorie. “Ormai è trascorso un anno, e da un anno ci tengono sospesi. Ma, parlando più in generale, il problema è che non s’investe abbastanza, c’è gente molto formata che non riesce a trovare un lavoro nonostante i nostri beni culturali abbiano bisogno di molte cure”.
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Momenti della manifestazione per la cultura del 6 ottobre |
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E se ci sono molti, come Elisabetta, che un lavoro non ce l’hanno e lo vorrebbero, c’è anche chi un lavoro ce l’ha già, e magari è anche stabile, ma è consapevole del fatto che la politica nutra uno scarso interesse nei confronti del settore. Giuliano, per esempio, è un lavoratore del Carlo Felice di Genova ed è arrivato col suo gruppo proprio “per mettere in evidenza il fatto che ci sia poca attenzione per questo nostro comparto. Le nostre esperienze con il precedente ministro sono state disastrose: sembra brutto dirlo, ma finora chi doveva salvaguardare la cultura ha fatto solo danni al nostro settore, e adesso possiamo solo sperare che chi è appena arrivato faccia meglio di chi lo ha preceduto. Perché i continui tagli al FUS, il Fondo Unico per lo Spettacolo, hanno gettato molti di noi in condizioni di precarietà economica. Senza soldi i teatri non vanno avanti”. Elena, invece, lavora alla Soprintendenza di Cagliari ed è in piazza con i suoi colleghi, perché dopo la riforma Franceschini le condizioni di lavoro si sono fatte più difficili: mancato turn-over, competenze unificate e quindi situazioni più caotiche e, altra faccia della medaglia, il personale che un tempo faceva capo alla Soprintendenza per i beni culturali diviso tra le nuove soprintendenze “olistiche” e i musei. “Siamo qui a protestare”, ci fa sapere, “perché chiediamo che venga abolita la riforma Franceschini che ha separato i musei dalle soprintendenze e ha unificato, come fossero la stessa cosa, attività totalmente diverse come la tutela archeologica, quella del paesaggio e quella dei beni artistici, e di conseguenza chiediamo che ci diano quell’autonomia che ci serve per lavorare. Perché adesso ci stiamo cannibalizzando tra di noi, e non stiamo lavorando bene”. In piazza incontriamo anche chi un lavoro ce l’aveva, per quanto precario, e lo ha perduto. Ci imbattiamo in due delle lavoratrici della Fondazione Magnani-Rocca al centro del caso assurto all’attenzione delle cronache nazionali alcune settimane fa. “Siamo qui per chiedere condizioni di lavoro migliori, per avere un minimo di tutela”, ci dicono. “Perché da un momento all’altro ci siamo ritrovate senza lavoro. E fino ad ora la nostra storia è la storia di un precariato sottopagato nel settore della cultura, senza alcun tipo di tutela o di garanzia, a fronte di un livello di professionalità alto, ma non riconosciuto. Un precariato che si è protratto per quasi otto anni”. Le due giovani, entrambe storiche dell’arte, sono sfiduciate. “Al momento non ci sono prospettive per il futuro. Continuiamo a inviare curricula ma nel nostro settore è veramente molto difficile”.
Ci sono poi tanti volti giovanissimi: alcuni di loro siedono ancora tra i banchi dell’Università, altri invece, malgrado l’età, hanno già avuto esperienze negative. Mentre finiamo un’intervista, un ragazzo ci nota e ci chiede di raccontare la sua storia. Si chiama Fabian, ha solo vent’anni, è arrivato da Bologna e fa il musicista. Finora ha lavorato con contratti di co-produzione: nel suo caso, ci racconta, le aziende hanno sempre scaricato parte del rischio imprenditoriale su di lui, chiedendogli di far fronte a una parte dei costi di produzione. “Noi musicisti, in Italia, semplicemente non siamo considerati lavoratori, non abbiamo uno statuto. Vorrei che si sapesse che la nostra è una situazione davvero poco entusiasmante. Spesso, i locali in cui ci esibiamo e le etichette discografiche non ci pagano, ma addirittura chiedono di pagare: le aziende chiedono a te di corrispondere qualcosa e chiedono percentuali sulle vendite dei brani, o addirittura i locali, per farti suonare, vogliono essere pagati. Ho visto locali che pagavano tutti i loro lavoratori, dal barman agli addetti al volantinaggio per la serata, tranne i musicisti. In Italia purtroppo è così: noi musicisti siamo considerati un po’ come i giullari di corte”. Narrano vicende del tutto simili anche gli attori. In piazza troviamo Carolyn, una giovane attrice che ha da poco cominciato a lavorare ma è consapevole dei problemi con cui si andrà a scontrare e con cui si sta già scontrando. Mentre sul palco di piazza Mastai si alternano gli interventi dei relatori, lei ci parla delle sue esperienze: “ci troviamo ad aver spesso a che fare con prove dichiarate e non pagate. E soprattutto con un sistema lavorativo che difficilmente prevede contratti regolari. A volte basterebbe anche soltanto entrare in una compagnia per avere qualche garanzia in più. Molti di noi invece vengono chiamati solo in base agli spettacoli, con contratti che si limitano al singolo spettacolo. E questa assenza di continuità non ci permetterà in futuro di arrivare a una pensione”.
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Momenti della manifestazione per la cultura del 6 ottobre |
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Come detto, anche gli studenti sono scesi in piazza per sostenere i lavoratori. E non c’è solo chi studia nelle facoltà umanistiche: Marco è arrivato da Padova insieme a un gruppo di amici. È uno studente di medicina, ma con tutti gli altri suoi compagni di studî d’ogni corso condivide l’incertezza sul futuro. “Sono qui perché molti di noi, malgrado anni di studio e di formazione altamente specializzata e professonalizzante, e quindi dopo anni di sacrifici, spesso non riescono a trovare un lavoro che possa ripagarli. Questo penso sia un problema che riguarda tutti i settori. E poi, anche se studio medicina, sono convinto dell’importanza fondamentale della cultura per il nostro paese. Ed è quindi un dovere di tutti i cittadini chiedere alle istituzioni di fare di più per la cultura”. Tra gli studenti incontriamo Camilla, che fa parte del coordinamento universitario Link, una delle tante realtà che hanno garantito la loro adesione alla manifestazione del 6 ottobre. “Siamo qui in solidarietà ai professionisti dei beni culturali ma anche perché siamo quelli che oggi studiano per diventare archeologi, archivisti, storici dell’arte, operatori museali, restauratori, e vediamo un’assenza di via d’uscita dai nostri percorsi di studio, nel senso che ci dicono che dobbiamo continuare a formarci dopo la laurea, però non ci offrono grandi possibilità. La formazione post-laurea è fatta tutta di master a pagamento costosissimi, di scuole di specializzazione che non si sa bene a cosa servano perché sono una ripetizione del percorso precedente, e tra l’altro non prevedono neanche un sistema di diritto allo studio, dunque chi non se le può permettere non può accedere. Proprio per questo, vedendo quello che c’è dopo, tra sfruttamento del lavoro culturale, lavoro mascherato da volontariato, impossibilità d’immaginare un futuro degno, siamo qui in questa piazza. E poi siamo qui perché le nostre università, i nostri corsi, i corsi di beni culturali, sono messi a rischio: l’università ha subito un processo di definanziamento sempre maggiore e a soffrirne di più sono proprio le facoltà umanistiche, in particolar modo i dipartimenti di beni culturali. Soprattutto nel Meridione rischiano continuamente la chiusura, e questo è inaccettabile in un paese che del suo patrimonio culturale potrebbe fare una ricchezza enorme”.
Prima di lasciare la piazza ci fermiamo ad ascoltare gli interventi dal palco e facciamo un breve giro d’interviste tra gli organizzatori. Leonardo Bison, del collettivo Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali è tra coloro che più si sono prodigati per la riuscita della manifestazione. È a Roma con gli esponenti del suo gruppo ed è molto soddisfatto per come sta procedendo la giornata. “È emozionante”, ci dice, “è una manifestazione che solo tre o quattro anni fa sarebbe stata assolutamente improponibile, impensabile, con pullman che arrivano pieni da tutta Italia, con persone che decidono di partire la sera prima dalla Sardegna, dalla Sicilia. È una cosa incredibile e speriamo che sia la prima di una lunga serie... o sia l’ultima se il governo decide di fare quello che deve fare. Non so se quest’ultimo sarà lo scenario che dovremo attenderci: nel caso, noi saremo comunque sempre qui per affermare i nostri diritti, e saremo moltissimi di più”. Isabella Ruggiero, presidente dell’Associazione Guide Turistiche Abilitate, ci descrive invece le difficoltà della sua professione: “partecipiamo anche noi guide turistiche per chiedere al governo d’intervenire in maniera efficace e decisa su alcune problematiche che impattano tantissimo sul nostro lavoro e stanno togliendo lavoro. Innanzitutto il problema della progressiva privatizzazione dei monumenti pubblici, nel senso che la concessione di servizi nei monumenti pubblici purtroppo viene gestita in una maniera che diventa quasi privatistica, contro qualsiasi legge sulla concorrenza. E poi c’è il problema del volontariato che, usato in maniera indiscriminata nell’ambito dei beni culturali, va a togliere lavoro a tutte le figure, compresa anche quella delle guide”. Sul palco interviene Emanuela Bizi, Segretaria nazionale di SLC-CGIL, con un intervento particolarmente duro: “questo paese non ha mai pensato alla cultura come allo scheletro che lo regge, e se n’è sempre fregato delle condizioni che chiede ai lavoratori di questo settore. I lavoratori dello spettacolo non hanno diritti: è ora di finirla. I cittadini stanno vivendo un’involuzione culturale, la cultura si sta perdendo, e questa situazione dà origine a guerre intestine tra cittadini, e se si arriva a pensare che un immigrato che attraversa il mare, o che una donna che ha subito violenze, possano rappresentare dei competitor sul mercato del lavoro significa che non si sa più ragionare. Il Parlamento deve riconoscere diritti a tutti: basta con il lavoro gratuito”. Silvia Ruffo, cantante lirica del coro dell’Arena di Verona, parla a nome del Comitato delle fondazioni lirico-sinfoniche: “siamo un gruppo pluralista, abbiamo preferenze politiche e appartenenze sindacali diverse. Ma tutti insieme abbiamo voluto questa manifestazione per rivendicare la nostra dignità professionale, la vocazione civile e sociale che i nostri teatri dovrebbero avere. Da più di vent’anni subiamo leggi punitive da parte di governi di ogni colore, che mirano allo smantellamento del patrimonio culturale pubblico evidenziato dal rischio di declassamento delle fondazioni lirico-sinfoniche, con il famigerato articolo 24 della Legge 160, varata dal precedente governo. Hanno voluto attribuire ai costi fissi del personale dipendente il problema della crisi delle fondazioni liriche, mentre l’allora principale ragione di instabilità economica era determinata da investimenti inadeguati. Un esempio per tutti: l’Arena di Verona. Un intero corpo di ballo licenziato senza ricollocamento, il teatro filarmonico chiuso per due mesi all’anno per tre anni consecutivi, con orchestra, coro, tecnici, amministrativi a casa senza stipendio. Nel festival lirico estivo centinaia di precari storici con contratti a singhiozzo, con l’erosione dei loro diritti e gli stupendi decurtati. Ci appelliamo oggi alle istituzioni e al ministro Bonisoli per chiedere finalmente una svolta rispetto alle politiche culturali fin qui adottate. Il nostro patrimonio culturale è un bene di tutti, che genera ricchezza non solo nell’individuo e nella società, ma anche nell’economia, andando a contribuire, in ragione del 7% del Pil, con due miliardi di euro l’anno”.
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Momenti della manifestazione per la cultura del 6 ottobre |
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Del resto tra i manifestanti, chiamati a raccolta per un momento di confronto sui problemi delle professioni della cultura, vige la consapevolezza che manifestare per chiedere più cultura equivalga a manifestare per il bene comune: maggiori investimenti nel settore si traducono in ritorni economici di tutto interesse. La Fondazione Symbola ha calcolato che il comparto culturale italiano, nel 2016, ha prodotto quasi 90 miliardi di euro, con un effetto moltiplicatore sull’economia pari a 1,8: significa che per ogni euro investito in cultura se ne ricavano 1,8 di ritorno in altri settori. Di conseguenza, i quasi 90 miliardi ne attivano altri 160, per un totale di 250 miliardi di euro che corrispondono al 16,7% del valore aggiunto nazionale. La sfida che attende la cultura nel futuro è quindi doppia: da un lato riguarda il valore immateriale della cultura stessa, dall’altro il suo valore economico. “Abbiamo il dovere di guardare avanti”, sottolinea Federico Trastulli del sindacato UILPA-BACT, “e preparare il terreno su cui far sbocciare il prossimo futuro senza cadere in trappole comunicative ed evitando logiche settoriali. Il dettato costituzionale dell’articolo 9, per coloro che ci credono, è il faro del nostro incedere e dimostra, sia per la temperie politico-sociale che stiamo vivendo, sia per i bollettini che coinvolgono il nostro straordinario patrimonio, che c’è posto per tutti e necessità di tutti i professionisti della cultura, che è baluardo della democrazia, servizio pubblico essenziale, ascensore sociale, cibo per lo spirito, strumento di civiltà, luogo di rivendicazione e memoria identitaria”. La piazza del 6 ottobre, secondo Trastulli, ha dato luogo a un “piccolo miracolo”: “professionisti della cultura di settori diversi, pubblico e privato, contrattualizzati e precari che s’incontrano senza la presunzione di essere uno più importante dell’altro, ma con la convinzione, almeno questo io credo, di essere da domani l’uno più forte dell’altro perché uniti da una consapevolezza, che il settore culturale è nonostante tutto straordinariamente vitale”.
E affinché piazza Mastai non rimanga soltanto una cartolina, diverse sono le proposte che emergono dalla manifestazione. Lo stesso Trastulli lancia l’idea di un atlante delle professioni della cultura, che dovrà portare alla nascita di uno statuto dei lavoratori culturali, in modo che i lavoratori stessi risultino più coperti da diritti e garanzie. Le guide turistiche propongono una riforma dell’attuale sistema nazionale di abilitazione, i lavoratori del settore audiovisivo desiderano impegnarsi per la stesura di un contratto nazionale del loro settore, tutti gli altri propongono che, in mancanza del rispetto dei contratti nazionali, si attivino meccanismi che determinino la decadenza dei finanziamenti. Ancora, dalla piazza emerge la proposta di una ristrutturazione del MiBACT, che cancelli la riforma Franceschini e possa mettere i lavoratori di Soprintendenze e musei nelle condizioni di esercitare le loro attività senza che le competenze si sovrappongano. Viene poi ribadita la necessità di una legge che combatta in maniera decisa e il più possibile drastica il volontariato nei beni culturali, fissando dei paletti da non oltrepassare, così che il volontariato non diventi surrogato del lavoro. Quanto alle fondazioni lirico-sinfoniche, la piazza propone di rivedere il sistema di assegnazione delle erogazioni pubbliche, ritenuto inadeguato e fonte di molti problemi. C’è poi la volontà di fare in modo che l’Italia arrivi a investire in cultura somme pari all’1,5% del Pil (attualmente siamo invece fermi allo 0,7%). Ciò di cui tutti i manifestanti sono convinti è che non sia vero che non si possa fare niente per migliorare le sorti del settore. E che il 6 ottobre abbia segnato un punto di non ritorno: da adesso in poi, i lavoratori della cultura sono convinti che il settore dovrà muoversi unito, per rispondere in maniera adeguata alle sfide che il futuro presenterà. E le eventuali vittorie non saranno vittorie dei singoli, o del solo comparto: saranno vittorie che serviranno a tutto il paese.
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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati
Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da
Federico Giannini e
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