Il post che state leggendo è la mia traduzione di un articolo scritto da Anna Somers Cock e apparso l’altro ieri, 15 luglio, su The Art Newspaper. Qui il link per leggere l’originale. Un articolo che sicuramente fa riflettere sulla situazione di molti musei italiani. Buona lettura!
Stai pensando di andare a lavorare in un museo italiano? Non farlo.
Il direttore anglo canadese di Palazzo Strozzi di Firenze potrebbe essere un’altra vittima dei giochi di potere locali.
Da almeno quindici anni, i politici e i commentatori culturali italiani si stanno lamentando del fatto che i musei in Italia sono indietro rispetto a quelli americani e britannici: spesso sporchi, talvolta noncuranti delle loro collezioni, con pessimi apparati didascalici, espongono senza immaginazione, si buttano in insignificanti tentativi di espansione, e sono, tranne poche eccezioni, incapaci di attirare un grande e vasto pubblico.
Ogni tanto, viene incaricato uno straniero, come James Bradburne, nella speranza di portare un po’ di quel magico know-how, per poi disfarsene in un modo umiliante, distruttivo e non professionale; cosa che in America e in Gran Bretagna sarebbe inconcepibile.
Ci sono tre motivi perché questo accade: prima di tutto i musei sono visti come pedine politiche, da essere mosse nei giochi di potere locali; secondariamente, c’è la diffusa convinzione che bisognerebbe fare soldi direttamente dai musei e dalle mostre; in terzo luogo, l’idea sbagliata secondo cui i musei italiani sono rimasti indietro perché sono gestiti da studiosi e che se fossero sostituiti da manager tutti i problemi si risolverebbero.
In realtà, anche i musei perfettamente funzionanti non creano profitto, quasi nessuna mostra lo fa, e neppure un solo museo di arte in Gran Bretagna o in America è gestito da un manager. Il direttore del Metropolitan Museum of Art è specializzato in arazzi, il direttore del Tate è un esperto di arte contemporanea; perfino il J. Paul Getty Trust, un’enorme istituzione culturale che riceve una sovvenzione di 4,2 miliardi di dollari, ha nominato uno storico dell’arte come suo terzo presidente e capo esecutivo dopo due che erano amministratori.
Questi direttori detengono il potere, mentre figure manageriali di più basso rango li aiutano. Le commissioni non si immischiano in questioni esecutive, bensì garantiscono la sicurezza delle collezioni, autorizzano maggiori spese, raccolgono fondi, danno consigli e solitamente appoggiano il direttore.
Tre recenti casi italiani
La direzione del Museo Egizio di Torino
Nel 2005 l’egittologa Eleni Vassilika, anglo-americana, fu nominata direttrice del Museo Egizio di Torino, quando questo da statale diventò un museo gestito da una fondazione, il primo di questo tipo in Italia. La sua numerosissima commissione, che rappresenta l’amministrazione locale e la fondazione bancaria che ha in parte finanziato il museo, discusse sulla questione di avere un direttore-studioso o no, arrivando al compromesso di nominare Vassilika con un contratto di due anni seguito da un paio di contratti annuali, tempo estremamente breve per qualsiasi direttore per rendere effettivo qualsiasi cambio radicale. La danneggiarono ancora di più riconfermandola per solo un mese o due prima della fine di ogni contratto. Il presidente della Fondazione, Alain Elkann, membro della influente famiglia Agnelli, intervenne nell’amministrazione quasi quotidianamente. Eleni Vassilika fu anche soggetta a fastidiose limitazioni, come l’aver dovuto chiedere l’autorizzazione, ogni volta che aveva la necessità, di trasferire un’opera d’arte a funzionari statali contrariati; spesso doveva aspettare settimana per ricevere una risposta. Nonostante ciò, da museo con uno scarso apparato didascalico, una pessima cura delle sue collezioni e meno di trecentomila visitatori all’anno, Eleni Vassilika lo trasformò in un museo all’altezza di un curatore internazionale e capace di attirare 540.000 visitatori all’anno.
Malgrado questo, dopo un cambio nella presidenza del consiglio di amministrazione, nel 2013 le fu detto che doveva concorrere apertamente per il lavoro. In effetti venne sostituita da Christian Greco, un egittologo italiano dell’Università di Leida. Vassilika è direttrice-curatrice del National Trust, che è a tutti gli effetti la direzione del più grande museo diffuso della Gran Bretagna.
La presidenza dei musei civici di Venezia
Nel 2010, il sindaco uscente di Venezia Massimo Cacciari nominò David Landau presidente di commissione dei suoi importanti musei civici. Landau, che vive a Venezia, è nato a Israele, ma è stato educato in Italia. Co-autore del saggio fondamentale sulle stampe del Rinascimento italiano, imprenditore molto affermato, ex amministratore fiduciario della National Gallery di Londra e presidente della sua società sussidiaria, era inconfondibilmente ben qualificato per questa posizione. Tre mesi dopo il successivo sindaco Giorgio Orsoni (che rassegnò le dimissioni lo scorso mese dopo esser stato arrestato per aver accettato fondi illeciti) gli diede il benservito mandandogli la polizia locale per licenziarlo. La colpa di Landau: aver esaminato troppo attentamente decenni di debole amministrazione e aver cercato di mettere fine al fatto di affittare le gallerie a chiunque potesse pagare la quota. Nonostante questo schiaffo, Landau e sua moglie hanno continuato a coordinare Le Stanze del Vetro, l’unico spazio dedicato a mostre sull’arte vetraria del Novecento e contemporanea, finanziato interamente da loro stessi.
La direzione del Castello di Rivoli di Torino, museo di arte contemporanea
In questo caso, la politica locale riuscì a deridere una procedura di consultazione internazionale, a risparmiare il tempo delle persone sottoposte a colloquio per il lavoro e a mettere sottosopra la direzione di un museo che aveva acquisito fama internazionale, riducendola a un’importanza locale.
Il pensionamento di Ida Gianelli, direttrice molto competente di questo museo, mise fine a una produttiva collaborazione con Carolyn Christov-Bakargiev, sua vice, nominata curatrice di Documenta 2012. Carolyn Christov-Bakargiev restò nel 2009 per gestire la ricerca di un nuovo direttore, chiedendo a numerose personalità, come Nicholas Serota del Tate e Udo Kittelmann, direttore della Nationalgalerie di Berlino, di proporsi come candidati. Molti, sia italiani che stranieri, furono sottoposti a colloquio e venne scelto Jens Hoffmann, allora direttore del CCA Wattis Institute for Contemporary Arts di San Francisco.
Ma Gianni Oliva, assessore alla Cultura del Consiglio Regionale del Piemonte, che ottiene 4 milioni di euro all’anno per il Castello di Rivoli, insistette perché il suo protetto, il direttore della fiera di Torino Artissima, Andrea Bellini, che non era stato nominato dagli esperti, avesse l’incarico. Il consiglio annunciò una doppia dirigenza, ma Hoffmann si ritirò, affermando che le condizioni del lavoro erano cambiate da quelle dette in precedenza. Beatrice Merz, capo della locale Fondazione Merz, prese il posto di Hoffmann, sebbene il contratto come direttrice terminasse alla fine del 2012; Andrea Bellini lasciò nel giugno 2012. Un tentativo nel 2013 di trovare un nuovo direttore fallì a causa di “mancanza di candidati internazionali”. Carolyn Christov-Bakargiev, una delle più illustri curatrici del mondo, disse: “Il consiglio del Castello di Rivoli non ha mai suggerito che io diventassi membro del Consiglio o rimanessi in contatto col museo in qualche modo. Se lo avessero fatto, probabilmente avrei considerato l’idea di concorrere per la direzione”.
Correzione: l’articolo originale ha erroneamente riportato che Andrea Bellini, ex co-direttore del Castello di Rivoli, sarebbe stato proposto come candidato da nessun esperto. La notizia non è vera, e The Art Newspaper si scusa per l’errore.
L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta
Giornalista, è co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. È nata a Carrara nel 1987 e si è laureata a Pisa. È responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.