La quarta puntata di Diario Romagna è dedicata prosegue con le testimonianze di due botteghe della ceramica di Faenza, una storica, la Ceramiche Lega, attiva dal 1950, e una giovane, la Pantoù Ceramics, aperta nel 2022. Il racconto dei gestori e dei volontari che hanno lavorato e faticato per salvare le loro attrezzature e la loro produzione dal fango dell’alluvione che ha colpito la Romagna lo scorso 16 maggio.
I colori erano spariti. Il verde e il rosso ramato degli smalti, il bianco panna degli stampi in gesso, il marrone del biscotto erano tutti stati sostituiti da un unico tono grigio-marrone.
Tutto era stato rovesciato, spaccato, rimestato, frantumato e ricoperto dal fango.
Per noi é stato istintivo metterci stivali, guanti e rimboccarci le maniche.
Possono esserci molte parole chiave per quei giorni: fatica, sudore, sporco, spingere, spostare... Ma sopra a tutte vincono queste: scoprire, ridere, abbracciarsi, brindare, gioire, aiutare. Ci siamo sentiti parte di una grande, caotica, famiglia.
È martedì 16 Maggio, in ufficio a Milano le notizie parlano di forti piogge in Romagna con probabili esondazioni dei fiumi, addirittura alluvioni… “Elisa, com’è la situazione a casa dai tuoi?” chiedono gentilmente i miei colleghi. Non so nulla più di loro, che paura, prendo coraggio e chiamo casa. Stiamo bene, dice mio babbo, ma i vigili hanno bussato alla porta per farci evacuare: “andiamo a dormire da tuo zio Orfeo stasera, ma è solo per precauzione”. A Ravenna sarà anche una precauzione, ma tutto intorno l’acqua sta arrivando. I fiumi hanno rotto gli argini, l’acqua e il fango invadono strade, case, terreni, canali agricoli, negozi… tutta la Romagna è sott’acqua, tutto è distrutto.
Se parto adesso riesco ad arrivare? Chiedo ad amici e parenti. Niente da fare, la ferrovia è interrotta, le strade lo stesso. Raccogli beni di prima necessità a Milano, che qui scarseggiano, e vieni a portarli appena si potrà, mi dicono. Lo faccio, certo che lo faccio, ma non può bastare questo… voglio aiutare chi ha perso tutto, devo aiutare chi ha perso tutto. E poi, a dirla tutta, sono io che ho bisogno di aiutare chi è lì in mezzo a questo disastro, sono io che da lontano non posso respirare se la mia Romagna, la mia casa, è in ginocchio.
“Marti come va?” chiedo. “Di merda, il lab è sommerso”. I miei occhi sono pieni di lacrime in una frazione di secondo. Martina è una giovane ceramista faentina, che porta avanti la tradizione del nonno Leandro Lega insieme alla mamma Carla. I loro lavori mi hanno colpita dritta al cuore: un giorno di dicembre vagavo per Faenza con lo zio Orfeo che voleva farmi un regalo, ho visto i loro lavori e sapevo già che uno di quei pezzi meravigliosi sarebbe finito a casa mia. Quello che non sapevo è che in negozio avrei trovato proprio Martina: schietta, appassionata e coinvolgente … mi ha fatto lo stesso effetto delle sue ceramiche, amore a prima vista! Non è che per caso, dico per caso, l’arte rispecchi la personalità di chi la realizza? Non so eh, dico io. Comunque, gran parte del lavoro, dell’arte, delle fatiche di questa famiglia sono adesso sotto metri di fango… e io non posso fare altro che piangere. No ma che cosa sto dicendo? Siam romagnoli noi, oh! Marti, appena liberano le strade vengo da te ad aiutarvi. Quando arrivo trovo una comunità di decine di persone che si danno da fare, ognuno a suo modo: lava gli stampi, ramazza per terra, vai di “idro”, oddio ma fin dove è arrivata l’acqua? Fino al soffitto, e oltre fino al piano di sopra! Il fango è ovunque, anche dove non pensavi potesse arrivare. Oddio ma i vasi del nonno? Li stiamo lavando, molto si è salvato per fortuna! E da lì arriva l’energia, dai vasi del nonno che hanno resistito a questo disastro, se ce l’hanno fatta loro ce la possiamo fare anche noi. Siamo insieme, siamo tanti, amici di vecchia data e sconosciuti che diventano amici dopo un minuto soltanto: chi porta salami, ciccioli, ciliegie, chi il vino, chi attrezzi per pulire, chi un sorriso. Le chiacchiere e le risate non mancano, non c’è tempo e non c’è spazio per lo sconforto, c’è da fare. E facciamo, tanto. Martina, Carla e tutta la famiglia ci dicono grazie ogni minuto, ma la risposta non è mai quella ti aspetti, non è mai un “prego”. Abbiamo invece “smettila”, “basta”, “hai finito?”, “e che palle ‘sti grazie”: non possiamo accettare un grazie perché non siamo lì per loro, siamo lì per noi, per tutti noi, per tutta la Romagna. E non finisce qui, c’è e ci sarà ancora tanto da fare, tanti problemi e difficoltà da affrontare, ma ce la faremo, Noi.
Arrivo a Faenza la sera del 17 giugno, dopo un lutto famigliare. Corro a vedere la zona dove la mia amica Elvira ha la casa... aveva? Un lago beige, che brutto colore.
Il giorno dopo arriviamo nella sua casa, passando tra fango e tanta gente che aiuta. Quando entro in casa vorrei piangere ma vengo sgridata, trattengo e per dieci giorni io e Andrea siamo incaricate di scegliere tra i vestiti di tutta la famiglia cosa tenere e cosa buttare, e poi lavatrici e lavasecco per giorni. Anche una collega ha bisogno e lo facciamo anche per lei.
“Shock emotivo” è il titolo di una mia opera: ecco, siamo di fronte a tutto questo. Alcuni si fanno sopraffare dal panico, e come in natura si congelano, si fanno morti. Altri reagiscono subito e l’adrenalina diventa contagiosa, in molti aiutano. Guardando l’evento da un altro punto di vista penso che la natura mostra la sua forza, il suo potere, l’uomo comprende che comanda lei.
Dal punto di vista simbolico il fango, il buio copre tutto, l’acqua che è fonte di vita può essere portatrice di morte. Lavare, lavare, lavare per giorni riporta la luce, il rinnovamento, guardi con distacco a cose che consideravi fondamentali, un processo doloroso, profondo ma assolutamente potente in termini di rinascita.
Non ero in città quando il fiume Lamone – che ho spesso guardato con fascinazione – ha esondato. Le arterie che ammorbidiscono le nostre cittadine bloccano sempre la mia attenzione; mi soffermo su ogni dettaglio (riflessi, profondità trasparenze, forme...)
Negli ultimi mesi ho attraversato il Lamone per andare a lavorare nella bottega Lega da Martina e Carla e, anche in quelle occasioni, mi sono sempre soffermato a controllare il suo aspetto.
Quattro giorni dopo l’alluvione sono rientrato a Faenza con molta preoccupazione, mista a voglia di poter essere di aiuto davanti a un evento per me completamente sconosciuto.
All’arrivo dall’autostrada ci accoglie una nuvola di polvere che avvolge la città.
Rimango in silenzio.
Il primo giorno che ho attraversato di nuovo il Lamone per andare da Martina non sono riuscito a fermarmi a osservarlo. Mi sembrava ingiusto di fronte a quello che stavo vedendo attraversando la città.
Arrivato alla bottega ogni parola che mi usciva era così banale di fronte a ciò che stavo vedendo. Carla mi ha accolto con un sorriso e per qualche secondo si è rimasti in silenzio... poi mi dice: “Le tue ceramiche si sono salvate!!”. Martina era coperta dal fango e con grande energia, che la caratterizza in ogni situazione, mi ha salutato con un sorriso amareggiato.
Intorno a loro c’era un luogo irriconoscibile, dove solo due settimane prima avevo visto nascere lavori con il loro supporto e la loro calorosa compagnia.
La stessa calorosa compagnia l’ho ritrovata, nonostante la tragedia, nelle persone che stavano aiutato a ridare una vita a quel luogo. Tutte persone che volevano riportare in vita un luogo che da generazioni non fa solo della ceramica, ma crede nella comunità.
Sono stati giorni cui in cui ho spalato, lavato, sollevato, trascinato, sorretto, gettato, tutte azioni richieste al corpo: la mia mente era finalmente a disposizione per assistere e non a prendere il sopravvento.
In quella bottega ho visto cosa le persone possono fare ed essere se fermano il sopravvento della mente. Aiutarsi significa ascoltarsi e ciò che ho imparato in quelle settimane è sentire attraverso il mio corpo ciò che può fare una comunità. Aiutarsi. Sono tornato a osservare senza sensi di colpa il Lamone che è irriconoscibile, ma sono sicuro che tornerà a risplendere così come la bottega Lega.
Il 16 maggio 2023 Faenza, e tante altre città della Romagna, sono state completamente ricoperte dalla loro stessa famosissima terra, l’argilla. Tante case sono state riempite da questo fiume di argilla, e anche il nostro laboratorio non è stato risparmiato. Ceramiche, attrezzature, smalti, cabine, forni, mobili, libri, documenti, fotografie, tutto completamente immerso in un mare di creta che si è modellata sugli stampi di Leandro, che ha riempito i forni, che ha cambiato colore alle ceramiche e all’erba, che ha guidato macchine e che ci ha reso un unico vicinato senza muri.
L’immagine di quella strana mattinata sarà molto difficile da dimenticare, ma non scorderò nemmeno tutti gli oggetti, carte, documenti , pennelli, ceramiche, che mano a mano venivano trovate e recuperate. Vasi in biscotto e smaltati che galleggiavano, ciotole di colore completamente pulite che attaccandosi al soffitto non hanno fatto entrare l’acqua e il fango, appunti storici di mio nonno che hanno galleggiato e che probabilmente il fango ha protetto. Non li avrei mai trovati altrimenti, anche mia madre Carla non sapeva dove fossero. Pagine e pagine di smalti e di descrizioni di decorazioni, appunti di composizioni di smalti, ma anche appunti del censimento delle pecore che aveva nella sua casa in campagna la Fuga e bozze di testamento. “Si volevano far salvare”, è quello che mi dico spesso. Non c’è una chiara distinzione logica tra le cose salvate e le cose perse, ma quello di cui sono certa è che “mi è andata bene”, anche perché questa alluvione mi ha dato l’occasione di scoprire cose che probabilmente non avrei mai trovato. Ha ridato una vita a tante ceramiche e ha ridato un’occasione ai tanti appunti di prove e smalti.
Mi è andata bene anche perché mi ritengo fortunata. L’altra immagine che mi rimbalza, e che soprattutto mi commuove sempre, sono i volti di tutte le persone che sono venute ad aiutarci: decine di persone ogni giorno, amici, conoscenti, clienti, sconosciuti, parenti, colleghi, parenti degli amici, amici di amici, volontari da tutta Italia, chiunque si presentava con pala e stivali e iniziava a sporcarsi di fango dalla testa ai piedi per ricostruire insieme a noi. In quei giorni ho pensato spesso a cosa stesse pensando nonno Leandro. Ho pensato che sicuramente ci stava guardando e che ci stava sorridendo con il suo faccione buono. Ho pensato anche che stesse abbracciando tutti, e che portasse quella strana felicità e leggerezza che respiravamo durante le pause pranzo ricche di pasta e vino. Ci riposavamo proprio in quei luoghi che un tempo erano dedicati al ritrovo di amici di nonno per bere vino e fare chiacchiere e discutere di ceramica. Un grazie di cuore a tutti. Le parole non possono mai esprimere al meglio, ma ogni giorno quando entro in laboratorio respiro proprio quell’aria lì: la leggerezza, la gioia e la gratitudine per ognuno di voi.
Il nostro laboratorio di Via Fratelli Rosselli è abituato ad essere a contatto con l’argilla e la polvere, e per questo siamo sicure che si riabituerà alla nuova vita. Una nuova vita, una vita post alluvione che può solo essere migliore.
Siamo Ilaria e Giampaolo, giovani professionisti nel campo della ceramica artistica contemporanea, in coppia sia nella vita che nel lavoro. Siamo nati e cresciuti a Caltagirone, in Sicilia, e, seguendo il nostro desiderio di lavorare in autonomia, ci siamo trasferiti a Faenza per dare vita, con duro lavoro, determinazione e sacrifici, a Pantoù ceramics, il nostro marchio di ceramiche contemporanee artigianali, nato nel 2020. Ad agosto 2022 abbiamo aperto il nostro laboratorio, al piano terra di un palazzo storico in centro a Faenza, e ci siamo trasferiti nell’appartamento adiacente. Qui abbiamo vissuto e lavorato fino al giorno della seconda alluvione.
La notte del 16 maggio, dopo gli annunci della protezione civile, la nostra vicina e amica Marina ci ha invitati a spostarci nel suo appartamento al primo piano, proprio sopra il nostro. Ad ogni modo, nonostante l’allarme ricevuto, nessuno di noi abitanti del palazzo – quattro in tutto – si aspettava qualcosa di così grave.
Per precauzione, abbiamo portato con noi la nostra macchina fotografica, il computer portatile e il tablet. Poi, senza troppe preoccupazioni, abbiamo chiacchierato fin verso mezzanotte, quando ci siamo resi conto che l’acqua del fiume era arrivata fino al centro storico, e che il flusso convergeva proprio sotto il nostro palazzo! Allora ci siamo precipitati in laboratorio per cercare, confusamente, di fare qualcosa. Mentre l’acqua scorreva dall’androne verso l’interno, abbiamo messo in salvo, sul pianerottolo del primo piano, il tornio elettrico e un compressore, che usiamo per mettere in funzione l’aerografo con cui smaltiamo e decoriamo le ceramiche. Poco dopo, abbiamo dovuto abbandonare il piano terra e affrontare la notte, inermi, dormendo tutti quanti a casa di Alex, il nostro vicino del secondo piano. La mattina seguente, quella del 17 maggio, appena il livello dell’acqua si è abbassato, siamo scesi a controllare: sia l’abitazione che il laboratorio avevano subito danni gravissimi.
Subito dopo questa catastrofe, ci siamo sentiti incapaci di prendere qualunque decisione, anche la più banale. Poi, lo spirito di solidarietà ha svolto un ruolo fondamentale nel processo di elaborazione e di ripresa. Tutti coloro che ci hanno aiutato a sgomberare e a pulire gli spazi dove fino a poco prima avevamo vissuto e abitato, diventati impraticabili nel giro di minuti, rappresentano la prima manifestazione di generosità incondizionata che abbiamo ricevuto.
Durante i giorni successivi all’alluvione, oltre agli amici e ai conoscenti che sono venuti ad aiutarci, abbiamo incontrato anche molte persone che fino a quel momento non conoscevamo, anche loro venute a dare una mano come volontari. Il loro aiuto è stato molto importante dal punto di vista materiale e anche psicologico: prima del loro arrivo eravamo bloccati e non avevamo la lucidità per capire cosa fare e come. Con alcuni di loro (per esempio, Letizia, titolare di una libreria indipendente per bambini e ragazzi, venuta da Bologna insieme al fidanzato Paolo e alla sorella Maria ) ci siamo scambiati i contatti, con la promessa di rivederci presto.
Al momento [fine luglio, ndr] viviamo ancora a casa di Marina, che ci ospita da due mesi, nell’attesa di trovare un nuovo appartamento. Sentire la vicinanza di vecchie e nuove conoscenze, ma anche di enti pubblici e privati, sia di Faenza che di Caltagirone, ci ha dato la forza di ripartire.
Fortunatamente, tutti i nostri pezzi finiti sono rimasti intatti: hanno galleggiato nel laboratorio inondato. Appena l’acqua si è ritirata, i vasi, le brocche, le tazzine si sono appoggiati delicatamente sul pavimento e sugli scaffali. Lo stesso è accaduto agli oggetti all’interno del forno, che avevamo riempito qualche giorno prima. Ovviamente le nostre ceramiche si sono ricoperte di fango, ma, insieme ad amici e volontari, le abbiamo ripulite minuziosamente. Il Museo Internazionale della Ceramica di Faenza ci ha dato la possibilità di allestire uno studio presso il Palazzo Muky Matteucci, che stiamo condividendo con altri professionisti colpiti dall’alluvione. Questo fino a novembre, con eventuale proroga. È qui che abbiamo potuto spostare tutte le nostre ceramiche, gli scaffali, qualche utensile domestico e i nostri vestiti.
In queste circostanze paradossali, ci hanno cercato e trovato anche alcuni giornalisti. È stato strano e a tratti disorientante ritrovarci improvvisamente con le telecamere e i microfoni puntati addosso in un momento così traumatico e dover raccontare cosa avevamo perso e cosa ci stava succedendo, condividendo le nostre emozioni con dei professionisti fino ad allora sconosciuti e immaginando la presenza e le reazioni del pubblico che avrebbe visto o ascoltato quei minuti di reportage.
L’azienda Cannizzo Forni di Caltagirone ha scelto di aiutarci tramite la costruzione e la donazione di un nuovo forno elettrico per la ceramica. Nel frattempo, mentre aspettiamo che questo forno venga spedito, l’associazione Mondial Tornianti Gino Geminiani di Faenza ci ha dato la disponibilità di utilizzare gratuitamente i suoi spazi e le attrezzature da lavoro. Sono state molte anche le donazioni in denaro che abbiamo ricevuto. Siamo grati a coloro che ci hanno aiutato e che continuano a farlo.
Attraversando tutto questo, abbiamo sentito che il nostro lavoro, quello che abbiamo costruito e a cui ci siamo completamente dedicati negli ultimi anni, ha un valore non solo per noi ma anche per altre persone, che credono in noi al punto da aiutarci senza voler niente in cambio. Anche questo ci ha dato la forza e il coraggio di impegnarci nel portare avanti il nostro progetto. Sia come esseri umani che come artigiani, ci sentiamo più consapevoli dell’impermanenza della vita e ci sentiamo maggiormente di far parte di una collettività. Contrariamente a quello che abbiamo sentito dire e pensato fino ad ora, abbiamo scoperto che esiste molta solidarietà anche tra ceramisti.
Il nostro approccio alla vita quotidiana è decisamente cambiato: non possiamo fare programmi a lungo termine, quindi, per il momento, ci concentriamo sullo svolgimento di piccole mansioni giornaliere e sulla risoluzione di problemi immediati, nell’attesa di riprendere le nostre attività in modo più, come si suol dire, normale. Pensiamo che la strada sarà ancora lunga, sia dal punto di vista logistico che psicologico. Dopo questi eventi dolorosi, crediamo si sia salvato in noi anche il coraggio di portare avanti i nostri progetti di lavoro e di vita, un coraggio che da soli non avremmo mai potuto ritrovare.
Già prima dell’alluvione, avevamo voglia di realizzare ceramiche nuove: stavamo lavorando infatti su alcuni prototipi e su nuovi colori. Adesso, non vediamo l’ora di avere tutto l’occorrente per ricominciare a sperimentare, fedeli al nostro modo di essere e di fare.
Che il cambiamento climatico si stia imponendo nella nostra quotidianità, è davanti agli occhi di tutte le persone che abitano il mondo da almeno qualche decennio e si ritrovano all’interno di eventi prima raccontati solo nei film, nei servizi televisivi su Stati e Continenti distanti o all’interno di romanzi distopici. Quando, a Maggio scorso, ci siamo svegliati nel bel mezzo dell’alluvione che ha investito Emilia Romagna e Marche, non ci è sembrato possibile quanto ci circondava.
Paolo, Mariateresa ed io, rispettivamente di origine abruzzese, romana e lucana, siamo arrivati a Bologna tra il 2019 e il 2020. Qui abbiamo trovato una comunità solidale, una terra che rispecchia gran parte dei nostri ideali, che ancora offre opportunità e che sa essere riconoscente con chi la rispetta e se ne vuole prendere cura.
Non che da altre parti non avremmo fatto lo stesso ma, quando abbiamo visto in che modo l’alluvione aveva squarciato la vita di tante persone e di tanti luoghi, lacerandone l’aspetto e la memoria, in alcuni casi, non ci siamo dovuti neanche interrogare sul da fare: abbiamo acquistato il necessario per immergerci nel fango, spalarlo, buttare tutto quello che era diventato irriconoscibile e inutilizzabile, e ci siamo uniti alle altre migliaia di volontari. Paolo ed io non eravamo mai stati a Faenza e, quando l’abbiamo vista ricoperta di fango e polvere, con cumuli di mobili e sacchi di immondizia lungo moltissime strade (centrali, periferiche, a più corsie o unica), stracci e indumenti sulle cime degli alberi piegati dall’esondazione del Lamone, ci è sembrato di essere in uno scenario di guerra. Mariateresa, invece, ci era stata qualche settimana prima per una gita domenicale e, quando vi è tornata per prestare aiuto, ha avuto difficoltà a riconoscerne i tratti.
Per fortuna, le persone.
Sia la prima che la seconda domenica a Faenza, ci siamo ritrovati assieme a persone di ogni età e luogo: Fabien, un ragazzo di 30 anni circa, giunto dalla Francia appositamente per prestare aiuto; Rosi arrivata da Modena col marito e la figlia neanche ventenne; una coppia di pensionati giunti da Como; Michele, bolognese doc, che come noi ha dedicato le sue domeniche al volontariato; e poi tantissimi toscani, veneti, gente arrivata da ogni dove col solo obiettivo di aiutare con i propri mezzi chiunque vivesse lì.
Sotto al fango, la pioggia, che pure ci ha sorpresi la seconda volta, il buio degli edifici senza corrente e il puzzo stantio dei garage e delle cantine sottoterra, abbiamo trovato un’umanità bella, desiderosa di accompagnarsi, seppure nella catastrofe, per far risplendere vite e luoghi di civiltà nel minor tempo possibile. Un’umanità distante da quella indifferente e incarognita che più spesso viene raccontata sui media.
E poi Ilaria e Giampaolo.
Quando ci hanno raccontato la loro storia, abbiamo empatizzato immediatamente perché noi, Mariateresa ed io, abbiamo una mamma ceramista. Quindi ci è bastata un’occhiata veloce per capire quanto avevano perso, cosa doveva esserci stato e non c’era più in quello che era il loro laboratorio, oltre che in casa.
A loro e a tutte le persone che hanno visto affogare sacrifici, memorie, investimenti sul futuro, continuiamo a stare vicini col pensiero e con quello che, pure a distanza, si è potuto e si può ancora fare.
Nella speranza che il cambiamento climatico venga finalmente spostato all’apice delle priorità di qualsiasi classe politica, per evitare che aumentino le persone sconquassate da una tragedia ed evitare, perciò, che meno gente – oltre allo Stato – abbia la possibilità di aiutare.
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