Tra la fine del 2018 e il principio del 2019 ha ripreso vigore il dibattito sui processi di decolonizzazione culturale, espressione con la quale, riassumendo e banalizzando, s’intende la restituzione, ai proprî paesi d’origine, d’opere d’arte e oggetti sottratti in epoche di conquiste o di colonialismo. Questo almeno nell’ambito delle politiche museali: occorre infatti esser consapevoli del fatto che quella appena fornita è comunque una definizione riduttiva (la si potrebbe per esempio allargare andando a includere quelle politiche volte a ridurre la dipendenza culturale delle ex colonie nei confronti dei paesi dell’Occidente).
Si tratta certo di discussioni non nuove: già nel 1996 il sociologo ed economista marocchino Mahdi Elmandjra riteneva che la decolonizzazione culturale sarebbe diventata la “principale sfida del XXI secolo”, e in effetti lo è diventata: con sempre maggior insistenza s’è preso a parlare di modi, leggi e tempi per far tornare le opere conservate in Europa nei loro paesi d’origine (o anche più semplicemente ai loro legittimi proprietarî: si pensi alle opere trafugate durante la seconda guerra mondiale), e il dibattito s’è acceso soprattutto dopo che, nel novembre del 2018, l’economista senegalese Felwine Sarr e la storica dell’arte francese Bénédicte Savoy hanno presentato al presidente della repubblica francese Emmanuel Macron un report, compilato con la consulenza di molti esperti del settore, e intitolato Rapport sur la restituion du patrimoine culturel africain. Vers une nouvelle éthique relationnelle: il dossier, composto di duecentoquaranta pagine aperte da un’eloquente introduzione denominata Non c’è più niente d’impossibile, s’è posto lo scopo di approfondire lo studio della possibilità di dar vita ad azioni per ridefinire i limiti della presenza delle opere d’arte africane nelle raccolte museali francesi. Dopo la pubblicazione del rapporto, la discussione sulla decolonizzazione culturale s’è intensificata.
Bronzi del Benin al British Museum |
Alberta Dal Cortivo
Responsabile Dipartimento Educazione del MA – Museo Africano, Verona
L’argomento è sì molto interessante da indagare, ma di portata molto ampia, perché entrano in gioco riflessioni riguardo la geopolitica, l’attualità, la globalizzazione, la presenza in Europa di società sempre più multietniche. Prima di tutto bisogna considerare la varietà di contesti nel panorama museale dei diversi stati europei. Ad esempio in Italia, la quantità dei musei che espongono arti extraeuropee è certamente inferiore rispetto a quello che offre il panorama francese, e la maggior parte di questi sono formati da collezioni di istituti religiosi, missionarî. Quindi nascono, o dovrebbero essere nati, con l’idea di trasmettere, oltre ai valori artistici, anche un significato di comunicazione di quella che è stata l’azione missionaria di incontro tra persone, geografie, culture, religioni, diversità, tradizioni... sono musei portatori di messaggi educativi in chiave interculturale, che certamente si sono evoluti e modificati nel tempo, adattandosi alle diverse società che li frequentavano. Relativamente all’attualità, su questo dibattito, poco si è sentito parlare della funzione di questi oggetti e di queste esposizioni, ad esempio per le comunità di immigrati o delle seconde (o terze) generazioni che abitano in Italia, in Francia, in Belgio. Quanto ad esempio questo materiale artistico, in Europa può essere di aiuto nelle politiche di integrazione, valorizzazione delle differenze, accoglienza?
Sarebbe certo giusto e bello pensare a una pratica dell’arte che, con la restituzione all’Africa di tutti i suoi tesori artistici, facesse da apripista a tutta un’altra serie di atteggiamenti verso questo continente. Perché che senso avrebbe restituire all’Africa i suoi beni artistici, e poi continuare con politiche e interessi economici a sfruttare i suoi territorî accaparrandosi le sue risorse? Inoltre, se questo davvero avvenisse, dovrebbe essere una restituzione collegata a politiche di riconoscimento culturale e sua valorizzazione fatte in primis dagli stessi politici e governi africani. Dovrebbero esserci piani di governance del patrimonio artistico, rispettando e ricercando politiche culturali, proteggendo tradizioni, storie, memorie, identità... e parlando di questi temi non può non venire in mente la politica culturale di Léopold Sédar Senghor, leader illuminato dell’indipendenza del Senegal.
Per ora ci limitiamo a giudicare molto positivamente l’apertura di due grandi poli museali nel continente, che aiuteranno tanti africani a vedere questi spazî come luogo di incontro, di comunicazione, di identità, di trasmissione del sapere e all’arte: lo Zeitz MOCAA, ovvero un Museo dedicato all’arte contemporanea dell’Africa e della sua Diaspora, inaugurato nel 2017 a Cape Town in Sudafrica, e il recentissimo Mcn – Musée des civilisations noires, Museo delle civilizzazioni nere inaugurato a dicembre 2018, a Dakar in Senegal.
Maria Camilla De Palma
Direttrice del Museo delle Culture del Mondo di Castello d’Albertis, Genova
Per coloro che lavorano in ambito museale, e in particolar modo in musei che conservano materiale extraeuropeo di Africa, Americhe ed Oceania, il dibattito odierno sulla decolonizzazione culturale non giunge affatto nuovo: le Convenzioni UNESCO del 1970, UNIDROT del 1995 e, per gli Stati Uniti, il Native American Graves Protection and Repatriation Act (NAGPRA) del 1990, stabiliscono misure e regole comuni contro i trasferimenti illeciti. Da diversi anni nei musei europei, inclusi quelli italiani, vengono in visita, sulla scorta di ciò che da tempo accade negli USA, delegazioni di gruppi nativi che hanno individuato nelle nostre collezioni materiali sensibili che sono frutto di spoliazioni condotte durante le numerose spedizioni scientifiche, naturalistiche, militari e archeologiche che si sono succedute nei secoli.
I musei hanno giocato un ruolo fondamentale nel separare gli oggetti dai loro produttori, ma possono oggi non essere più complici delle politiche coloniali e delle imprese ad esse associate, diventando luoghi di contestazione del potere in termini di possesso, interpretazione e detenzione del sapere. Ritengo quindi che i musei odierni, che abitano il loro tempo in qualità di luoghi di cambiamento sociale, debbano aprirsi a processi di decentramento che cambino gli equilibrî e gli assetti prestabiliti da secoli di colonialismo e post colonialismo: i musei non possono dirsi innocenti nelle loro politiche di acquisizione né nelle loro pratiche di rappresentazione dell’alterità, e le pratiche di restituzione stanno diventando all’ordine del giorno per i musei europei delle culture che intendano affrontare il dilemma etico alla base della loro natura.
Per alcuni casi (i materiali da Benin City saccheggiati dagli inglesi in Nigeria e ora conservati al British Museum, o i famosi Elgin Marbles) il discorso è più complicato perché tocca equilibrî di natura politica ed economica, e si aggiunga che l’azione di alcuni direttori è ancora ispirata a quella dei musei d’arte enciclopedici universali come il British Museum, ritenendo che simili istituzioni costituiscano con le loro collezioni non strumenti di un impero ma testimonianza di una tradizione: si tratta però spesso di posizioni che mirano ad evitare la spoliazione dei musei europei nascondendosi dietro il falso ideale di un fantomatico patrimonio universale.
Piuttosto, le opere d’arte ed i reperti dell’antichità sono il nostro patrimonio comune, che richiede il nostro lavoro congiunto per la sua preservazione in nome di un nuovo Umanesimo, in un’umanità senza confini in cui siamo tutti migranti e membri dell’una o dell’altra minoranza. Certo, il processo di repatriation è inevitabilmente lungo e complesso, e ci vorrà tempo affinché le restituzioni possano realmente aver luogo, per l’Italia come per i paesi dal grande passato coloniale, ma solo questo è un percorso degno dei paesi veramente civili.
Filippo Maria Gambari
Direttore del Museo delle Civiltà, Roma
Nell’ambito della riflessione sulle restituzioni di opere provenienti da contesti extraeuropei, il Museo delle Civiltà costituisce nel panorama italiano uno dei casi più emblematici, sia per tipologia e importanza delle collezioni sia e soprattutto perché il tema è già stato oggetto di riflessione e campo di specifiche pratiche museografiche negli ultimi decennî. Già negli anni Ottanta, a seguito della visita di una delegazione lakota, oggetti ritenuti sacri presenti nella sezione America del Museo preistorico etnografico Luigi Pigorini venivano riallestiti nel rispetto di specifiche indicazioni della “comunità patrimoniale” nativa. La partecipazione a progetti europei (per esempio RIME, SWICH) ha ulteriormente incrementato la riflessione sul tema da parte dello staff del Museo: grazie ai continui confronti con i maggiori musei etnografici europei sono stati promossi progetti volti ad incrementare la partecipazione e l’inclusione delle comunità d’origine nella presentazione e valorizzazione degli oggetti conservati in Museo.
Il tema è di grande complessità e richiede di essere affrontato considerando l’eterogeneità delle sue sfaccettature. Parlare di restituzione significa considerare forme di collaborazione/consulenza delle “source community” nelle modalità espositive, affrontare la questione delle collezioni sottratte in epoca coloniale o pre-coloniale, riflettere sul delicato tema della restituzione di resti umani e oggetti sensibili. I paradigmi patrimoniali che entrano in campo e di cui sono portatori i vari soggetto coinvolti sono molteplici: come considerare quindi l’oggetto? Come bene culturale o oggetto sacro? Opera d’arte o reperto scientifico?
Sull’articolata questione della restituzione dei resti umani, due sono i casi che il museo ha affrontato in passato: la richiesta di restituzione da parte del governo australiano nel 2007, e la visita della delegazione del Museo della Nuova Zelanda Te Papa Tongarewa nel 2016. Si tratta di richieste che hanno aperto relazioni e portato a processi di mediazione diversificati. A partire da queste esperienze e dal dibattito europeo, il Museo ritiene che il concetto di “restituzione” possa aprire diverse dinamiche: il passaggio fisico del bene è solo uno degli esiti possibili e possono esserci anche altre forme, “simboliche”, di riappropriazione degli oggetti museali da parte delle comunità.
Le collezioni del museo hanno provenienza diversa, per epoca storica e contesto geografico, ma soprattutto per modalità di acquisizione. Riteniamo che le risposte a richieste di restituzione e le relative soluzioni (restituzione tout court, prestiti di lunga durata, cooperazione scientifica e museografica, eccetera) vadano pertanto inserite e contestualizzate di volta in volta, a partire dalla tipologia degli oggetti e dalla loro storia considerando anche le questioni legate alla tutela e alla valorizzazione nei contesti di appartenenza che ne richiedono il ritorno.
Anna Maria Montaldo
Direttrice del MuDEC – Museo delle Culture, Milano
Mi pare chiaro che una discussione sulla decolonizzazione culturale in Italia non può essere priva di conflitti e insidie, per ragioni politiche e filosofiche. Affrontare il tema della restituzione delle opere che si trovano all’estero, a seguito delle spoliazioni, e nel contempo confrontarci con la possibile rinuncia ad opere d’arte che fanno parte ormai della nostra storia e dell’identità delle nostre città appare estremamente complesso. Riflettere poi sul fatto che tali inserimenti nel nostro paesaggio culturale interpretano, talvolta in maniera perfetta, l’armonia della differenza, la fusione di culture diverse, potrebbe e dovrebbe ispirare un approccio creativo per quelli che oggi appaiono come insormontabili problemi in Europa legati all’immigrazione e alla paura dell’altro.
E dato che il conflitto è insito nel principio di armonia che non tollera chi si rifiuta di omologarsi, penso che la decolonizzazione culturale possa affrontarsi in Italia con un processo di mediazione culturale che sappia valorizzare il relativismo delle posizioni e lasci spazio anche al concetto che l’arte e la cultura appartengono a tutti quelli che la rispettano e la riconoscono.