Ecco com'è stata percepita e rappresentata la Torre di Pisa nei secoli


Fino al 30 settembre, il Palazzo dell’Opera del Duomo di Pisa ospita la mostra “La Torre allo specchio. Le molte vite del Campanile del Duomo di Pisa” dedicata alla rappresentazione della Torre di Pisa nei secoli. Il curatore Stefano Renzoni presenta l’esposizione in questo contributo.

La mostra aperta a Pisa, al Palazzo dell’Opera del Duomo, lo scorso prossimo 15 giugno, rappresenta per alcuni aspetti una scommessa metodologica, o se vogliamo una tautologia. Se infatti esiste un edificio che non aspetta di essere mostrato, perché addirittura esibito alla vista dei numerosissimi turisti che calpestano l’erba della cosiddetta piazza dei Miracoli, questo è proprio il campanile del Duomo di Pisa. Una percezione diretta dell’architettura, che ovviamente è sovrastata da quelle mediate, e rese indirette, dalle illustrazioni sui giornali, dai siti internet, e nei fumetti. Anni fa, un calcolo per niente approssimativo precisò che la Torre pendente è tra i monumenti più diffusi e più cercati sul web, appena sotto il Colosseo.

Per giunta il Campanile è singolarmente spoglio di opere d’arte nascoste, di quei tesori sconosciuti e occultati dal buio delle scale e dalle sacrestie, come invece accade molto spesso nei palazzi e nelle chiese. Perfino i pur numerosi capitelli delle colonne, tutti abilmente scolpiti (la Torre come “colonna fatta di colonne”, la definì qualcuno), rischierebbe di deludere i palati sopraffini, perché sono oramai il frutto di sostituzioni iniziate assai presto, e concluse nel XIX secolo, quando abilissimi artigiani tolsero gli ultimi capitelli oramai danneggiati, per sostituirli con delle copie, a volte fedeli, in genere frutto di generose reinterpretazioni (ma quei pochi sopravvissuti, di Biduino, sono presenti in mostra).

Il tema sul quale abbiamo lavorato è stato dunque indiretto, cioè relativo non tanto alla Torre in sé (anche se questo è un tema comunque affrontato, come vedremo), ma su come questa è stata percepita e rappresentata. Un percorso che parte dalla prima immagine certa del monumento, costituita da un disegno in una pergamena dove la Torre venne distintamente rappresentata all’altezza in cui la lasciò il suo primo architetto nel XII secolo, a conferma di come l’interruzione dei lavori fu autentica e forse interpretata come definitiva, dal momento che la Torre venne dotata di una ampia copertura. Snodo del resto da cui la mostra prende le mosse, perché proprio all’affascinante questione dell’autografia della Torre, restituita di recente da Giulia Ammannati a Bonanno Pisano, la stessa docente della Scuola Normale Superiore dedica una sezione.

Qualora volessimo scrutinare le raffigurazioni della Torre dai suoi inizi, ci accorgeremmo, e la mostra cerca ovviamente di darne conto, che a partire dal XIV secolo (da quando cioè la Torre fu conclusa) per lungo tempo fu praticamente impossibile trovare la Torre raffigurata isolata, venendo semmai illustrata in due modi distinti ma contigui. Svettante e a dominio sulla città, fino a diventarne l’elemento più riconoscibile; inclinata ma a fianco del Duomo, a ricordarne la funzione essenzialmente religiosa. È il caso della straordinaria tavola con san Nicola da Tolentino che salva Pisa dalla peste; o anche della minuta ma fondamentale incisione d’ignoto d’inizio Cinquecento, dove la città mostra le torri devastate dai fiorentini nel 1509, ma con la Torre bene in evidenza al centro, a documentare, col suo profilo illeso il suo valore pressoché simbolico. Così come nel disegno di Giorgio Vasari per la Presa di Pisa di Palazzo Vecchio, con la Torre come elemento descrittivo formidabile della città.

Pergamena con la prima raffigurazione della Torre (post 1233; Pisa, Archivio di Stato)
Pergamena con la prima raffigurazione della Torre (post 1233; Pisa, Archivio di Stato)
Maestranza di Biduino, Capitello figurato con simboli degli evangelisti (inizio del XIII secolo; Genova, Museo di Sant’Agostino)
Maestranza di Biduino, Capitello figurato con simboli degli evangelisti (inizio del XIII secolo; Genova, Museo di Sant’Agostino)
Turino di Vanni, Crocifisso della Dogana (1437; Pisa, Museo Nazionale di San Matteo)
Turino di Vanni, Crocifisso della Dogana (1437; Pisa, Museo Nazionale di San Matteo)
Borghese di Piero Borghese, San Nicola da Tolentino che difende Pisa dalla peste (1440 circa; Pisa, San Nicola)
Borghese di Piero Borghese, San Nicola da Tolentino che difende Pisa dalla peste (1440 circa; Pisa, San Nicola)
Giorgio Vasari, La presa di Pisa (1567-1568 circa; Roma, Istituto Centrale per la Grafica)
Giorgio Vasari, La presa di Pisa (1567-1568 circa; Roma, Istituto Centrale per la Grafica)

Anche una bellissima tela del senese Ventura Salimbeni del 1603, l’Allegoria di Pisa, ci mostra una donna rorida e col volto appannato da un velo di contenuta mestizia, intenta ad allattare i propri figli, mentre l’inerzia delle armi deposte ai suoi piedi mostra come quella ritrovata ricchezza fosse il frutto della Pace, e quella donna vestita delle vesti e delle mosse della virtù cristiana della Carità, altra non fosse che Pisa, finalmente capace di sfamare i propri cittadini, grazie alla generosità di chi l’aveva convinta a deporre le armi. Perché sullo sfondo, ma in evidenza, la Torre e il Duomo, e il Vaso del Talento, costituivano un suggerimento di lettura decisivo.

Anche a fine secolo, questa persistenza di una Torre che, come una figura retorica, allude al tutto, fu ben adottata da un pittore fiorentino che nei suoi anni giovanili molto spesso percorse le strade di Pisa: Benedetto Luti. Nella mostra è possibile ammirare una bellissima tela giovanile del pittore fiorentino, che si riteneva perduta e solo da pochi anni ritrovata in una importante collezione privata, interprete degli astratti furori filopatri degli intellettuali pisani, che tra Sei e Sette volentieri insistettero nel vagheggiamento di una Patria repubblicana sì bella e perduta. In un vasto dipinto per la prima volta esposto al pubblico dal XVIII secolo, il dipinto, replicando Pathosformel nobilmente consuete, giocate sul popolo sconfitto che rende onore alla maestà del vincitore, i rappresentanti dell’isola di Maiorca rendono omaggio alla vincitrice, una donna in Trono che, con ardita addizione d’immagini si scopre essere, con la Torre sullo sfondo, Pisa.

La Torre dunque come pars pro toto, ma anche come insegna della città. Alla fine del XVIII secolo, in seno probabilmente a quel circolo arcadico pisano noto per la militanza di intellettuali autentici come Carlo Goldoni, ma anche di un demi-monde culturale facile al gioco letterario, si sviluppò un senso per il birignao intellettuale che a Pisa portò ad un risultato assai affascinante. Quella Guerra di Troia dipinta a fine Settecento da Francesco Pascucci, pittore giramondo e protagonista di un classicismo minore non privo di riferimenti colti, dove la città assediata dai Greci venne siglata da alte mura verticali, che nulla avevano però di quelle scee sebbene medievali, non alte a sufficienza per non nascondere, con studiata negligenza, la svettante presenza della Torre pendente. Una Pisa dunque trasformata nella città omerica.

Allo stesso modo, la Torre diventava sigla e insegna della tradizione religiosa della città. Nella tela di Giovanni Battista Tempesti, san Ranieri, patrono della città, prega con turbata intensità e come assorto in una commozione non priva di una levigata eleganza settecentesca, lasciando spazio all’apertura sulla destra della Torre e del Duomo. In un dipinto precedente, probabilmente del pistoiese Domenico Piastrini, gli angeli accompagnano il patrono nell’impetrare alla Vergine la sua protezione sulla città, identificata, anzi condotta, su una sorta di vassoio arredato con la riproduzione in miniatura degli edifici di piazza del Duomo.

Nel corpo di questa identificazione della Torre nella sua doppia valenza civile e religiosa, la mostra cerca poi di render conto di come a partire dal XVIII secolo l’edificio subì una profonda trasformazione rappresentativa, che corrispose ad un cambio di percezione, quando la Torre iniziò ad elisa dal resto della piazza, come se fosse un edificio che bastava a se stesso. Si trattò in fondo, e non sembri un paradosso, di una forma di monumentalizzazione del Campanile, che sembrava perdere qualsiasi funzione religiosa e civile, per diventare simulacro di una bellezza ardita e rara, arricchita dal fascino stordente e complicato della sua pendenza, che ne facevano il monumento di se stesso. Questo passaggio è apprezzabile in modo particolare grazie alla diffusione delle stampe, in genere all’acquaforte, modulate alle alterne vicende di esemplari di strepitosa qualità (come quelle del Fambrini e del Nascio), ed altre invece di gusto più corrivo e di costo contenuto. Col particolare coltissimo di una stampa d’ignoto autore ma grandemente replicata, dove la Torre perse perfino il suo aspetto cilindrico e gli aerei colonnati furono trasformati in pareti piene, ad avvicinare la Torre non ad un campanile, ma al celebre Settizonio di Roma: monumento dunque tra i monumenti.

Benedetto Luti, Trionfo della Repubblica di Pisa sul regno di Maiorca (1690-1691 circa; Firenze, Collezione privata)
Benedetto Luti, Trionfo della Repubblica di Pisa sul regno di Maiorca (1690-1691 circa; Firenze, Collezione privata)
Enrico van Lint, La Piazza dei Miracoli vista da fuori le mura (1870 circa; Firenze, collezione privata)
Enrico van Lint, La Piazza dei Miracoli vista da fuori le mura (1870 circa; Firenze, collezione privata)
Giuseppe Maria Terreni, Veduta dell’accampamento fatto sul prato del Duomo (1785; Firenze, Palazzo Pitti)
Giuseppe Maria Terreni, Veduta dell’accampamento fatto sul prato del Duomo (1785; Firenze, Palazzo Pitti)
Francesco Barbieri, Centro di gravità (2024; tecnica mista; Pisa, Opera della Primaziale Pisana)
Francesco Barbieri, Centro di gravità (2024; tecnica mista; Pisa, Opera della Primaziale Pisana)

Questo processo dicevamo cominciò a svilupparsi nel XVIII e non fu un caso, perché la desacralizzazione dell’edificio fu determinata dalla necessità di rispondere alla sempre più intensa richiesta di un pubblico affascinato e desideroso di trasformare la Torre nell’impronta di una presenza, un souvenir. L’epoca del Grand Tour.

Le esigenze dei milordi e dei turisti col baedeker in mano segnarono una trasformazione profonda della percezione dell’architettura di cui si parla: da Campanile, luogo delle campane, dunque liturgico, che segnava il tempo spirituale di una città, a Torre. Da Bell Tower, a Leaning Tower. Così come nel romanzo di Franco Lucentini, Notizie dagli scavi, quando “il professore” finalmente di fronte ai resti della villa di Adriano, anziché capirne il significato si perde in un tempo privo di appoggi e senso, travolto dall’onda confusa delle epoche e dalla vita. Solo che qui l’insignificanza molto spesso assume l’aspetto di un brusio indistinto e di fondo.

Da qui la scelta di aprire la mostra con una sezione che sottolinea la funzione primaria della Torre, restituendole l’identità di luogo che scandisce il tempo della fede e del fedele, curata da Francesca Barsotti.

Non è allora un caso se la Torre sia nel tempo divenuta il feticcio, o l’emblema, di alcuni artisti abituati a giocare con le immagini popolari e a volte perfino sdrucite da un consumo visivo costante. La mostra ne documenta alcuni esempi, come la Torre sostenuta dal cucchiaio (o dalla piuma) di Magritte, o dall’omino radiante di Haring, per tacere della vera e propria passione subita per la Torre dai pittori futuristi. Così come ampio spazio è stato concesso a quel fenomeno intensissimo già prima dell’epoca dei selfie, quello cioè delle fotografie, qui documentate da bellissimi reperti in bianco e nero, in una sezione curata da Manuel Rossi.

Tuttavia la mostra, sebbene non sia centrata sui recenti restauri (che necessiterebbe di un evento tutto suo), non poteva non accennare ai tentativi con cui dal XIX secolo si è cercato di arrestare l’aumento dell’inclinazione della Torre, fino ai recenti interventi che hanno consentito di metterla in sicurezza. Senza riuscire a resistere alla tentazione di destinare almeno un frammento della mostra a quella serie meravigliosa e folle di proposte di restauro che a partire dagli anni Settanta arrivarono da tutte le parti del mondo sui tavoli dell’Opera della Primaziale, che se documentano quanto l’immaginazione dell’uomo possa essere stramba, e bislacca la presunzione, almeno in un caso fu addirittura fulminante, perché quel disegno incerto e lieve di una bambina bengalese che suggeriva di salvare la Torre senza toccarla, bensì sottraendo la terra da sotto le fondamenta, in modo da riequilibrarne l’assetto, fu, anche se in modo ovviamente più articolato, il cuore, è il caso di dirlo, della soluzione poi adottata e vincente.

E se la mostra muove dalle primissime sale con una sezione dedicata a come gli artisti viventi ancora si misurano col tema del Campanile (Bartolini, Barbieri, Lucchesi), è perché esso non ha ancora cessato di dirci qualcosa d’inedito. Che è, come sappiamo, lo statuto più profondo dei classici.


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