Nel suo A cosa serve Michelangelo?, Tomaso Montanari scriveva, a ragion veduta, che è diventato parecchio difficile leggere recensioni negative di mostre sui principali quotidiani nazionali: solo recensioni “positive o, meglio ancora, celebrative”. Non è tuttavia ancora così raro leggere roboanti stroncature, benché spesso, a mio avviso, tali stroncature sembrino soffrire del problema opposto. Ovvero, paiono peccar un po’ troppo d’eccessiva gratuità. È l’impressione che ho ricavato nel leggere la recensione alla mostra Arte lombarda dai Visconti agli Sforza apparsa sulle colonne del Manifesto, e firmata dalla giovane penna di Giovanni Renzi.
Che non dovessimo aspettarci una recensione particolarmente euforica, lo avevamo capito fin dalle prime righe, nelle quali Giovanni Renzi scrive, senza mezzi termini, che il titolo della mostra cammina sul confine “tra omaggio e hybris”. Ci sarebbe da discutere sulla scelta del termine “hybris”, che non leggevo dai tempi in cui frequentavo il liceo, per alludere a una presunta quanto per me infondata superbia da parte dei curatori della mostra milanese: possiamo, tuttavia, limitarci a constatare che parrebbe ancora macchiarsi della colpa di lesa maestà chi si azzardi a toccare la sacra figura di Roberto Longhi, vero idolo per tutti gli storici dell’arte (vecchi e giovani) inguaribilmente passatisti. Foss’anche un minimo accostamento dettato dalla mera volontà di considerare Longhi una fonte di ispirazione. Come del resto hanno immediatamente dichiarato i curatori, Mauro Natale e Serena Romano, attraverso la prima frase del comunicato stampa, dicendo che la mostra “si ispira in modo programmatico, ma criticamente rivisto” all’omonima esposizione curata da Longhi e Gian Alberto Dell’Acqua nel 1958. E non potrebbe essere altrimenti: è risaputo che Longhi è una delle figure più importanti della storia dell’arte, e che offra ancora innumerevoli suggestioni agli studiosi è un dato di fatto, ma se i curatori dicono che l’approccio è “criticamente rivisto”, ciò non si deve a chissà qual peccato di superbia. Lo si deve semplicemente al fatto che la storia dell’arte dovrà pur essere progredita, da cinquantasette anni a questa parte.
E se il nostro Giovanni Renzi loda, a buon diritto, l’eccellenza delle opere esposte, la ricomposizione del trittico di Bonifacio Bembo, di cui anche noi abbiamo ampiamente parlato su queste pagine, l’ottima presenza delle tavole del Maestro della Madonna Cagnola e via dicendo, con la stessa verve non si esime dall’esprimere sonore ed eccessive critiche nei confronti dell’allestimento: risulterebbe, secondo lui, “un soffocante affastellamento in cui è complesso mantenere la rotta”. Se la mostra Dai Visconti agli Sforza consiste in un “soffocante affastellamento” (tutto si può dire, tranne che l’allestimento sia affastellato... !), vien da domandarsi cosa possa pensare il recensore della mostra su Leonardo da Vinci allestita sempre a Palazzo Reale, ma al piano di sopra: probabilmente, a Giovanni Renzi verrebbe spontanea l’associazione con un mercato rionale. Con tanto di calca! Ma le critiche non finiscono qui. I colori degli allestimenti, secondo Giovanni Renzi, sembrerebbero “non rispondere ad alcun criterio”: forse che i colori semplicemente si attengono a quel basilare concetto della museografia moderna che vorrebbe tonalità cromatiche diverse a seconda di diverse direttrici visive e diversi percorsi? E se paiono motivati i dubbi sulla poca centralità concessa a Vincenzo Foppa e sui cartellini sui quali a volte la data risulta assente, non si comprende per quale motivo le musiche di sottofondo e i finti stendardi antichi su cui sono stati apposti i testi che accompagnano il visitatore, sarebbero da cassare senz’appello: ho trovato anzi originale, per una mostra che non cerca né i numeri, né la facile e svenevole audience da mostra-blockbuster, l’idea di proiettare il visitatore nella Milano viscontea e sforzesca anche attraverso l’ausilio di audio e scenografie. E invece no: tanto basta a Giovanni Renzi per assimilare, molto ingenerosamente, la mostra a un b-movie, pur essendoci, sempre a sua detta, materiale per un “kolossal”. Posto che non è affatto detto che un kolossal debba necessariamente anche essere un prodotto di qualità, occorre avvisare Giovanni Renzi che i b-movie dell’arte sono tutt’altra cosa: in questi giorni ne è stato inaugurato uno giusto a pochi chilometri di distanza, per l’esattezza nello spazio Eataly dell’Expo. Un’ovvietà, si potrebbe pensare, ma è sempre meglio proporre una precisazione in più che una in meno.
Una delle sale della mostra Arte Lombarda dai Visconti agli Sforza Ph ©Francesca Forquet per Arte Lombarda dai Visconti agli Sforza |
Tornando a noi: altro aspetto che desta perplessità a Giovanni Renzi, è “l’opportunità di riproporre oggi gli estremi cronologici del progetto espositivo elaborato nel 1958”. Il nostro continua nella sua pertinace convinzione circa il fatto che la mostra del 2015 rappresenti poco più che una riedizione di quella del 1958: non si spiegano altrimenti (e Giovanni Renzi mi correggerà se l’ho mal interpretato) i dubbi sull’opportunità “di riproporre oggi gli estremi cronologici del progetto espositivo elaborato nel 1958”. Risulterebbe troppo semplicistico fermarsi a una mera valutazione degli estremi presi in esame dall’esposizione e domandarsi che senso abbia dar vita oggigiorno a un’operazione incentrata ancora sullo stesso arco cronologico. Se merito della mostra del 1958 fu quello di affermare l’importanza dell’arte lombarda nel panorama dell’Italia tra il Trecento e il Cinquecento e, con esso, quello di delineare i tratti peculiari del “concetto di lombardo” (e, a tal proposito, ancora oggi siamo debitori nei confronti dell’opera di Longhi e Dell’Acqua, e degli studiosi che lavorarono con loro), l’esposizione del 2015 allarga i confini del discorso iniziato allora, coinvolgendo l’arte lombarda in una più ampia ottica di rapporti con le regioni confinanti, siano esse al di qua o al di là delle Alpi, che attraverso la loro linfa hanno alimentato la stessa identità lombarda, e che soprattutto la proiettano in quell’ottica di internazionalità che a Natale e Romano preme molto evidenziare. Diverso è poi il taglio stesso dell’esposizione: se nel 1958 la mostra si dipanava soprattutto attraverso le vicende dei singoli artisti, oggi invece assistiamo, complici le rinnovate esigenze della storia dell’arte rispetto a quelle di oltre cinquant’anni fa, a un percorso che segue le vicende storiche e dinastiche della Milano del tempo: forse sarebbe stato preferibile rendere più evidenti le connessioni tra personaggi al potere e tendenze artistiche (il visitatore non avvezzo all’arte della Milano viscontea e sforzesca talvolta può correre il rischio di non coglierle), ma le sezioni si susseguono con coerenza e continuità. È chiaro a tutti che un periodo della storia dell’arte così lungo e così complesso è difficile da inquadrare al meglio in una singola esposizione: ma occorre anche sottolineare, a mio avviso, che questa mostra rappresenta non già un punto d’arrivo, bensì un interessante e ben organizzato punto di partenza, sia sotto il profilo scientifico che sotto quello divulgativo, per future iniziative che, come auspica Giovanni Renzi, potranno far comprendere al pubblico la complessità delle vicende dell’arte lombarda.
Infine, un’ultima nota: non si commetta il grave errore di pensare che i tempi di questa mostra siano stati scanditi da quelli dell’Expo. Il generale entusiasmo, dal sottoscritto non affatto condiviso, per l’evento internazionale che si sta svolgendo a Rho, può forse aver suggerito a curatori e ufficio stampa l’evitabilissima dichiarazione che afferma la mostra Dai Visconti agli Sforza come parte integrante di Expo: avremmo tutti fatto molto volentieri a meno di tali labili legami. Ma è necessario evidenziare che la mostra di oggi è frutto di un lavoro durato anni: non si tratta di una mostra studiata in fretta e furia, né tanto meno di una mostra “legata ai tempi di Expo” e slegata da quelli della ricerca. Giovanni Renzi forse non lo sa, visto che il progetto Dai Visconti agli Sforza gli sembra svincolato dai tempi “lenti e imprevedibili del maturare della ricerca”, ma per arrivare a produrre l’esposizione ci sono voluti quasi quattro anni. Un tempo idoneo per un risultato di alto livello. Quale è quello che, appunto, oggi vediamo nelle sale del pian terreno di Palazzo Reale.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).