Ha fatto molto discutere, la scorsa settimana, il caso del Miracolo delle quaglie, capolavoro di Jacopo Bassano che è stato acquistato dal Getty Museum: il dipinto era di proprietà degli eredi dell’antiquario e collezionista Vittorio Frascione che hanno ottenuto, dall’ufficio esportazione della competente soprintendenza, l’attestato di libera circolazione per l’opera, e quindi l’autorizzazione a far uscire l’opera dal territorio nazionale. La legge italiana prevede che un bene di notevole interesse culturale possa diventare oggetto di un vincolo, ovvero venga sottoposto a limitazioni che gli impediscono l’uscita dall’Italia, qualora gli esperti valutino la presenza di criteri di eccezionalità che suggeriscano di impedire che l’opera se ne vada. Il caso del dipinto di Jacopo Bassano ha fatto discutere perché, pur se l’operazione è stata perfettamente legale, molti sono convinti del fatto che lo Stato italiano non avrebbe dovuto concedere l’autorizzazione, ma notificare l’opera (ovvero sottoporla a vincolo) in virtù della sua altissima qualità e della sua rarità, per poi acquistarla per le raccolte pubbliche.
Quello del capolavoro di Jacopo Bassano non è però un caso isolato: sono infatti molti i capolavori che, nel dopoguerra, sono usciti dall’Italia con la stessa o con simili modalità, ovvero perché proprietà di collezionisti privati che, ottenuta la licenza di esportare l’opera, l’hanno messa sul mercato, e l’opera è finita all’estero. In questa carrellata vediamo un elenco di dieci “rimpianti”, se così li vogliamo chiamare: ovvero dieci capolavori sui quali lo Stato avrebbe forse fatto bene a porre il vincolo per impedirne l’uscita dall’Italia, ed eventualmente per un successivo acquisto al fine di assicurare le opere alle collezioni nazionali. Si tratta, in tutti i casi, di uscite sempre avvenute nel pieno della legalità (come vedremo, nell’elenco c’è un solo caso al momento sub iudice, ma riguarda una revoca della soprintendenza, e dunque non c’è niente di illegale), pertanto non c’è speranza di veder rientrare le opere in Italia, a meno che i loro attuali proprietari non le reimmettano sul mercato e lo Stato le acquisti (è già successo in alcuni casi, anche recenti).
Si tratta di una delle uscite più discusse della storia repubblicana: è infatti il capolavoro più noto tra quelli che, fino al 1978, facevano parte della collezione Contini Bonacossi, appartenuta al collezionista Alessandro Contini Bonacossi, che avrebbe voluto donare la raccolta allo Stato italiano, con la clausola che la collezione rimanesse integra e legata a Firenze. Tuttavia mancò una scrittura avente valore e gli eredi, di conseguenza, si divisero tra chi voleva dar seguito alle volontà paterne e chi invece preferiva mantenere la proprietà della collezione. Dovette intervenire lo Stato, con una legge ad hoc che fece molto discutere: con il provvedimento, lo Stato concedeva l’autorizzazione all’esportazione della stragrande maggioranza della collezione Contini Bonacossi (circa 800 pezzi su 1.066 in totale), e in cambio ne avrebbe ottenuto una parte, con pezzi giudicati meritevoli di rimanere in Italia secondo una commissione di esperti nominati allo scopo. Il ritratto di Sigismondo Pandolfo Malatesta, capolavoro di Piero della Francesca, fu tra le opere che partirono. Immessa sul mercato, la tavola fu acquistata dal Louvre.
Questa tela di Zurbarán era uno dei pochi dipinti del pittore spagnolo presenti sul suolo italiano. Il Norton Simon Museum di Pasadena, che oggi ne detiene la proprietà, la definisce un “dipinto straordinario”, anche perché si tratta dell’unica natura morta firmata e datata del grande artista andaluso. Si tratta di un’altra delle opere che facevano parte della Collezione Contini Bonacossi e che lo Stato italiano non fu in grado di trattenere. La portata delle uscite, come quella di Piero della Francesca e quella di Zurbarán, nei mesi successivi diede il via a uno strascico di polemiche e di interrogazioni parlamentari. Paradossalmente, negli anni successivi alcune opere furono reimmesse sul mercato e acquistate dallo Stato.
Il dipinto fu acquistato dalla National Gallery of Victoria di Melbourne nel 1976, dopo che lo Stato concesse l’autorizzazione all’uscita: lo stesso Federico Zeri, nel suo Dietro l’immagine, si domandava come fosse possibile, dal momento che si tratta non solo di un’opera di un artista molto importante (benché ben rappresentato nelle collezioni pubbliche italiane), ma anche e soprattutto di un soggetto più unico che raro. L’opera infatti, secondo molti, rappresenta il rogo del riformatore boemo Jan Hus, arso sul rogo come eretico nel 1415, e oltre a essere una delle poche immagini del suo supplizio contemporanee, è anche l’unica nota prodotta da un artista italiano. Lo studioso Gordon Moran ne ha ipotizzato una provenienza illustre: dall’altare dell’Arte della Lana nella chiesa di Santa Maria del Carmine a Firenze.
Altra uscita tra le più discusse degli ultimi decenni. Per tre secoli, questo dipinto non si era mai mosso dalla città per cui fu realizzato: Genova. Orazio Gentileschi dipinse infatti la sua Danae per la residenza del nobile locale Giovanni Antonio Sauli. Il dipinto, che sarebbe stato poi replicato da Gentileschi (un’altra Danae si trova al Cleveland Museum of Art), rimase di proprietà della famiglia Sauli e dei suoi eredi fino agli anni Settanta. L’ultima erede, Carlotta Fasciotti Giustiniani Cattaneo-Adorno, anch’ella esponente di una storica famiglia genovese, ottenne la licenza di esportazione nel 1975 e vendette l’opera al collezionista inglese Thomas P. Grange. Questi poi a sua volta la cedette all’americano Richard L. Feigen nel 1979, e nel 2016 gli eredi di Feigen decisero di venderla all’asta da Sotheby’s. Ad aggiudicarsela fu il Getty, spendendo la somma di 30,5 milioni di dollari. L’opera raggiungeva così il Lot e le figlie di Gentileschi, anch’esso dipinto per Giovanni Antonio Sauli, e anch’esso messo sul mercato dagli eredi del nobile genovese (in questo caso, alla fine dell’Ottocento), e acquistato dal Getty nel 1998.
L’opera di Tiziano si trovava un tempo nella Scuola di San Giovanni Evnagelista a Venezia, e fu poi requisita in epoca napoleonica, nel 1806, per essere trasferita alle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Il museo veneto però se ne disfece ben presto perché l’opera versava in cattive condizioni di conservazione e, per il modo di pensare dell’epoca, si trattava di un difetto: il dipinto pervenne così al collezionista torinese Barbini, che a sua volta nel 1885 la cedette nel 1885 al conte Bertalazone d’Arache. L’opera fu poi acquistata da Alessandro Contini Bonacossi, che nel 1954 ottenne l’autorizzazione a esportarla e la vendette alla Samuel H. Kress Foundation. Da quest’ultima, nel 1957, arrivò alla National Gallery of Art di Washington a seguito di una donazione.
Capolavoro di Orazio Borgianni di illustre provenienza (si suppone fosse infatti tra i beni di Juan de Lezcano, segretario del viceré di Spagna all’epoca in cui fu realizzato), il Cristo fra i dottori, una delle opere più interessanti del catalogo di questo caravaggesco della prima ora, è stato acquistato dalla olandese Broere Foundation (che lo ha poi girato in un prestito di lungo termine al Rijksmuseum di Amsterdam) in un’asta di Sotheby’s nel 2012, per la somma di 3,4 milioni di sterline. Prima dell’asta che lo ha visto prendere la strada dell’Olanda, il dipinto si trovava in una collezione privata di Roma.
Si tratta di uno dei più interessanti ritratti dell’artista fiammingo, riflesso del suo importante soggiorno romano, che ebbe su di lui un’influenza decisiva per quanto riguarda il modo di trattare la luce. Per questo dipinto si ipotizza anche una provenienza illustre (collezione Barberini): riapparso nel 1955 nella collezione dell’architetto Andrea Busiri Vici, uscì dall’Italia poco dopo e fu acquistato da un collezionista privato. Nel 1981 l’opera finì all’asta e fu acquistata da Hans Heinrich Thyssen-Bornemisza per la propria collezione. Oggi è uno dei capolavori del museo che si è formato dalla raccolta del barone svizzero.
Importante tela dell’ultimo anno di attività di Guido Reni: si trovava nel suo studio quando l’artista scomparve, tanto che alcune parti sono rimaste incompiute. Nel 1645 il dipinto era nelle disponibilità del cardinale Francesco Barberini, e per vie ereditarie passò prima ai Barberini-Colonna di Sciarra e quindi ai Corsini: fu poi venduto da questi ultimi nel 1968, dopo aver ottenuto l’autorizzazione all’esportazione, all’antiquario londinese Colnaghi, che a sua volta nel 1969 lo vendette al Cleveland Museum of Art, e oggi è uno dei capolavori della collezione del museo americano.
Ancora al Getty Museum, questa volta con un capolavoro della scultura rinascimentale, un busto di fanciullo di Desiderio da Settignano, il più delicato tra gli scultori della sua epoca. Il busto è un importante esempio del genere nel quale l’artista eccelse. È uno dei casi di uscita più recenti, e la sua storia collezionistica è documentata fin dal Settecento, quando era nella collezione del fiorentino Antonio Francesco Gori. L’opera finì poi in Inghilterra nell’Ottocento e rientrò in Italia nel 1960, quando fu acquistata dal grande restauratore Pico Cellini, che poi nel 1967 la cedette al collezionista Carlo De Carlo. Dopo la scomparsa di quest’ultimo nel 1999, gli eredi la vendettero in un’asta presso la casa veneziana Semenzato, nel 2001: ad aggiudicarsela fu il collezionista francese Brimo de Laroussilhe, che la vendette poi al Getty nel 2018.
Il viaggio si conclude con il caso più recente: il Ritratto di Camillo Borghese del francese François Gérard, artista di simpatie napoleoniche, che infatti qui ritrae il principe cognato di Napoleone Bonaparte. L’opera rimase nelle collezioni degli eredi di Camillo Borghese fino a pochi anni fa, quando fu venduta alla galleria Robilant+Voena che, ottenuto nel febbraio del 2018 l’attestato di libera circolazione da parte dell’ufficio esportazione della Soprintendenza di Bologna, a sua volta vendette il dipinto alla Frick Collection di New York. Attorno a questo dipinto si è poi sviluppato un caso, perché appena due mesi dopo la vendita da parte dell’antiquario, la Soprintendenza revocò l’autorizzazione. Al momento il caso è ancora sub iudice.