Ancora grane per il sottosegretario Vittorio Sgarbi: dopo la martellante campagna del Fatto Quotidiano sulle sue attività, adesso il quotidiano, con un’inchiesta condotta assieme a Report, torna a occuparsi dello storico dell’arte in merito a un dipinto di Rutilio Manetti (Siena, 1571 – 1639) che venne rubato nel 2013 dal castello di Buriasco in Piemonte, vicino Pinerolo, e che avrebbe inquietanti somiglianze con un dipinto di proprietà della Fondazione Cavallini Sgarbi, che venne presentato come inedito due anni fa alla mostra su Pietro Paolini e i pittori caravaggeschi che Sgarbi curò alla Cavallerizza di Lucca.
“Il dipinto”, si leggeva nella scheda del catalogo firmata da Sgarbi e da Marco Ciampolini, storico dell’arte esperto di pittura senese del Seicento, “è inedito. Stava nella villa Maidalchina, di Olimpia Pamphilij, nata Maidalchini, in prossimità de La Quiete, in contrada La Pila, vicino a Viterbo, ora proprietà della Fondazione Cavallini Sgarbi, eretta tra 1615 e 1623. Il dipinto è ricordato, genericamente fra altri quadri, nell’inventario dell’11 ottobre 1649, redatto dal notaio Cosimo Pennacchi, dei beni di Andrea Maidalchini, fratello di Olimpia. Le opere d’arte, fra le quali il celebre Busto di Innocenzo X di Alessandro Algardi, passarono poi a Giulio Bussi e ai conti Gentili. Il singolare formato quadrato è dovuto alla decurtazione della zona destra del dipinto. Un taglio che è evidenziato dalla presenza di un braccio che sporge all’estremità della tela senza essere seguito da un corpo”.
È proprio questa la ricostruzione che Il Fatto Quotidiano e Report, rispettivamente con un articolo a firma di Thomas Mackinson pubblicato venerdì 15 dicembre e con un servizio di Manuele Bonaccorsi andato in onda nella puntata di ieri sera, contestano a Sgarbi. Secondo il quotidiano e la trasmissione, infatti, Sgarbi sarebbe stato più volte al castello di Buriasco, di proprietà di una signora del luogo, Margherita Buzio, e un suo collaboratore, Paolo Bocedi (oggi referente della Commissione antiusura della Regione Lombardia), si sarebbe proposto per comprare il dipinto, ricevendo però in risposta un rifiuto. Poche settimane dopo l’incontro con Bocedi, Buzio si sarebbe accorta del furto del dipinto: i ladri, dopo essersi introdotti nel castello, tagliarono la tela dalla cornice e la sostituirono con un telo di plastica, delle stesse dimensioni, che riproduceva il dipinto stesso, attaccato al telaio alla bell’e meglio con una spillatrice. La vittima denunciò il furto ma l’allora procura di Pinerolo archiviò il fascicolo. Il dipinto venne però inserito nel database delle opere d’arte rubate. Tutto tacque poi fino alla mostra di Lucca, quando riapparve una tela molto simile a quella rubata: Il Fatto Quotidiano e Report sostengono che l’unico elemento diverso è una torcia che compare nell’angolo sinistro del dipinto.
Di questo particolare parla anche la scheda del catalogo: “Una torcia, di ricordo honthorstiano, illumina un ambiente alla sinistra di Erode, creando una simmetria con lo sfondo scenografico della strada sulla destra. C’è un’evidente matrice caravaggesca, che il pittore unisce a un perseguito gusto teatrale, nell’impaginazione generale, come nei singoli personaggi, allungati innaturalmente per enfatizzare il loro modo di agire ‘a passo di danza’”. Proprio in virtù di questa torcia Sgarbi sostiene che il suo dipinto non sia quello rubato a Pinerolo.
Tuttavia, Il Fatto Quotidiano e Report dànno conto di una testimonianza, quella del restauratore Gianfranco Mingardi, a lungo fornitore di Sgarbi, il quale racconta che nell’estate del 2013 gli venne consegnato dallo stesso Bocedi, all’uscita di Brescia Centro dell’autostrada A4, una tela, priva di telaio, arrotolata, che sarebbe stata indicata da Sgarbi come proveniente da Villa Maidalchina. Mingardi riporta anche di aver chiesto anche a Sgarbi un’attestazione che certificasse la sua proprietà del dipinto, che però stando al racconto non avrebbe mai ricevuto. Mingardi infine restituì l’opera nel dicembre del 2018, e al Fatto Quotidiano afferma di essere sicuro che la tela sulla quale lavorò è la stessa andata poi in mostra a Lucca tre anni dopo (salvo che per il dettaglio della torcia, che non sarebbe stato presente nel quadro su cui aveva lavorato). La torcia è assente anche nella scheda del database delle opere rubate, che riporta anche misure diverse (247 per 220 centimetri, contro i 233 per 204 della tela esposta a Lucca: Mingardi, nella ricostruzione del fatto, afferma che la differenza è dovuta al fatto che il dipinto è stato tagliato all’interno della cornice, azione che peraltro avrebbe danneggiato la tela: “Quando l’ho srotolata per velinarla”, ha detto il restauratore, “mancava addirittura un pezzo, solo una volta disteso mi sono accorto che era stato attaccato sul retro con lo scotch”).
Report ha sentito anche l’ex proprietario di Villa Maidalchina, Luigi Achilli, che ha smentito Sgarbi: nella villa, ceduta nel 2000 a Rita Cavallini, madre di Vittorio Sgarbi, era in stato di abbandono e secondo Achilli non conteneva opere d’arte. Nella trasmissione, Sgarbi a sua volta smentisce questa ipotesi, affermando di aver ritrovato l’opera in una soffitta (Achilli dice che nella villa non c’erano soffitte, e Sgarbi replica di aver fatto rifare il sottotetto, e che l’ex proprietario era in possesso di cose che non sapeva di avere).
Sgarbi per ora si è difeso attraverso un lungo post su Facebook, pubblicato dopo l’articolo del Fatto Quotidiano. “Nella bellissima e piena di affreschi e stucchi, e da ma fatta accatastare e vincolare, Villa Maidalchina che, con la collezione notificata, è patrimonio della Fondazione Cavallini-Sgarbi, durante i necessari restauri del tetto, condotti intorno al 2006/2007, piegata e molto impolverata”, ha scritto Sgarbi, “trovo una tela, in presenza di testimoni che ricordano l’accaduto, che mi pare di scuola senese, e propriamente di Rutilio Manetti. Capire i quadri è una cosa difficile. E perfino incomprensibile per neofiti, avventati e avventizi. Ma una cosa è certa: la pratica delle repliche è diffusissima, e quasi di ogni dipinto vi sono derivazioni e copie, talvolta assai fedeli perché eseguite sui medesimi cartoni. La qualità di un originale è rara. E così, qualche tempo dopo, come apprendo dai laboriosi inseguitori con annessi autisti e panzanisti, nel 2008, presento un libro in un castello, trasformato in ristorante, vicino a Pinerolo, pieno di quadri, molto modesti, in gran parte copie ottocentesche e novecentesche, nessun originale, forse venduto e sostituito con falsi, come ho pensato (e dalle fotografie non sarà difficile verificarlo). Lì guardo con divertimento, e fra essi vedo un dipinto molto malandato, assai simile a quello ritrovato da me alla Maidalchina, ancora una copia, e di diverse dimensioni. Dopo qualche tempo (non usavo allora i telefonini per fotografare, come può ricordare il mio fedelissimo assistente Roberto Saporito) chiedo a due amici che abitano relativamente vicini, uno dei quali il serissimo e legalitario (cresciuto con Antonino Caponnetto) Paolo Bocedi, intollerabilmente accusato e infamato, di andare in quel castello e di farmi una fotografia (è il reato di fotografia), per il confronto tra il mio originale e quella copia. Mai da alcuno riferita al Manetti, e tenuta, a quanto ricordo, a copertura del vano cucina fra fuochi, fumi e lessi, piena di tagli e di buchi, a far capire quanto fosse considerata. Ora Mingardi, nel suo tristo desiderio di vendetta, si esalta mostrando una tela arrotolata che dice essere il dipinto di cui si parla. Peccato che sia una malconcia tela forse del 700, come potrebbe essere quella di qualunque quadro. Nel suo pressappochismo mostra solo il lato posteriore, e parla di interventi che crede di aver fatto e probabilmente ha fatto a una tela che non mi apparteneva, che non gli ho portato io, e di cui non gli è mai interessata, come di ogni altro quadro, la provenienza. [...] I due improvvisati cacciatori ignorano che il dipinto mio, quello trovato alla Maidalchina, in condizioni relativamente buone, fu restaurato da un altro restauratore, in un altro laboratorio, non a Brescia, con una attenzione ben superiore a quella del sempre più svogliato Mingardi. Non ne dico il nome per evitare di farlo disturbare dai due neofiti, ma sono pronto a fornirlo, come testimone onesto, a chiunque voglia fare una verifica sullo straccio mostrato da Mingardi, assatanato di ingiustificata vendetta, e l’originale che è nella casa dei miei genitori, e che intendo portare nel mio ufficio al Ministero della Cultura per arredo. Se qualcuno potrà dimostrare che quella bellissima opera, di misure completamente diverse (almeno quaranta centimetri per lato) ha a che fare con lo straccio rubato sono pronto a restituirlo a chi non l’ha mai posseduto. Aggiungo, valutando le mie denunce dei redditi, che i valori di mercato di Rutilio Manetti sono alquanto bassi e che quando lo esposi, proprio per il suo singolare luminismo, per lo spazio architettonico della colonna dietro il sadico giudice, non era affatto, né alcuno lo disse, la ‘scoperta’ della grande mostra di Lucca su Caravaggio e Pietro Paolini. I pittori della luce. Era semplicemente inedito. E corredato di una scheda mia e del massimo esperto del pittore Marco Ciampolini”.