Quando Jimmy Carter diceva: “Spero che gli USA non avranno mai un Ministero della Cultura”


Il presidente USA Jimmy Carter, scomparso il 29 dicembre all’età di 100 anni, è ricordato anche per il suo forte impegno per le arti. Oltre che per una sua curiosa e famosa frase: “Gli USA non hanno un ministero della cultura, e spero che non lo avranno mai”.

Jimmy Carter, 39º presidente degli Stati Uniti, è scomparso il 29 dicembre 2024 all’età di 100 anni. La sua vita straordinaria è stata caratterizzata non solo da una rilevante carriera politica (presidente degli USA dal 1977 al 1981, premio Nobel per la Pace nel 2002), ma anche da un profondo e duraturo impegno verso le arti, la cultura e la musica. Considerato una sorta di uomo rinascimentale (il diplomatico Stuart E. Eizenstat, che fu suo consigliere capo per la politica interna all’epoca in cui Carter fu presidente, lo definì “la persona più vicina a un uomo rinascimentale che abbiamo mai avuto alla Casa Bianca in tempi moderni”), Carter ha riconosciuto il valore delle arti come pilastro fondamentale per la società e il benessere umano.

E da questo punto di vista, Carter è stato sicuramente un presidente fuori dagli schemi, capace di combinare la sua passione per la politica con un amore genuino per la cultura. La sua dedizione alle arti non era un semplice interesse marginale, ma una parte integrante della sua visione del mondo. Credeva che l’arte potesse ispirare cambiamenti positivi, educare le persone e costruire comunità più forti. Questa convinzione lo ha reso una figura amata non solo come politico, ma anche come mecenate delle arti. Anche nei suoi ultimi anni, Carter è rimasto attivo, dipingendo, scrivendo poesie e partecipando a eventi culturali. Ha continuato a sostenere giovani artisti e a promuovere la cultura come mezzo per affrontare le sfide del mondo moderno.

Jimmy Carter, foto ufficiale da presidente USA
Jimmy Carter, foto ufficiale da presidente USA

Promotore delle arti visive e dell’architettura

Un aspetto distintivo della presidenza Carter è stato il suo impegno per le arti visive e l’architettura moderna. Un interesse che Carter coltivava già da prima, tanto che nel 1977 la sua campagna elettorale era stata sostenuta da artisti come Andy Warhol, Roy Lichtenstein, Robert Rauschenberg, Jamie Wyeth, Jacob Lawrence e diversi altri. Andy Warhol, per esempio, fu incaricato dal Democratic National Committee di disegnare un ritratto per la campagna presidenziale di Jimmy Carter: il futuro presidente sperava di raggiungere gli elettori più giovani e gli elettori di New York, sfruttando così lo status di Warhol come icona della cultura pop a suo vantaggio. Questa mossa strategica del di Carter era finalizzata a posizionarsi come candidato progressista: ne nacque un celebre ritratto.

Nel 1978, ha inaugurato l’East Wing della National Gallery of Art a Washington D.C., l’ala progettata dall’architetto di fama mondiale I.M. Pei. Sotto la sua amministrazione, Carter ha promosso programmi educativi legati alle arti e ha lavorato per ampliare l’accesso alla cultura in tutto il paese. Credeva fermamente che le arti potessero unire le persone, superando barriere sociali, economiche e politiche. Carter fu anche uno dei primi politici a impegnarsi per la restituzione delle opere d’arte sottratte durante i conflitti: celebre il caso della Corona di Santo Stefano, opera di oreficeria dell’XI secolo consegnata nel 1945 dagli ungheresi all’esercito americano per evitare che cadesse nelle mani delle forze sovietiche. Carter decise di restituirla per premiare gli sforzi dell’Ungheria in tema di diritti umani, decisione che sollevò qualche polemica (l’Ungheria era ancora in orbita sovietica), ma la storia dimostrò che il presidente aveva visto lungo.

Dopo aver lasciato la Casa Bianca nel 1981, Carter ha continuato a influenzare il panorama culturale americano. Ha scritto numerosi libri, molti dei quali audiolibri che gli hanno valso tre Grammy Awards. Nel 2025, riceverà una nomination postuma per il suo lavoro “Last Sundays in Plains: A Centennial Celebration”, un tributo alla sua città natale e alla comunità che ha sempre considerato la sua vera casa.

Oltre alla sua produzione letteraria, Carter ha sostenuto innumerevoli iniziative culturali attraverso il Carter Center, un’organizzazione dedicata alla promozione dei diritti umani e alla risoluzione dei conflitti. Ha anche partecipato a eventi pubblici e ha collaborato con artisti e musicisti per sensibilizzare l’opinione pubblica su temi come la giustizia sociale e la pace.

Jimmy Carter con Andy Warhol
Jimmy Carter con Andy Warhol nel 1977
Il ritratto di Jimmy Carter realizzato da Andy Warhol
Il ritratto di Jimmy Carter realizzato da Andy Warhol

Quando diceva: “Spero che questo paese non avrà mai un ministero della cultura”

È passata alla storia la frase che Carter ha pronunciato proprio durante l’inaugurazione della East Wing della National Gallery (l’intero discorso si può leggere online). Carter, sottolineando l’importanza del sostegno governativo alle arti, salutava in maniera positiva l’assenza di un ministero della cultura negli Stati Uniti (che, in effetti, non hanno un ministero della cultura): constatazione apparentemente paradossale, ma in realtà in linea con la sua visione delle arti.

“Così come il Campidoglio simboleggia la nostra fede nella democrazia politica e nella libertà civile, la National Gallery simboleggia la nostra fede nella libertà e nel genio della mente umana che si manifesta nell’arte”, aveva esordito. “In una società aperta come la nostra, il rapporto tra governo e arti deve essere necessariamente delicato. Non abbiamo un ministero della cultura in questo paese, e spero che non ci sarà mai. Non abbiamo un’arte ufficiale in questo paese, e prego che non ci sarà mai. Non importa quanto democratico possa essere un governo, non importa quanto reattivo ai desideri del suo popolo: non potrà mai essere compito del governo definire esattamente cosa è buono, vero o bello. Invece, il governo deve limitarsi a nutrire il terreno in cui l’arte e l’amore per l’arte possono crescere. Quindi, entro quei limiti, c’è molto che il governo può fare, e molto che stiamo facendo”. Nella visione di Carter, un ministero della cultura finirebbe per indirizzare la produzione creativa di un paese: tuttavia, un governo che non supporta le arti è un governo che non comprende il valore della creatività umana. Il ruolo del governo in campo culturale, secondo Carter, dovrebbe quindi essere quello di facilitare la crescita culturale senza imposizioni.

Nello stesso discorso, Carter ribadì che il sostegno alle arti e alle discipline umanistiche avviene attraverso molti canali diversi, lasciando spazio allo sviluppo naturale dell’arte e della ricerca: l’esempio era proprio quello della National Gallery, mantenuta con soldi pubblici, ma che deve la sua esistenza ad atti di filantropia privata.

Carter nel 2011
Carter nel 2011

Il legame con la musica rock

Uno degli aspetti più noti della sua presidenza è stato il legame con la musica e i musicisti americani, tanto che Carter è stato definito addirittura “il presidente rock ‘n’ roll” (così anche il titolo di un documentario uscito nel 2020, Jimmy Carter: Rock & Roll President di Mary Wharton, dedicato proprio al rapporto tra Carter e il rock), Carter era un grande appassionato di musica rock e country, e la sua vicinanza a band e artisti come gli Allman Brothers Band, il Marshall Tucker Band, Charlie Daniels e Willie Nelson è stata cruciale per la sua campagna elettorale del 1976. Gli Allman Brothers, in particolare, hanno avuto un ruolo chiave, organizzando concerti per raccogliere fondi e mobilitare giovani elettori. Questo supporto musicale ha permesso a Carter di presentarsi come un candidato progressista, vicino alla cultura popolare e capace di ispirare una nuova generazione di americani.

Durante la sua presidenza, Carter ha continuato a coltivare rapporti con il mondo della musica, invitando spesso artisti alla Casa Bianca e partecipando a eventi culturali. La sua amicizia con Willie Nelson, ad esempio, è diventata leggendaria, con racconti coloriti che includono persino episodi di Nelson che fumava marijuana sul tetto della Casa Bianca. Questi aneddoti sottolineano il carattere accessibile e umano di Carter, che ha sempre cercato di costruire ponti tra politica e cultura. E il bello di tutto ciò, ha scritto David Browne su Rolling Stone ricordando proprio il rapporto tra Carter e il rock, “è che Carter non ha pagato il prezzo dell’amicizia con quei rocker mezzi tossici”. Browne ha ricordato come Carter non sia stato il primo a portare il rock alla Casa Bianca: già altri presidenti prima di lui avevano chiamato delle star della musica come ospiti alla Casa Bianca. Ma Carter portò il rock a un altro livello: “in un’epoca in cui i rocker sembravano tipi poco raccomandabili, Carter ha invitato a Washington gli underdog che quella musica rappresentava e sosteneva. Ne ha fatto la colonna sonora del partito, e non solo”.


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