C’è una realtà che il sensazionalismo degli annunci non considera: quella dei precari delle società appaltatrici che lavorano nei siti archeologici, gli stessi siti che sono sempre sulle prime pagine dei giornali, come accaduto giusto ieri per il Parco di Pompei, dove è stata riaperta dopo quarant’anni la Casa degli Amanti. Dietro a questi eventi per i quali tutti esultiamo si nasconde una realtà non altrettanto confortante, come denunciano i lavoratori che, in questi giorni, hanno dato vita a una protesta serrata partita a fine gennaio proprio da Pompei su iniziativa dei Cobas del Lavoro Privato. Le manifestazioni dei lavoratori si sono poi estese anche a Ercolano, dove domenica scorsa trecento lavoratori, tra addetti all’accoglienza, alla vigilanza, alla pulizia e alle visite guidate hanno protestato contro le loro condizioni lavorative e hanno annunciato che l’agitazione si estenderà agli altri siti della Campania (Reggia di Caserta e Oplonti), ma potrebbe anche andare oltre.
I Cobas, in particolare, denunciano che a fronte dell’aumento di visitatori e incassi da parte dei parchi di Pompei ed Ercolano, i siti continuerebbero ad abusare del lavoro in appalto, dal momento che le funzioni di accoglienza, orientamento, vigilanza e pulizia sono garantite da personale in forza a società private dalle quali lo Stato riceve gli appalti per la gestione dei servizi. I lavoratori delle società appaltatrici sono quasi sempre iperspecializzati, con titoli che spessono vanno anche oltre la laurea magistrale, ma rispetto ai dipendenti statali, denunciano i Cobas, hanno salari più bassi e meno tutele riguardo la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro. Quello che i lavoratori chiedono, dunque, è un livello d’inquadramento adeguato alle loro mansioni.
Alla voce dei sindacati si è aggiunta nelle ultime ore anche quella dei giovani che lavorano nelle società appaltatrici dei siti del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, che hanno inviato una lettera alla giornalista de Il Mattino Francesca Mari: “la situazione di noi giovani”, denunciano, “in molti ci ritroviamo ad essere laureati, alcuni iperspecializzati, che occupano posizioni da diplomati. Viene da chiedersi quali speranze possa avere chi non ha una laurea. Siamo i relitti di un paese che non soltanto ci ha rubato il futuro, ma si è preso anche il nostro presente. [...] Si è venuto così a creare il paradosso della gioventù: una generazione che da un lato resta immatura perché vive di pochezze, di pettegolezzi e di social media, mentre dall’altro si mostra più vecchia di quello che è per la rassegnazione che la caratterizza. Vogliono toglierci il diritto di parlare e lo fanno con minacce che aleggiano nell’aria, ma talvolta sono concrete: se vuoi conservare il posto di lavoro, devi stare zitto”.
Quello di cui c’è bisogno, si legge nella lettera, è “uscire dalla logica del potere e della sottomissione”. “Noi”, aggiungono i giovani lavoratori, “in quanto dipendenti del settore privato abbiamo meno voce in capitolo di chi lavora nel pubblico, anzi, non abbiamo una voce in capitolo, ma non dobbiamo avere paura di parlare. Inoltre, se uniamo le forze possiamo arrivare lontano. Bisogna uscire anche dalla logica del compromesso, quello a cui molti sindacati ci hanno abituati. Chiaramente il compromesso non è da condannare in toto, ma non può assolutamente sostituire la rivendicazione dei diritti, in quanto i diritti non sono concessioni e non vanno barattati, altrimenti non stiamo parlando di diritti bensì di contentini, o di favori che dobbiamo ricambiare in un altro modo, spesso rinunciando ad altri diritti. Con giusta ragione spesso pensiamo, o sentiamo dire, che a chi è senza lavoro e non riesce a trovarlo sia stata rubata la dignità. Purtroppo, però, in questo paese il discorso vale anche per chi il lavoro ce l’ha. Molto spesso i lavoratori e le lavoratrici sono semplice merce di scambio tra committenti, ditte che offrono servizi e sindacati stessi e, anzi, siccome un lavoro ce l’hanno, a dispetto dei tanti che restano disoccupati, secondo la mentalità corrente devono accettare tutto senza discutere”.
I problemi vengono individuati soprattutto nelle forme contrattuali atipiche (dai mini-contratti del lavoro a somministrazione ai contratti fasulli part-time), nello scarso livello degli stipendi, nella alla mancanza di spazi adeguati, nel non rispetto delle condizioni di sicurezza, nel peggioramento delle condizioni di lavoro dovute alle carenze di personale (spesso infatti capita che non si voglia o non si possa assumere e pagare altro personale, ragion per cui il lavoro in eccesso ricade sul personale già impiegato). “In Francia”, concludono i giovani lavoratori, “i dipendenti del Louvre hanno scioperato nel maggio 2019 per la situazione ingestibile dovuta al sovraffollamento del museo che, a causa della carenza di personale, comportava un rischio per la sicurezza. In Italia, invece, acclamiamo l’iniziativa che ci mette nelle stesse condizioni dei colleghi francesi. E mentre i numeri si alzano, i soldi si incassano, le notizie abbondano, trascuriamo una cosa molto importante: in Italia la salvaguardia dei patrimoni dell’umanità si realizza sulla pelle stessa degli esseri umani”.
I precari campani non sono comunque gli unici che protestano. Domani, alle 14, in piazza Cesare Battisti a Bari si terrà un flash mob organizzato dall’associazione Arti in libertà, composta da giovani progettisti della cultura, artisti, comunicatori, sociologici e produttori, per affermare l’importanza e il valore sociale, culturale ed economico del lavoro artistico e culturale, “spesso oggetto di luoghi comuni, scarso riconoscimento istituzionale e marginalità sociale”, si legge nel manifesto dell’associazione. “Per questo”, dichiara il sodalizio, “ci poniamo l’obiettivo di promuovere e fortificare la figura dell’artista e del lavoratore della cultura, attraverso la facilitazione del dialogo tra attori differenti, per alimentare processi innovativi di carattere culturale, imprenditoriale e civile”.
Nella foto: i lavoratori manifestano a Pompei.
Da Pompei a Bari monta la protesta dei precari dei beni culturali. “Ci hanno rubato il futuro” |