Quello di Margherita Sarfatti (Margherita Grassini; Venezia, 1880 - Cavallasca, 1961) non è un nome che si incontra di frequente nei manuali scolastici, eppure la sua influenza ha attraversato decenni di storia italiana, intrecciandosi con le correnti artistiche e politiche del primo Novecento. Critica d’arte, giornalista, scrittrice, è stata al centro della scena culturale italiana negli anni del fascismo, muovendosi abilmente tra i salotti intellettuali di Milano e il palcoscenico politico del regime fascista. Chi l’ha sentita nominare senza coltivare una particolare passione per l’arte, probabilmente la conoscerà anzitutto per essere stata l’amante di Benito Mussolini, ma in realtà il ruolo di Margherita Sarfatti è centrale per l’arte italiana del secolo scorso.
Va premesso che la sua figura è stata offuscata proprio per via del suo legame con il regime fascista (e nonostante ciò lei stessa, di famiglia ebrea, finì per essere colpita dalle leggi razziali del 1938): tuttavia, malgrado la sua innegabile complicità, Margherita Sarfatti è da tempo oggetto di un ricollocamento nell’ambito della letteratura storico-artistica e dell’arte del suo tempo, culminato tra il 2018 e il 2019 con un’importante doppia mostra che il Museo del Novecento di Milano e il Mart di Rovereto le hanno dedicato. Dunque, chi era davvero Margherita Sarfatti? Una critica militante visionaria? Una manipolatrice? Una donna in anticipo sui tempi?
Margherita Grassini, poi coniugata Sarfatti, nacque l’8 aprile 1880 a Venezia, in una famiglia ebrea benestante, ultima di quattro fratelli. Suo padre Laudadio Amedeo era un avvocato e imprenditore di successo, mentre la madre, Emma Levi, proveniva da una altrettanto rispettabile famiglia veneziana: era cugina di Giuseppe Levi, padre della scrittrice Natalia Ginzburg. Cresciuta in un ambiente colto e privilegiato, Margherita ricevette un’educazione privata che alimentò la sua passione per la letteratura e l’arte. Tra i suoi insegnanti e gli intellettuali che poté frequentare da adolescente ebbe, per esempio, Antonio Fogazzaro, Antonio Fradeletto, Pietro Orsi e Pompeo Gherardo Molmenti. Tuttavia, la giovane Margherita non si accontentò di osservare il mondo dorato in cui viveva: fu attratta dalle idee socialiste, che la portarono a entrare in contrasto con l’orientamento conservatore della sua famiglia.
Nel 1898, a soli 18 anni, sposò Cesare Sarfatti, un avvocato ebreo di tredici anni più anziano, che condivideva le sue convinzioni politiche socialiste. Il matrimonio, non approvato dal padre Laudadio Amedeo (la famiglia Sarfatti aveva una posizione sociale inferiore rispetto ai Grassini, e tra i due c’era un’ampia differenza d’età), segnò l’inizio di una nuova fase della sua vita: i due si trasferirono a Milano, cuore pulsante dell’innovazione culturale e politica dell’epoca, e andarono ad abitare in via Brera. Dal loro matrimonio sarebbero nati tre figli: nel 1900 Roberto Sarfatti, che morì a soli diciott’anni combattendo sul Col d’Echele nella prima guerra mondiale, nel 1902 Amedeo e nel 1907 Fiammetta.
A Milano, i Sarfatti si inserirono rapidamente nel vivace ambiente intellettuale della città. La loro casa divenne un punto di ritrovo per artisti, scrittori e politici. Margherita, con il suo spirito brillante e la sua straordinaria capacità oratoria, non era una semplice ospite: era il centro di quei salotti.
Qui, nel 1902, Margherita Sarfatti cominciò a lavorare per l’Avanti!, e nel 1909, a ventinove anni, diventò la critica d’arte del giornale socialista, dirigendone la pagina artistica. Inoltre, nel 1912, fu tra le prime esponenti socialiste a collaborare alla rivista La difesa delle lavoratrici fondata da Anna Kuliscioff in quello stesso anno. Il 1912 rappresenta uno snodo importante nella vita di Margherita Sarfatti, perché quell’anno la critica d’arte incontra Mussolini, di tre anni più giovane di lei e all’epoca ventinovenne: all’epoca, il futuro Duce era già uno degli esponenti più in vista del PSI, e si preparava a diventare direttore dell’Avanti!.
Negli anni successivi, Margherita Sarfatti sarebbe diventata animatrice di uno dei più importanti salotti culturali di Milano, abitualmente frequentato da letterati e giornalisti (come Filippo Tommaso Marinetti, Aldo Palazzeschi, Mario Missiroli, Massimo Bontempelli, Ada Negri, Sam Benelli) e da artisti, come molti esponenti del gruppo futurista (Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo), giovani come Arturo Martini, Mario Sironi, Achille Funi, Marcello Piacentini, Antonio Sant’Elia e artisti affermati come Medardo Rosso.
Risale al 1922 la fondazione, assieme al gallerista Lino Pesaro, del movimento artistico Novecento, un’avanguardia che mirava a rinnovare l’arte italiana ispirandosi alla tradizione classica ma serbando un linguaggio moderno che fosse al contempo libero e semplice. La prima mostra si tenne alla Galleria Pesaro di Milano nel marzo del 1923 e vide la presenza di sette artisti: Mario Sironi, Achille Funi, Leonardo Dudreville, Anselmo Bucci, Emilio Malerba, Pietro Marussig e Ubaldo Oppi.
Il movimento Novecento non era solo un’espressione artistica, ma anche un progetto culturale con profonde implicazioni ideologiche. Margherita Sarfatti, con la sua intelligenza critica e la sua capacità di mettere in rete i talenti più promettenti del tempo, ne fu l’anima ispiratrice. Gli artisti che si riconoscevano nel movimento venivano sostenuti e guidati da Sarfatti, che spesso interveniva direttamente nella selezione delle loro opere per mostre e gallerie. Le sue idee sull’arte, basate su una visione che integrava modernità e tradizione storico-artistica, trovarono un’eco anche a livello internazionale. Margherita Sarfatti non soltanto dunque fu promotrice del gruppo, ma contribuì a definire il gusto estetico del suo tempo.
Sarfatti avrebbe messo nero su bianco il suo ‘programma’ artistico, in un testo di grande efficacia pubblicato nel catalogo della Biennale di Venezia del 1924, che aveva riservato un sala ai pittori di Novecento (ridotti nel frattempo a sei a causa della defezione di Ubaldo Oppi). “Deità lungamente profughe, ecco ora le idee generali, le idee maestre, ritornare al dominio delle arti plastiche”: Sarfatti considerava come divinità i suoi artisti. “Sei giovani pittori, che furono tra i primi a battersi per i begli occhi del concetto e della composizione, pensarono di stringersi in manipolo per meglio circoscrivere i diritti della pura visibilità. Nacque così nel 1922 a Milano il gruppo che si intitolò ‘del Novecento’. Il nome dispiacque, quasi i sei avessero accaparrato il secolo tutto per sé, e il nome fu abbandonato. Il gruppo rimase, e la sua esistenza è un sintomo. I sei di oggi si sono accorti di avere da un pezzo combattuto a contatto di gomiti. Portano nell’arte ognuno una visione propria ma, pur nella libertà dei temperamenti e delle convinzioni individuali, tendono concordi verso alcune essenziali unità. È consolante il constatare che la ricerca stessa li conduce, come per mano, verso ideali sempre più chiari e definiti di concretezza e semplicità”.
L’arte del gruppo Novecento non fu mai arte di Stato, nonostante il legame tra Margherita Sarfatti e il regime: non assunse mai un carattere ufficiale imposto o esclusivamente propagandistico come altre forme di arte associate a regimi totalitari (ad esempio il Realismo Socialista in Unione Sovietica o le produzioni culturali della Germania nazista). Gli artisti del Novecento non lavoravano sotto un programma artistico ufficialmente stabilito dallo Stato: al contrario, il movimento promuoveva una pluralità di voci unite dall’intento di combinare tradizione e modernità, lasciando spazio alla libertà espressiva individuale, pur restando in sintonia con l’ideologia dominante. Il fascismo, specialmente nei primi anni, si mostrò aperto a diverse correnti artistiche, tra cui il Novecento, pur esercitando comunque controllo e censura. Tuttavia, non rese mai questo movimento l’unico linguaggio ufficiale dell’arte italiana. Mussolini stesso, nonostante l’amicizia con Sarfatti, non adottò mai il Novecento come la forma esclusiva di rappresentazione estetica del regime. Anzi, non tutti nel regime apprezzavano il Novecento: Mussolini stesso, in una lettera a Margherita Sarfatti del 9 luglio 1929, scrisse: “questo tentativo di far credere che la posizione artistica del fascismo, sia il vostro ’900, è ormai inutile ed è un trucco... poiché non possedete ancora l’elementare pudore di non mescolare il mio nome di uomo politico alle vostre invenzioni artistiche o sedicenti tali, non vi stupiate se alla prima occasione e in un modo esplicito, vi preciserò la mia posizione e quella del Fascismo di fronte al cosiddetto ’900 o quel che resta del fu ’900”.
Uno degli aspetti più controversi della vita di Margherita Sarfatti fu il suo rapporto con Benito Mussolini. I due, come detto, si incontrarono nei primi anni del Novecento, quando Mussolini era un giovane dirigente e giornalista socialista. Margherita ne rimase affascinata, tanto per le sue idee quanto per il suo carisma. La loro relazione, che durò per oltre un decennio, non fu solo sentimentale, ma anche intellettuale. Il futuro Duce la volle come collaboratrice a Il Popolo d’Italia, il giornale che aveva fondato nel 1914, dopo essersi dimesso dalla direzione dell’Avanti!, e sul quale Margherita cominciò a scrivere già nel 1918.
Margherita Sarfatti giocò un ruolo cruciale nell’ascesa politica di Mussolini. Fu lei a introdurlo nei circoli che lo aiutarono a costruire la sua rete di supporto. Era presente in Piazza San Sepolcro a Milano quando, il 23 marzo 1919, vennero fondati i Fasci italiani di combattimento. Inoltre, collaborò attivamente alla propaganda del regime, scrivendo articoli e saggi che ne esaltavano la figura. Il più famoso è The Life of Benito Mussolini, pubblicato in Inghilterra nel 1925 e poi uscito in Italia l’anno dopo col titolo Dux, una biografia del dittatore, ispirata da Giuseppe Prezzolini, che ebbe un successo straordinario (oltre un milione e mezzo di copie vendute in Italia), venendo tradotta in molte lingue. Nel 1926, Margherita Sarfatti decise anche di trasferirsi a Roma assieme ai figli (nel 1924 era venuto a mancare il marito Cesare), per stare vicina al Duce.
Il rapporto con Mussolini non fu privo di ombre. Con il tempo, le divergenze ideologiche e personali portarono a un progressivo allontanamento, anche a causa degli attriti tra Margherita Sarfatti e l’intellighenzia del regime, che non vedeva bene la sua influenza sul Duce: contrariamente a molti quadri del partito, Margherita Sarfatti avrebbe voluto avvicinare l’Italia agli Stati Uniti anziché alla Germania di Hitler (per tale ragione, nel 1934, viaggiò anche negli Stati Uniti). Gli intellettuali del regime cercarono anche di sminuire il suo ruolo all’interno del gruppo Novecento, che nel 1934, dopo oltre dieci anni di attività, poteva dirsi ormai sciolto. Nel 1938, con l’introduzione delle leggi razziali fasciste, Margherita Sarfatti non era più al sicuro in Italia (la sorella Nella Grassini Errera rimase in Italia e venne deportata col marito ad Auschwitz, dove morì), nonostante avesse abiurato formalmente l’ebraismo e si fosse convertita al cattolicesimo già nel 1928: dovette dunque lasciare l’Italia e rifugiarsi prima a Parigi, poi in Uruguay e quindi in Argentina, dove continuò il suo lavoro di giornalista e animatrice culturale.
Dopo la Seconda guerra mondiale, nel luglio del 1947, Margherita Sarfatti tornò in Italia, stabilendosi a Roma, ma la sua influenza era ormai svanita. Il legame con il fascismo l’aveva resa una figura controversa, e il mondo culturale italiano del dopoguerra era riluttante a riconoscerne i meriti. Nonostante ciò, continuò a scrivere, a lavorare come giornalista (scriveva per Il Roma, per Scena illustrata e per Como) e a promuovere l’arte fino alla sua morte, avvenuta il 30 ottobre 1961 a Cavallasca, vicino a Como, dove aveva una villa.
Al di là del suo ruolo politico, Margherita Sarfatti fu una figura centrale nella promozione dell’arte italiana del Novecento. Il suo ruolo come critica d’arte e mecenate contribuì a lanciare la carriera di artisti come Mario Sironi, Achille Funi e Carlo Carrà. La sua idea di un’arte nazionale, capace di fondere modernità e tradizione, rimane uno dei lasciti più importanti del movimento Novecento.
Margherita Sarfatti rimane oggi una figura ambivalente. Da un lato, è ricordata come una pioniera dell’arte e della cultura italiana, una donna capace di imporsi in un mondo dominato dagli uomini. Dall’altro, la sua vicinanza al regime fascista e il suo sostegno iniziale a Mussolini hanno gettato un’ombra sulla sua eredità. Innegabili però sono i meriti che occorre riconoscere a Margherita Sarfatti. Appena giunta a Milano, assieme ad Anna Kuliscioff, ha cercato d’affermare il ruolo dell’intelligenza e della creatività femminile all’interno dei confini di un mondo maschile, maschilista, patriarcale, e la stessa Sarfatti non lesinava strali contro i suoi colleghi maschi.
E poi, il suo contributo non si limitò al delineamento della poetica del gruppo Novecento. Intanto, Margherita Sarfatti aveva perfettamente intuito il modo in cui andava delineandosi un sistema dell’arte simile a quello contemporaneo, fatto di galleristi, artisti, giornalisti e critici a volte legati tra loro, un sistema in cui lei stessa seppe muoversi sempre a suo agio, scrivendo peraltro con uno stile critico, al tempo stesso incisivo e appassionato, capace di cogliere le tendenze emergenti e di inserirle in un quadro storico e culturale più ampio.
Inoltre, la Sarfatti è stata tra le prime a comprendere l’importanza della comunicazione e di quello che oggi definiremmo il... marketing culturale. Attraverso una rete di contatti che spaziava dall’Europa agli Stati Uniti, riuscì infatti a promuovere l’arte italiana su scala internazionale, stabilendo un dialogo con critici, collezionisti e istituzioni estere. La sua influenza (un vero “colonialismo estetico” come lo ha definito la studiosa Daniela Ferrari) si estese ben oltre i confini nazionali, contribuendo a posizionare l’arte italiana come una delle principali protagoniste della scena culturale del Novecento.
Sul piano della teoria dell’arte, Margherita Sarfatti era convinta sostenitrice di un’arte proiettata verso il futuro ma in costante dialogo con la tradizione. Pur promuovendo un ritorno ai valori classici (e rifiutando però un nostalgico classicismo), la Sarfatti non rinnegò mai l’importanza delle novità. Al contrario, il Novecento si caratterizzò per una sintesi tra il rigore formale della classicità e le nuove sensibilità del XX secolo, da raggiungere secondo alcuni punti fermi: attenta costruzione, semplicità intesa come rinuncia agli eccessi, alla decorazione e agli effetti, razionalità, sobrietà.
“Per quale ragione”, scriveva Margherita Sarfatti, “la pittura italiana, sola fra quelle dell’età moderna, anche rappresentando uomini e cose della quotidiana vita, conferisce loro un alone di irrealtà immateriale, che le trasfigura? Io credo di aver scoperto, dopo molte meditazioni, il segreto. Si è che queste figure e questi oggetti non sono adoperati come materiale definitivo in sé stesso, scelti e adattati quale materia prima di una composizione architettonica, della quale formano parte e di cui forniscono le membra. Prima di essere un uomo in piedi, una donna piangente, un albero o un vaso di frutta, queste immagini corpose sono ragioni e motivi di ritmo nello spazio. […] Dal moderno risale all’eterno, e dal casuale al definitivo”.