Pubblichiamo di seguito la trascrizione completa, tradotta dall’inglese, della lectio che Jeff Koons ha tenuto martedì 16 aprile 2019 all’Accademia di Belle Arti di Carrara in occasione del conferimento del titolo di Accademico d’Onore dell’istituto carrarese.
È bello essere qui oggi, ed è emozionante perché tutti noi siamo qui per celebrare la vita e il suo divenire. Ricordo che quando ero bambino, avevo forse tre o quattro anni, ebbi un’esperienza: i miei genitori mi videro disegnare mezzo nudo per terra, e mi dissero “che bravo, continua così”. Io ho una sorella di tre anni più grande, che all’epoca era più brava in tutto: a saltare la corda, a contare, a parlare, a pronunciare bene anche le parole difficili. Insomma, sapeva fare tutto meglio di me, e quando disegnai, e i miei genitori si complimentarono con me, ebbi la consapevolezza che finalmente anch’io avevo trovato la mia strada e un’area in cui potevo eccellere. Questa esperienza ci riconduce allo sviluppo del senso del sé, e forse ognuno di noi in un modo o nell’altro ha vissuto qualcosa di simile.
Così, grazie ai miei genitori, ho preso lezioni d’arte fino alla fine del liceo, e in questo modo ho imparato a fare disegni di fiori, paesaggi, e cose del genere. Ma non avevo idea di cosa potesse essere davvero l’arte. Certo, sapevo che l’arte aveva delle regole (pensiamo alla prospettiva), però questa poteva chiamarsi arte? Secondo me questa non è arte, ma è imparare una tecnica. Io ho frequentato l’Accademia a Baltimora, nel Maryland, e in uno dei primi giorni di scuola ci portarono in pullmann a visitare il museo d’arte di Baltimora. Quando vidi le opere di quella famosa collezione, realizzazi che non conoscevo niente dell’arte. Non sapevo per esempio cosa fosse il barocco, non avevo mai sentito parlare di Cézanne e di tanti altri artisti: quell’esperienza mi aprì gli occhi. E realizzai che molti dei miei compagni non sopravvivevano a quel momento. Il fatto che io sia qui vuol dire che ci sono riuscito: sono cioè riuscito a capire che l’arte non è tecnica, non è conoscenza, ma è quello a cui tu puoi contribuire, con la tua creatività, il tuo sentire, la tua storia personale. Molti aspiranti artisti non hanno mai imparato a credere abbastanza in se stessi, non si lasciano andare, non si aprono abbastanza. Ma questa è l’unica cosa importante nell’approccio all’arte: devi aprirti completamente all’arte, la tua storia è la tua base. È come le fondamenta di un edificio. Non si possono usare i background culturali di altre persone, devi rifarti al tuo e aprirti completamente all’arte per essere produttivi. Non c’è niente di più soddisfacente che trovare una base in se stessi. E questa esperienza, come dicevo, mi ha fatto capire che di arte in realtà non sapevo niente. Come quando uno guarda una partita di calcio: magari ti entusiasma, ma non ci capisci niente. Così tornai all’Accademia forte di questa consapevolezza, e mi ricordo benissimo la prima lezione di storia dell’arte di un mio professore, che mi aprì ulteriormente gli occhi con un quadro di Manet, l’Olympia. Quando il mio professore cominciava a parlare di come Manet avesse dipinto la sua Olympia, parlando della posizione dell’Olympia, delle pieghe, della simbologia, di cosa ci fosse dietro al mazzo di fiori o al gatto nero, ci faceva capire i rimandi culturali e politici della Francia dell’Ottocento. L’arte in realtà trascende, ci ricollega al resto dell’umanità, a tutte le discipline del sapere umano, la psicologia, la sociologia, la storia, la filosofia, la fisica... tutto è arte, è un qualcosa che ti permette di abbracciare tutte le discipline e di trascenderle.
Quindi volevo essere partecipe dell’arte, volevo acquisire un potere, e per arrivarci cominciai a sviluppare un’iconografia personale, che per me è un vocabolario che permette di controllare i propri sentimenti e le proprie emozioni. Io ho sempre amato il dada e il surrealismo, e quand’ero al college ero impegnato a realizzare immagini dando libera espressione ai miei sogni, da cui traevo fonti d’ispirazioni. Anche in quel periodo ero molto interessato alla psicanalisi di Jung e alla filosofia di Nietzsche, che parlavano di un mondo interiore, ma ero consapevole che questo mondo non andasse esplorato in quanto tale. Mi sentivo già abbastanza sicuro di me, quindi volevo piuttosto aprirmi al mondo esterno, realizzare non un dialogo interiore con me stesso, ma un dialogo col resto del mondo. Dopo l’Accademia di Belle Arti mi trasferii a New York, e in quel momento la mia unica espressione artistica era la pittura. Avevo imparato anche a scolpire, ma in realtà non mi ero mai cimentato nella scultura. A un certo punto mi resi conto che i miei dipinti cominciarono a essere così pesanti e grandi che le opere appese al mio studio sfidavano le leggi della gravità, e ponendole direttamente per terra cominciarono a trasformarsi in opere scultoree. E in seguito cominciai ad appassionarmi alla realizzazioni di opere come coniglietti e fiori gonfiabili. Ma non dovete guardarli come oggetti in quanto tali: diventano opere d’arte nel momento in cui entrano in relazione con voi, perché sono realizzati con superficie specchiante, e a seconda di come ci si muove si hanno degli stimoli diversi. Le opere stimolano, emozionano, muovono un interesse, e la vera arte sta in quello che le opere stimolano in te. Questo è ciò che mi interessava trovare. Inoltre, i gonfiabili sono legati al respiro umano: sono quindi gonfiati con energia vitale, e mi affascinava anche la dicotomia con la morte, rappresentata dal momento in cui i palloncini si sgonfiano.
Dopo aver creato i gonfiabili ho creato un’altra serie chiamata The New, un rimando ai ready made di Duchamp, oggetti di uso quotidiano, ma da non utilizzare, per far sì che fossero nuovi per sempre. In questo caso la prima dicotomia è tra l’organico e l’inorganico: noi umani ci usuriamo, e l’oggetto che non è usato rimane invece lì, integro, nuovo. Naturalmente ci sono tante fonti d’ispirazione (ad esempio ero innamorato del cubismo e di Picasso), e in più avevo il vantaggio che ero molto giovane. Ogni età ha la sua bellezza, e una delle più fantastiche è la vostra. Alla vostra età, attorno ai 20-25 anni, c’è un tipo diverso di intuizione, che è molto spinto, c’è una maggiore velocità di pensiero, c’è energia, c’è entusiasmo da coltivare, e ognuno di voi dovrebbe usare questa energia, perché è straordinaria e vi fa sentire vivi. Una vera immersione nella vita.
Era quello il periodo in cui coltivavo questa passione per i ready made: ho lavorato fino alla fine degli anni Settanta sui gonfiabili e sui ready made, che rappresentano una sfida, un qualcosa che rimane eterno, e che ci fa riflettere sulla nostra vulnerabilità, sulla fragilità di noi esseri umani. Poi mi resi conto che con la serie The New avevo dato voce soprattutto a un mondo femminile, ma in realtà mi sono anche avvicinato a qualcosa di più maschile arrivando al ciclo Equilibrium, con le palle da basket vuote immerse in una sorta di acquario, che rimangono perfettamente in equilibrio (e questo dalla metà degli anni Ottanta). Oltre a rappresentare un rapporto maschile con l’oggetto, Equilibrium è qualcosa di metafisico che ci rimanda a una vita fetale, a una vita prima della nascita, un po’ come il feto nell’utero, che può essere qualcosa di senza tempo, che ci fa pensare al qui e ora, al momento, ma anche a ciò che accade dopo la morte. Inoltre, tornando alla serie The New, scelsi gli aspirapolveri anche perché ci facevano pensare agli anni Cinquanta, e questo mi ha fatto riflettere anche perché sono sempre stato interessato dalla vendita. Quando ero ragazzo ho anche fatto il venditore (andavo porta a porta vendendo cioccolata e carta da regalo), e quello che mi intrigava di più era il momento in cui il venditore bussa alla porta. Quando bussavi alla porta non sapevi chi avrebbe aperto: non sapevi chi ci sarebbe stato, non sapevi se sarebbe stato un uomo o una donna, non sapevi che odori si sarebbero sprigionati dalla porta, in che modo la persona avrebbe aperto la porta. Questo contatto con l’umanità per me fu l’inizio della pratica dell’accettazione e della capacità di accettare. La vita è fatta di tanti bisogni reciproci, degli uni e degli altri, non ci sono solo i propri: questa consapevolezza mi ha portato all’idea di Equilibrium.
E nel realizzare i vari cicli, le varie opere, mi sono sempre lasciato andare. Quando ho creato il coniglio gonfaibile, io avevo seguito i miei interessi, i miei desideri, pensavo a cosa mi rendeva curioso, a cosa mi emozionava. E quindi mi sono imbattuto in quella figura che poi è diventata abbastanza iconica per la mia arte: l’idea era quella di fare qualcosa che esplodesse di generosità. La generosità è davvero importante. L’arte è un’attività generosa, devi essere generoso con te stesso e con gli altri per essere artista. Non siamo niente senza generosità: è vero che l’arte soddisfa anzitutto i propri bisogni di generosità, ma poi c’è un richiamo, una spinta più elevata, che ti porta a soddisfare i bisogni della comunità, degli altri. È come portare a casa tanto cibo, consapevole che poi non te lo puoi mangiare tutto: non è più bello condividerlo con gli altri? L’arte è generosità. E gli oggetti sono solo un veicolo, a prescindere da quello che possono essere e dal fatto che possano sembrare banali, come i ninnoli un po’ kitsch che magari la nonna teneva sul comodino. Poco importa, purché ispiri qualcosa, ti faccia provare un sentimento, ti faccia star bene, ti faccia piacere, pensiamo a un ricordo d’infanzia, per esempio quando da bambino ti avvicinavi al comodino della nonna per guardare i suoi ninnoli. Alla nonna faceva piacere, e tu hai un ricordo piacevole? Questo è arte, è il rapporto che tu instauri con gli oggetti e i sentimenti che questo rapporto ti suscita. Da questa idea nasce anche la serie Banality, a cui cominciai a lavorare negli anni Ottanta, quando passai tanto tempo in Italia. Con questa serie volevo comunicare alle persone che qualunque sia la loro storia, quella storia è perfetta, va sempre bene. Quello che conta è il tuo corpo, la tua mente, quello che ti accade, entrare in contatto con la tua essenza, questa è arte. L’arte è l’essenza del tuo potenziale.
Ho capito qualcosa di simile andando a visitare le chiese e i monasteri. Era un’esperienza quasi drammatica, tu provavi davvero la trascendenza, e volevo che le mie opere comunicassero nello stesso modo. Ma volevo che tutti provassero sentimenti di questo tipo, quindi ho scelto soggetti popolari che potessero comunicare a tutti. Per comunicare, tutto va bene. La propria storia, il proprio passato: dobbiamo accettare la nostra storia. Noi siamo quello che siamo per il nostro passato e la nostra esperienza, e se c’è qualcosa che ti suscita gioia o piacere va benissimo, perché ci ricollega alla spiritualità e alla trascendenza. Tutto questo lo ritroviamo, per esempio nella scultura di Michael Jackson, che a me fa pensare alla scultura del Rinascimento, con le forme piramidali che ricordano la Pietà di Michelangelo, ma anche a Tutankhamon, per esempio, e di sicuro parla a tutti perché Michael Jackson è un personaggio popolare. E con queste opere volevo parlare in un modo che suscitasse un sentimento a tutti.
Dopo Banality ho lavorato su Made in Heaven e su Puppy, un’opera raffigurante un cagnolino in forma gigante realizzata con 65.000 diversi tipi di piante, che simboleggiano le tante decisioni che tu devi prendere quando devi fare qualcosa. Mi interessava questo aspetto relativo al controllo, a come tenere tutto sotto controllo ma anche a come lasciar andare tutto per far sì che poi sia la natura a prendere il sopravvento. Le piante, una volta lasciate andare, sono gestite dalla natura. E qui torna ancora il concetto della polarità: tenere tutto sotto controllo e poi lasciarlo andare. Un po’ come il nostro cagnolino quando ci viene incontro quando torniamo a casa, che sta sotto il nostro controllo, perché lo chiamiamo, ma esercita comunque la sua volontà e se vuole è libero di non venire da noi.
A questo ragionamento si collega anche l’idea per cui l’arte non è soltanto quella creata dall’artista, ma anche quella creata da chi fruisce l’opera d’arte. Sta allo spettatore completare quello che c’è dietro un’opera. Come artista, hai la possibilità di creare un contesto e di portare qualcuno verso un certo punto di vista, ma devi farlo affinché un punto di vista susciti qualcosa nello spettatore, che completa l’opera secondo la sua potenzialità. Tutto ciò rimanda agli aspetti legati al controllo. Il controllo non è una cosa totalmente negativa: se noi stessi non agissimo su di noi con controllo e disciplina non sapremmo fare niente. Il controllo è una polarità, e c’è sempre un’area in cui il controllo non è possibile: quest’area sono le relazioni umane. E l’arte è anche la capacità di riflettere sulle relazioni umane.
Il concetto della polarità emerge anche dal Balloon Dog, il gonfiabile a forma di palloncino. Sappiamo che è fatto di un materiale che non resiste molto, non è una cosa fatta per durare per esempre. In sé ha un valore simbolico, che mi rimanda al filosofo John Dewey, che descrive la vita come un organismo influenzato dal mondo esterno, ma non in maniera univoca, bensì in maniera biunivoca. Il palloncino è simbolo di ottimismo, ma rappresenta anche noi, ha tanti significati e tanti rimandi, che arrivano fino alla preistoria, che ci parlano di scoperta e di osservazione. Ognuno di noi ha il proprio vocabolario che deve trovare e che ci portiamo dietro e che si sviluppa e che deve essere realizzato. A me, per esempio, il coniglio gonfiabile ricorda la regina Nefertiti con il suo profilo molto stilizzato e quasi regale. Lo stesso vale per la scultura che riproduce un Play-Doh gigante: non è definibile, ma mi ricorda un gioco che faceva mio figlio Ludwig, a cui regalai un sacco di plastilina, e lui un giorno creò una montagnola abbastanza informe, cosa che a me ricordava un’opera d’arte. Questo aspetto ci rimanda anche all’idea di sospendere il giudizio: ho cercato di replicarlo (quasi come fosse mio figlio che mi insegnasse) realizzando qualcosa del genere ma di molto grande, che ha a che fare con il XX secolo, con l’arte astratta e con la psicanalisi freudiana.
Un altro lavoro che vorrei citare è la serie Antiquities, che fa riferimento al mio amore per le ceramiche del XVIII secolo. Quello che mi piace di quest’opera in acciaio inossidabile è che gioca sulle gradazioni di tonalità, che cambiano anche a seconda del punto di vista, ed è pertanto un’opera che si attiva nel momento in cui la si guarda. Per me rappresenta anche il tempo, mi ha fatto pensare a quand’ero piccolo e mangiavo cornflakes e cereali e mi incantavo a guardare la confezione, le gradazioni dei colori sulla scatola stimolavano la mia immaginazione. Un po’ come la musica, è come se fosse musica espressa in maniera visiva: la musica ti fa dimenticare il tempo, perché nel momento in cui tu sei preso dall’ascolto ti dimentichi il tempo, e io con questa opera voglio rappresentare tutto ciò.
Tutte le opere di cui ho parlato fin qui erano ready mades, oggetti banali, di uso quotidiano e familiare. Bisogna però andare oltre: queste opere rappresentano il fatto che secondo me bisogna sospendere il giudizio, toglierlo dal nostro vocabolario, eliminare le gerarchie. Questo ci permette innanzitutto di accettare noi stessi e di aprirci agli altri, e in seguito di accettare gli altri. Arte vuol dire sospendere il giudizio per celebrare le persone. Questo è anche il ruolo dell’artista: suscitare la capacità di aprirsi agli altri. C’è gente che pensa di farlo ma in realtà non lo fa per paura e prende in giro se stessa. All’Accademia molti miei compagni, direi il 90% di loro, non hanno più proseguito questo tipo di studi, perché non si sono realmente aperti all’arte, hanno avuto paura. Io invece cerco sempre di guardare attorno, e per non perdere tutto devo accettare tutto, me stesso e gli altri. Questa è l’arte: la capacità di aprirsi agli altri e al mondo. L’arte mi permette di cercare un dialogo, un coinvolgimento fisico, come quando visiti delle opere barocche (per esempio alla Cappella Sansevero a Napoli, o le opere di Bernini). L’arte fa parte di noi stessi, del nostro DNA, è la nostra vita culturale, è un continuo dialogo. L’arte inoltre ci cambia anche a livello genetico, influisce su di noi in maniera profonda e totale. Queste linee culturali ci cambiano la vita e scorrono a fianco a noi rendendoci persone diverse rispetto a quello che siamo. L’arte celebra il passato, la contemporaneità e il futuro, l’arte ci aiuta a trovare un significato nella vita. Io, con la mia arte, ho sempre cercato di essere partecipe. E questo penso significhi essere un artista contemporaneo.
“Arte è capacità di aprirsi agli altri e al mondo”. La lectio integrale di Jeff Koons all'Accademia di Carrara |