In Namibia scoppia la polemica per il debutto del paese africano alla Biennale di Venezia. Tutto ruota attorno alla rappresentazione del paese che verrebbe data nel Padiglione della Namibia, che aprirà sull’isola della Certosa. Cosa vedrà il pubblico nel padiglione, intitolato A Bridge to the Desert? Ci sarà, ha spiegato il curatore Marco Furio Ferrario, un progetto di Land Art intitolato The Lone Stone Men of the Desert, opera di un collettivo di artisti che rifiutano ogni identificazione, connotazione e riferimento e preferiscono presentarsi con lo pseudonimo RENN. L’opera vuole essere una riflessione sulla condizione umana raccontata da una serie di sculture apparse alcuni anni fa nella regione del Kunene del deserto del Namib, il più antico del mondo.
Le sculture, in pietre del deserto e tondini di ferro, hanno fattezze umane stilizzate e gli autori hanno scelto di non firmarle in origine, identificandole solo con una frase e un numero: vogliono infatti rappresentare le diverse culture, distanti, ma in cerca di un incontro per trovare insieme il posto del genere umano nella natura, raffigurata dal deserto stesso, che non è solo contesto di un’opera site-specific, ma parte integrante dell’opera stessa. “Questa unione di opera e contesto naturale”, spiegano gli organizzatori in una nota, “ha in sé un’altra chiave di lettura fondamentale, considerando che solo due tipologie di osservatori possono entrare in relazione con l’opera: gli Himba - tra le ultime tribù umane a vivere ancora in uno stato pretecnologico - e i pochi, fortunati e coraggiosi viaggiatori che si spingono ad esplorare il deserto - per lo più appartenenti a gruppi sociali opposti agli Himba, con stili di vita fortemente tecnologizzati e urbanizzati”. Ecco dunque che le opere intendono diventare un ponte sul deserto come da titolo del padiglione, e questo ponte vuole rappresentare la distanza culturale tra le popolazioni del mondo, ma anche la situazione critica raggiunta nel rapporto tra l’umanità nel suo complesso e la Terra come nicchia biologica.
Il padiglione comprenderà anche una mostra fotografica documentaristica, allestita presso l’antico Casello delle Polveri della Certosa, grazie alla collaborazione con Vento di Venezia, la società che gestisce il programma di rigenerazione dell’isola, che presenta al pubblico una selezione di fotografie raffiguranti le sculture protagoniste del progetto, che vuole anche porsi come iniziatore di un movimento chiamato desert art: “il possibile inizio di una tale nuova corrente, che prende elementi dalla street-art, dalla land-art e dalla pop-art”, si legge ancora nella nota, “è argomentato nella curatela e nella mostra”. Infine, il Padiglione si sviluppa anche attraverso un percorso di installazioni immersive distribuite nel parco della Certosa, invitando i visitatori a una caccia all’opera sull’isola, in modo analogo a come avviene nel deserto.
Perché è nata la polemica? Un gruppo di personalità dell’arte namibiana, riunitesi sotto il nome “Concerned Artists Namibia” (“Artisti Preoccupati Namibia”) ha lanciato a inizio marzo su Change.org una petizione per sostenere che il progetto di RENN e Ferrario non è rappresentativo delle arti contemporanee della Namibia, con critiche durissime. La visione offerta dal padiglione, secondo gli estensori della petizione, sarebbe anzi “inappropriata, antiquata e problematica”. Tre, in particolare, i problemi: il primo sono proprio le sculture, che rappresentano i popoli indigeni della namibia come più vicini alla natura, e quest’idea sarebbe “storicamente razzista”, e usata in passato “per giustificare l’oppressione delle popolazioni indigene etichettandole come ingenue e subumane”. Critiche anche alla presentazione delle opere: il fatto che nel deserto possano essere viste solo dagli Himba e dai viaggiatori rappresenta, secondo i critici, una “dicotomia prevenuta e coloniale dell’incivile contro il civilizzato”. Ancora, il fatto che i viaggiatori siano definiti “coraggiosi” evocherebbe la percezione del deserto e dei suoi abitanti come elementi da esplorare solo da chi ha le capacità per farlo attraverso “stili di vita ad alto contenuto tecnologico: come discusso da molti storici e accademici, questa è la stessa base ideologica che ha sostenuto l’espansione coloniale e l’occupazione di territori come la Namibia e lo sfruttamento della sua gente e delle risorse naturali”.
Il secondo problema sta nel fatto che, secondo i critici, limitare il padiglione alle sole sculture di RENN (che, rileva la petizione, pur essendo un artista ufficialmente privo di identità è riconducibile a un soggetto attivo nell’industria del turismo, peraltro bianco e maschio) non tiene conto della vitalità della scena culturale della Namibia. Inoltre viene criticata la scelta stessa dell’artista: “non è stato possibile trovare scritti critici acclamati sul suo lavoro, non ha mai esposto né in personali né in collettive alla National Art Gallery of Namibia, e a nostra conoscenza non è presente in nessuna collezione internazionale. Questi sono spesso i criteri basici per misurare il calibro degli artisti che vengono portati alla Biennale di Venezia; cioè hanno ottenuto il riconoscimento sia locale che internazionale su piattaforme culturali e critiche legittime”.
Infine, la terza critica, riguarda la “mancanza di professionalità, esperienza curatoriale e conoscenza nel campo dell’arte contemporanea dalla Namibia”, come scrivono i critici a proposito degli organizzatori: “ci sembra che un gruppo di individui italiani senza esperienza curatoriale a un livello rilevante fino ad oggi (per non parlare di un coinvolgimento significativo con l’arte dalla Namibia) hanno intrapreso il concetto descritto per ’rappresentare’ la Namibia a Venezia. Quasi nessuna informazione è disponibile sull’esperienza o sulle credenziali di questi individui, o qualsiasi connessione con il mondo dell’arte della Namibia che potrebbe forse giustificare la loro iniziativa come rappresentanti della Namibia in un evento di questo prestigio e scala”. Sempre secondo i critici, gli organizzatori non sarebbero neppure “consapevoli delle sensibilità legate ai temi decoloniali e intersezionali, specialmente in un’epoca post-apartheid particolarmente sentita, durante la quale gli sforzi per correggere le ingiustizie del passato sono fondamentali quando ci si impegna in un progetto di questa natura”. Il curatore Ferrario, classe 1984, in effetti non ha esperienze nel mondo dell’arte, poiché proveniente dal mondo dei viaggi: il padiglione nazionale della Namibia rappresenta la sua prima esperienza in tal senso.
In conclusione, i critici sperano che il governo della Namibia ritiri la sua approvazione per il padiglione nazionale. Questo significherebbe che Ferrario e il suo team non potrebbero più partecipare alla Biennale di Venezia sotto l’egida del paese africano: dovrebbero per forza presentarsi come mostra indipendente o collaterale. La polemica ha già scatenato i suoi effetti: la principale patron del progetto, Monica Cembrola, che pure aveva dichiarato, prima delle critiche, di aver deciso di sostenere il padiglione “perché la sua originalità si rivela in linea con i progetti che La Fondazione MCFAF sostiene da anni e che hanno come scopo quello di sviluppare il talento e le capacità degli artisti africani”, si è dimessa a pochi giorni dall’apertura della biennale, e il principale sponsor della mostra, Abercrombie and Kent, ha ritirato il proprio sostegno. L’esordio della Namibia alla Biennale di Venezia non è davvero partito sotto i migliori auspici.
Nell’immagine: l’opera Far gone di RENN.
Dure polemiche per il Padiglione della Namibia alla Biennale. “Non rappresenta il paese” |