Belgrado, la Biennale non riconosce la nazionalità di Halilaj, kosovaro. Lui si ritira con una lettera


Petrit Halilaj, kosovaro, si ritira dalla Biennale di Belgrado perché non viene riconosciuta la sua nazionalità. E lui scrive una lettera per motivare le sue ragioni.

Petrit Halilaj (Kostërrc, Kosovo, 1986) è uno degli artisti giovani più promettenti d’Europa, con all’attivo già una carriera decisamente interessante (su Finestre sull’Arte gli abbiamo dedicato un lungo approfondimento che potete trovare sull’ultimo numero della nostra rivista cartacea). Di recente, Halilaj era stato selezionato per partecipare all’edizione 2020 della Biennale di Belgrado (che ufficialmente si chiama “Salone di Ottobre” ed è giunta quest’anno alla cinquantottesima edizione), che aprirà il prossimo 16 ottobre e che vedrà lavori di importanti artisti internazionali, tra cui anche alcuni protagonisti dell’ultima Biennale di Venezia (come Neïl Beloufa e Augustas Serapinas; presenti anche due artisti italiani, ovvero Invernomuto e Nico Vascellari). Il problema è che Halilaj è kosovaro, e la Serbia non ha ancora riconosciuto il Kosovo come una nazione indipendente, ragion per cui l’organizzazione della Biennale di Belgrado non riconosce la nazionalità dell’artista.

Di conseguenza, Halilaj, che vive e lavora a Berlino e ha peraltro una storia personale da profugo molto travagliata (da bambino, durante la guerra, ha vissuto per due anni in un campo profughi), ha deciso di ritirare la sua partecipazione. Il Kosovo ha autoproclamato la propria indipendenza il 17 febbraio 2008: a quest’anno, l’indipendenza del Kosovo è riconosciuta da 96 stati dell’Onu, tra cui quasi tutte le nazioni dell’Unione Europea (mancano all’appello soltanto Spagna, Grecia, Slovacchia e Romania). Diversi paesi, come la Serbia, la Russia, la Cina, l’India, il Brasile, il Sudafrica, l’Iran, l’Argentina e molti altri, continuano invece a non riconoscere il Kosovo come un paese indipendente.

Quest’anno la Biennale di Belgrado è diretta da due curatori italiani (Ilaria Marotta e Andrea Baccin, direttori della rivista Cura.), e il suo tema è The Dreamers: Halilaj avrebbe dovuto presentare un video intitolato Shkrepëtima (Flash of Light) che, in accordo con i temi della sua arte, documenta una performance inscenata nella città di Runik in Kosovo in cui si affrontano argomenti come la casa, l’allontanamento, la guerra. Nell’elenco dei partecipanti, la nazionalità di Halilaj inizialmente era stata omessa, e la richiesta dell’artista di inserirla non era stata soddisfatta (l’organizzazione aveva messo semplicemente un asterisco a fianco del nome del paese, spiegando poi di essere costretta a seguire le politiche serbe sulla questione). Non c’è stato modo d’indicare l’origine di Halilaj come per gli altri artisti (non è servito neppure cancellare tutte le nazionalità degli altri partecipanti), così l’artista si è ritirato fornendo le motivazioni in una lettera aperta. Di seguito, dopo l’immagine, il testo completo.

Petrit Halilaj, Shkre?petima (2018; fotogramma da video, video mono canale singolo, sonoro, durata 37’10”). Prodotto da Fondazione Merz e Hajde! Foundation. Courtesy l’artista; Fondazione Merz, Torino; ChertLu?dde, Berlino; e kamel mennour, Parigi / Londra.
Petrit Halilaj, Shkre?petima (2018; fotogramma da video, video mono canale singolo, sonoro, durata 37’10”). Prodotto da Fondazione Merz e Hajde! Foundation. Courtesy l’artista; Fondazione Merz, Torino; ChertLu?dde, Berlino; e kamel mennour, Parigi / Londra.

Ridateci le nostre stelle

Il ritiro di Petrit Halilaj da “The Dreamers”, 58^ Biennale di Belgrado

Lettera aperta

Nel 2019 sono stato invitato da Ilaria Marotta e Andrea Baccin a prender parte alla 58^ Biennale di Belgrado, intitolata “The Dreamers”, organizzata e ospitata dal Centro Culturale di Belgrado (KCB) e la cui apertura è fissata per ottobre 2020. Ero emozionato perché sapevo di collaborare con loro e di recarmi a Belgrado per la prima volta in veste di artista kosovaro. Avrei esposto un video su “Shkrepëtima”, una performance teatrale inscenata a Runik (la città dove sono cresciuto in Kosovo, nonché sito di uno dei primi insediamenti neolitici della regione), tra le rovine della Casa della Cultura di Runik, simbolo dell’identità locale multietnica, e che è stata chiusa, svuotata e abbandonata dopo che la situazione politica in Serbia si è deteriorata negli anni Novanta. Quando abbiamo cominciato il progetto, la Casa della Cultura era in uno stato di estremo abbandono e degrado; anche l’immondizia si è accumulata lì nel corso degli anni. Abbiamo dato vita a una comunità di più di ottanta persone e ripulito lo spazio per dare di nuovo una vita e una voce culturale a Runik. Shkrepëtima è dedicata ai sogni dei cittadini di Runik e sembrava in sintonia con gli obiettivi di “The Dreamers”.

Come molti sanno, la Serbia non riconosce ancora il Kosovo come una nazione indipendente. Dopo aver silenziato l’espressione culturale del Kosovo e aver tagliato sull’istruzione, la Serbia, nel 1998-1999, ha dato il via a un’invasione armata del Kosovo e ha represso con la violenza la comunità albanese kosovara della quale faccio parte. Questa oppressione è stata descritta come un genocidio, e ha spinto altri paesi a schierarsi; questo succede ancora oggi, dal momento che la Dichiarazione d’Indipendenza unilaterale del Kosovo (2008) è stata in parte incoraggiata, in parte trascurata. In tutti questi anni, la Serbia ha trattato la repressione del Kosovo come se fosse una finzione. Come se non fosse mai avvenuta.

Ma in realtà è davvero avvenuta. Nel 1998-1999 io fui una delle tante persone costrette a vivere da profughi, nei campi, per più di due anni, dopo che casa mia era stata incendiata. Mi considero fortunato per essere sopravvissuto. Il mio passaporto e i passaporti di tutti i miei familiari sono stati distrutti davanti a noi, e improvvisamente ci siamo trovati senza la nostra libertà di circolazione e senza la nostra identità. Così, quando ho ricevuto l’invito alla Biennale di Belgrado, ho avvertito un conflitto interiore, ma ho anche visto l’opportunità di creare un ponte, di aprire un dialogo e di esplorare nuove vie di riconciliazione attraverso l’arte. Ho voluto superare la dicotomia tra il “noi” e il “loro”, tra il “buono” e il “cattivo”, per aprire finalmente uno spazio di condivisione invece che allargare una divisione che ha già creato tanto odio. Mi aspettavo, ottimisticamente, che un’istituzione artistica sarebbe stata uno spazio capace di rappresentare una pluralità d’identità, magari anche prendendo una posizione che prescindesse dalla politica ufficiale nei riguardi del mio paese d’origine, chiamandolo semplicemente col suo nome: Kosovo. L’idea di “The Dreamers”, così come l’intenzione dei curatori di trascendere le divisioni nazionali in questo progetto, supportavano la mia speranza. Sfortunatamente, mi sono confrontato con una realtà radicalmente diversa.

Con questa lettera voglio lasciare una traccia di quello che ho passato nei mesi scorsi, e che mi ha portato alla decisione di ritirarmi in giugno. Questa è la mia campana, naturalmente, e so che ci sono altri punti di vista che dovrebbero essere presi in considerazione. Per quanto mi riguarda, ho deciso di render pubblico tutto ciò perché un ritiro silenzioso avrebbe aggiunto un altro livello d’impotenza al silenziamento e alla cancellazione dei ricordi e delle esperienze che corrono attraverso la storia. Spero invece di generare qualche discussione sui limiti dell’operato politico delle istituzioni sovvenzionate da fondi governativi e situate in nazioni che ancora perseguono politiche nazionalistiche e oppressive, sul potenziale del sogno in tutte le pratiche artistiche quando lo spazio espositivo diventa una cornice che traccia i limiti dell’identità dell’artista, e quindi del sogno stesso, e, più ampiamente, sull’attuale situazione politica tra Serbia e Kosovo.

Quando la lista degli artisti di “The Dreamers” è stata pubblicata, Ilaria Marotta ha notato che la mia nazionalità, “Kosovo”, era stata omessa dai comunicati del KCB. Nel testo, ogni artista era accompagnato da informazioni sull’anno e il luogo di nascita, con il relativo paese, insieme all’attuale città in cui vive e lavora. Nel mio caso, il nome del paese era stato lasciato vuoto dopo la virgola, e io, dato il contesto storico e geopolitico, ho istintivamente interpretato la cosa come una deliberata omissione dell’informazione. Questa omissione è stata decisa dal KCB indipendentemente dalla volontà di Ilaria e Andrea, senza informazioni preventive, probabilmente nella speranza che nessuno se ne accorgesse o ne facesse un gran problema.

Da artisti, ci s’immagina di essere invitati non per la propria nazionalità o per il proprio luogo di nascita, ma per le idee che uno vuole diffondere. Sarei stato d’accordo sull’omissione solo se i paesi di tutti gli artisti fossero stati omessi fin dall’inizio, per esempio come frutto della decisione di trascendere esplicitamente le divisioni nazionali e di sottolineare soltanto la rilevanza dei loro progetti artistici. Al contrario, l’omissione del Kosovo dal sito web del KCB ha acquisito un significato molto più ampio, che può esser letto solo attraverso la lente di un silenziamento politico più ampio e sistematico. Nel mio mondo dei sogni, vorrei che le persone potessero muoversi liberamente, senza eccezioni, oltre i confini geografici e oltre le barriere culturali, come fanno gli uccelli. Ma siamo ancora lontani, molto lontani, da qualcosa che anche solo si avvicini alla realizzazione di questo sogno, e io credo che queste omissioni non dovrebbero esser lasciate perdere, perché hanno una rilevanza politica che va al di là della mia esperienza personale, e parlano di interventi programmatici, politici e ideologici, che vengono perpetrati dietro le quinte delle istituzioni artistiche.

Non è la prima volta che vengo invitato a esporre in una nazione che non riconosce l’indipendenza del Kosovo, ma è la prima volta che sento di dover ritirare il mio lavoro. Il mio progetto più recente è stato esposto al Palacio de Cristal del Museo Reina Sofía di Madrid, in Spagna, quindi in un’istituzione finanziata dallo Stato, in un paese che non riconosce il Kosovo. Ma in questo caso il nome del Kosovo era apparso. E anche in una città come Belgrado ci sono spazi che scrivono il nome del Kosovo quando un artista kosovaro è invitato a esporre i suoi lavori.

Ero consapevole che questa omissione non rispondeva alla diretta volontà dei curatori. Capisco anche che il KCB potrebbe essere effettivamente composto da persone con opinioni politiche radicalmente diverse, e che non tutti magari concordano con questa politica. E allora in che modo dobbiamo agire? E se non lo facciamo, a quale costo? Per quale causa? Ho discusso coi curatori per vedere questa omissione come l’opportunità per aprire un dialogo costruttivo sui problemi dei riconoscimenti geopolitici delle nazioni che si trovano ancora in aree trascurate in tutto il mondo. L’obiettivo di “The Dreamers” è infatti quello di “esaminare la complessità dei tempi odierni, interrogandoci non soltanto sull’ingannevole natura del reale, ma anche sullo spazio occupato dai sogni, intesi come l’incarnazione metaforica di uno spazio di libertà capace di sfidare le certezze del mondo reale, delle conoscenze acquisite e delle nostre stesse convinzioni”. Accettare l’omissione del Kosovo, tuttavia, significava arrendersi, piuttosto che costruire fiduciosamente uno spazio di libertà. Accettare questa omissione (che avrebbe significato anche raggiungere un compromesso con chi vuole trattarti in maniera diversa dagli altri) per me era anche accettare la mancanza strutturale di un’opinione politica o di un’azione libera in questa istituzione artistica, e questo per me è in diretto contrasto con l’obiettivo iniziale della mostra.

A seguito della mia richiesta di includere il Kosovo, il KCB ha replicato inizialmente assicurandomi che si era trattato di un refuso, quindi ha modificato i comunicati diverse volte, fino ad aggiungere “Kosovo” con un asterisco (“*Kosovo”). Sul sito del KCB, l’asterisco di *Kosovo sembrava linkato a una nota che diceva: “nel 2018, il consiglio del 57° Salone di Ottobre ha deciso di aggiungere il sottotitolo ’Biennale di Belgrado’ in futuro”. L’asterisco, da segno apparentemente innocuo, dava l’impressione di essere davvero un refuso, di essere scappato nel testo e di essere stato collegato a qualcosa che non c’entrava niente. Poteva quindi passare facilmente inosservato.

Ma l’asterisco in “*Kosovo” è carico di implicazioni politiche camuffate nel sito. L’asterisco è il risultato di un accordo del 2012 che consente al Kosovo di avere una rappresentanza istituzionale senza l’autorità della Missione ONU (fino ad allora, il Kosovo era indicato come Kosovo-UNMIK). L’asterisco consente ai rappresentati del Kosovo di essere menzionati negli incontri regionali e negli accordi con una nota che dichiara “questa designazione è priva di pregiudizi sullo status del Kosovo ed è in linea con la risoluzione ONU 1244 e con il Parere della Corte di Giustizia Internazionale sulla Dichiarazione d’Indipendenza del Kosovo”. L’asterico è una dichiarazione di neutralità e reitera il rifiuto della Serbia di riconoscere il Kosovo come una nazione indipendente. L’asterisco neppure comincia a riparare un secolo di oppressione e un genocidio che la Serbia a inflitto al Kosovo, ed è doloroso vederlo nel contesto di un’istituzione artistica che potrebbe avere un modo diverso di vedere il problema.

Durante questi eventi ho saputo che il centro culturale stava negoziando col Ministero degli Esteri per aggiungere il nome del Kosovo e la modifica del numero totale delle nazioni partecipanti. Il tempo occorso tra queste modifiche mi ha dato l’opportunità di pensare e osservare quanto siamo impreparati di fronte a problemi come questi, ma anche di riflettere su come imparare ad affrontarli.

Voglio credere che l’arte abbia un potenziale di trasformazione. Questa convinzione è tra le ragioni per le quali ho dedicato la mia vita all’arte. Ma questa esperienza fa nascere un paio di domande: le istituzioni artistiche sono davvero in grado di sognare? E qual è lo spazio che vogliono concedere agli artisti per sognare? E se agli artisti è data una specifica cornice per il loro sogni, una cornice che è delineata e monitorata dal potere e dalla politica, quanto lontano possiamo spingerci?

In attesa di trovare una soluzione neutrale e di affrontare l’impossibilità di aggiungere il Kosovo, il KCB ha modificato il sito di nuovo, cancellando tutte le nazioni di tutti gli artisti partecipanti, lasciando solo le città. Hanno detto che questo è il massimo che potevano fare.

Ciò nonostante, ho sentito che il ritiro di Shkrepëtima fosse necessario, e che una lettera aperta potesse avere il potenziale di diventare un migliore strumento di discussione in un contesto in cui un’opera d’arte corre il rischio di essere comunicata o interpretata male, o addirittura di essere politicamente strumentalizzata, a prescindere dalle facoltà e dalle intenzioni dei curatori di “The Dreamers” o della direzione del KCB.

Solo dopo il mio ritiro, il KCB e i curatori di questa edizione della Biennale di Belgrado hanno deciso di cancellare dai comunicati tutti i nomi delle città e delle nazioni, lasciando solo l’anno di nascita degli artisti. Il segnale dato dal mio ritiro ha creato un precedente per la prossima edizione, e spero che avrà una risonanza al di là del contesto regionale della Serbia e del Kosovo.

Questa lettera è il risultato di settimane di scambi, brainstorming e discussioni con collaboratori, colleghi e amici, che ringrazio tutti. In particolare ringrazio David Horvitz che prenderà parte alla Biennale di Belgrado e che ha proposto di modificare la sua opera “Ridateci le nostre stelle” a seguito del mio ritiro. In questo gesto, vedo un importante segnale di solidarietà e guarigione. Uno di quei segnali che dànno speranza e che dànno vita a un sogno.

Nella foto, Petrit Halilaj.

Belgrado, la Biennale non riconosce la nazionalità di Halilaj, kosovaro. Lui si ritira con una lettera
Belgrado, la Biennale non riconosce la nazionalità di Halilaj, kosovaro. Lui si ritira con una lettera


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