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Redazione
, scritto il 06/09/2020
Categorie: Arte contemporanea
Moataz Nasr, artista egiziano classe 1961, con la sua arte affronta i problemi dell’Egitto di oggi e del mondo contemporaneo.
Pittore, scultore, artista multimediale, fotografo. L’egiziano Moataz Nasr (Alessandria, 1961), autodidatta, è arrivato tardi all’arte, dal momento che le sue prime attività risalgono al 1995: fino ad allora, Nasr aveva lavorato nel campo dell’economia (si è infatti laureato in questa disciplina all’Università di Alessandria), e quell’anno decise di cimentarsi in un concorso artistico indetto dal Ministero della Cultura del suo paese, ottenendo il terzo posto. A livello internazionale è stata però una grande galleria italiana, la Galleria Continua di San Gimignano, a lanciarlo, nei primi anni Duemila: sono così arrivate le prime mostre importanti (le sue opere sono state esposte in collettive al Centre Pompidou, alla Hayward Gallery, al Mori Art Museum di Tokio, al Sharjah Museum, al Parco Archeologico di Pompei) e i grandi eventi, su tutti l’apoteosi del 2017, quando Nasr ha rappresentato il suo paese alla Biennale di Venezia.
Con la sua opera, Nasr, che difficilmente perde di vista le sue radici egiziane, mette insieme linguaggi diversi per esplorare le contraddizioni della globalizzazione, le connessioni tra passato e presente del suo paese e non solo, quelle tra Oriente e Occidente (e in particolare tra il mondo arabo, da dove proviene, e l’Europa che tanto ha dato alla sua carriera), i modi in cui le scelte della politica e dell’economia impattano sulle persone, ma c’è anche spazio per gli stati d’animo dell’individuo (a cominciare dal senso d’impotenza nei confronti dei grandi cambiamenti che il mondo oggi conosce). Nasr diventa così un osservatore quasi disincantato, ma sempre elegante, di ciò che oggi avviene nel mondo. Partendo dall’Africa per andare poi in tutto il mondo. Alla base di questo lavoro ci sono gli stessi movimenti degli esseri umani: “Fin dall’inizio dei tempi”, afferma l’artista, “l’idea di immigrazione in questo mondo è stata una costante ricerca della vita. Gli esseri umani si muovono continuamente. Da nord a sud, da sud a nord, lo scopo di questo movimento circolare, infinito e irrequieto, è sempre lo stesso: il sostentamento, la sopravvivenza, la ricerca di una vita migliore”.
Già nel 2005, anno in cui Nasr aveva già compiuto alcune esperienze importanti (aveva, per esempio, esposto alla Biennale di San Paolo), la curatrice egiziana Liliane Karnouk, in un libro sulla storia dell’arte egiziana del XX e del XXI secolo, lo descriveva come “un artista innovativo e versatile, un autodidatta che ammette un’unica eccezione, quella di aver imparato in maniera informale dalle sue conversazioni con Mona Hatoum”, e come “un artista che lavora con una grande sensibilità nei confronti del materiale, con una chiarezza di visione che gli consente di esprimere idee originali con mezzi semplici”. In uno dei suoi primi lavori, Echo del 2003 (forse la prima opera ad avere una grande risonanza internazionale), una video proiezione di 4 minuti e 27 secondi, Nasr presentava una registrazione degli anni Sessanta e una contempranea per dimostrare, attraverso alcune dichiarazioni dalle quali emergeva la frustrazione degli egiziani per i problemi socio-economici del paese, come la situazione politica e sociale dell’Egitto non fosse cambiata nell’arco di decenni.
Sullo stesso tenore una serie dell’anno successivo, Man Made, che affronta il tema dell’incapacità, da parte dell’essere umano, di relazionarsi in modo libero e sano con il potere (nelle fotografie, venivano messe in opposto le immagini di un cavallo col paraocchi e di un uomo bardato allo stesso modo dell’animale). Cinque anni dopo, nel 2011, gli stessi temi vengono declinati in modo diverso attraverso un’altra delle opere fondamentali di Nasr, The Maze (The People Want the Fall of the Regime): un’installazione disegnata con strisce d’erba che compongono lo slogan che dà il titolo all’opera (“Il popolo vuole la caduta del regime”: erano i giorni convulsi della Primavera Araba) in grafia cufica, la scrittura che in parte del mondo arabo veniva impiegata per decorare i palazzi del potere. Di conseguenza, con un’operazione di detournement, uno degli strumenti dei potenti diventa mezzo con cui l’artista esprime una volontà di quanti al potere sono sottomessi. Una sensazione di straniamento accresciuta dal fatto che questo grido di protesta appare come un giardino raffinato e ben curato.
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Moataz Nasr, Echo (2003; video di 4 minuti e 27 secondi) |
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Moataz Nar, Man Made (Hamada) (2006; c-print su Dibond, 100 x 150 cm). Ph. Credit Ela Bialkowska. Courtesy the artist and Galleria Galleria Continua |
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Moataz Nasr, The Maze (The People Want the Fall of the Regime) (2011; installation view al Jardin delle Tuileries di Parigi). Ph. Credit Oak Taylor-Smith. Courtesy the artist and Galleria Galleria Continua |
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Moataz Nasr, The Tower of Love (2011; 7 torri, di cui 2 di ceramica di 175 x 49 x 49 cm e 172 x 38 x 38 cm, 1 di ferro di 192 x 28 x 28 cm, 1 di bronzo di 190 x 35 x 35 cm, 2 di cristallo di 173 x 33 x 33 cm e 212 x 41 x 41 cm e una di legno di 155 x 89 x 69 cm). Ph. Credit Ela Bialkowska. Courtesy the artist and Galleria Galleria Continua |
Sempre del 2011 è un’altra delle sue opere più famose, The Tower of Love, dove una serie di torri che combinano architetture tipiche di diverse civiltà e soprattutto di diverse religioni (cristiana, islamica, ebraica, buddhista, induista) sono riunite sotto un’unica bandiera, quella dell’amore, il cui nome è piazzato sulla cima di ogni torre. Gli elementi artistici del passato e della tradizione, e in particolare della tradizione islamica, sono spesso presenti nell’arte di Nasr (lo s’è visto con The Maze e Towers of Love), e vengono tuttavia impiegati per affrontare tematiche di urgente attualità: è in questo senso che nascono, ad esempio, opere come Khayameya (2012) o Infinity (2011), tessuti che propongono motivi tipici dell’arte tessile dell’Egitto, disegnati però con fiammiferi, a significare che l’immota situazione politica del paese può infiammarsi da un momento all’altro, o come Propaganda (2008), tessuti che raffigurano momenti di acceso conflitto nella guerra dell’Iraq.
Per la sua partecipazione alla Biennale di Venezia del 2017, al Padiglione dell’Egitto, Nasr ha portato in laguna la sua opera The Mountain, un film di 12 minuti girato in un villaggio egiziano: racconta la storia di Zein, una ragazza che lascia il villaggio, che si trova ai piedi di una montagna (da cui il nome dell’opera), emigra, studia e ottiene una formazione, e poi torna per sfidare le autorità locali. Un’opera che dunque indaga diversi temi, tra i quali il conflitto generazionale (che, in Egitto, significa anche conflitto tra voglia di rinnovamento e potere radicato), l’emancipazione, il desiderio di libertà, il coraggio che distrugge la paura, e in particolare la paura di cambiare (Moataz Nasr ha spesso dichiarato che The Mountain è un’opera centrata proprio sul sentimento della paura: “la montagna”, ha dichiarato, “è la paura, la paura intesa in senso generale, la paura di tutto, la paura dell’ignoto, la paura dell’autorità, la paura di parlare a qualcuno che non conosci: tutti i diversi tipi di paura che crescono nelle nostre vite. Ho deciso che questa volta avremmo affrontato la montagna e l’avremmo conquistata”).
Il progetto più recente di Moataz Nasr è la personale Paradise Lost (diretta citazione del poema di John Milton), curata da Simon Njami negli spazi della Galleria Continua, una sorta di piccola antologica nella quale Nasr ha esposto opere già presentate, a cominciare da The Mountain, a opere nuove che offrono ulteriori panoramiche sul mondo attuale, prima tra tutte quella sulla condizione della donna, tema su cui è centrata una delle serie più forti dell’artista egiziano, The Slave Market, un mercato delle schiave (di quelli che anche gli artisti orientalisti di fine Ottocento e fino ai primi del Novecento hanno raffigurato nelle loro opere: lo stesso Nasr si è ispirato ai dipinti di Jean-Léon Gérôme), sbattuto però in faccia all’osservatore con personaggi contemporanei, o come il momento di conflitto che stiamo vivendo, incarnato nella figura di Apophis, il personaggio della mitologia egizia simbolo del male, o ancora come la necessità di trovare un posto sicuro che trova la sua espressione con la capanna di The Shelter, che dà impressione di fragilità, a dimostrare che la sicurezza non è un valore solido.
Una sorta di riassunto e summa dell’universo di Nasr, come ha spiegato Njami. “La descrizione apocalittica del mondo realizzata da Milton dopo la cacciata dal Giardino dell’Eden”, ha scritto il curatore, “è suggestiva. Lo è perché rappresenta una metafora abbastanza fedele del nostro mondo, precedente o privo di qualsiasi intervento divino. E questo mondo lo dobbiamo unicamente a noi stessi, alle nostre azioni. A ciò che abbiamo fatto e a ciò che abbiamo omesso di fare. La mostra di Moataz Nasr potrebbe essere vista come uno spazio situato a un bivio tra speranza (Paradiso) e disillusione (Inferno). Gli elementi che lo compongono creano una strana risonanza con uno scenario fittizio. Si tratta di un palcoscenico, uno scenario in cui la struttura del vecchio cinema che è la galleria regala una presenza allucinante o allucinata. Cosa c’era in questo giardino di cui abbiamo sentito così tanto parlare? Una montagna, un fiume, alberi, frutti, animali, un serpente e l’umanità, rappresentata dall’uomo e dalla donna. Ritroviamo la montagna, la donna, il serpente. L’albero maestro nella sala cinematografica potrebbe fungere da albero; la struttura che occupa l’ingresso da prisma, da passaggio segreto verso un mondo sconosciuto agli esseri umani”. Un progetto che, secondo le parole di Njami, rappresenta “un viaggio di iniziazione”, “un’immersione inquietante in uno spazio che mescola miti e realtà”. Gli elementi più ricorrenti dell’arte di Nasr.
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Moataz Nasr, Khayameya (2012; fiammiferi su legno, plexiglas, 200 x 200 x 10 cm). Ph. Credit Oak Taylor-Smith. Courtesy the artist and Galleria Galleria Continua |
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Moataz Nasr, Infinity (2011; 15.500 fiammiferi su legno, plexiglas, 160 x 160 x 7 cm). Ph. Credit Ela Bialkowska. Courtesy the artist and Galleria Galleria Continua |
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Moataz Nasr, Propaganda (Don’t take an attack position or you will be destroyed) e Propaganda (Take an attack position and that’s how you will be destroyed!!) (2008; dittico di tessuto, 125 x 208 ciascuno). Ph. Credit Oak Taylor-Smith. Courtesy the artist and Galleria Galleria Continua |
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Moataz Nasr, The Mountain (2017; video installazione, 12 minuti). Ph. Credit Ela Bialkowska. Courtesy the artist and Galleria Galleria Continua |
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Moataz Nasr, The Mountain (2017; video installazione, 12 minuti). Ph. Credit Ela Bialkowska. Courtesy the artist and Galleria Galleria Continua |
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Moataz Nasr, Om El Saad (The Slave Market) (2019; c-print su Dibond, 150 x 210 cm). Ph. Credit Ela Bialkowska. Courtesy the artist and Galleria Galleria Continua |
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Moataz Nasr, Rose (The Slave Market) (2016; c-print su Dibond, 185 x 146,5 cm). Ph. Credit Ela Bialkowska. Courtesy the artist and Galleria Galleria Continua |
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Moataz Nasr, Shelter (2019; legno). Ph. Credit Ela Bialkowska. Courtesy the artist and Galleria Galleria Continua |
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Moataz Nasr, Apophis (2019; legno). Ph. Credit Ela Bialkowska. Courtesy the artist and Galleria Galleria Continua |
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