Cosa accade quanto uno dei più importanti artisti contemporanei progetta un... labirinto? Per conoscere la risposta occorre andare alla Fattoria di Celle di Santomato, alle porte di Pistoia, il luogo dove Giuliano Gori sistemò la sua importante collezione di arte ambientale, la Collezione Gori: è qui che si trova il Labirinto di Robert Morris, una delle opere più celebri della raccolta. Gori aveva cominciato a collezionare già negli anni Cinquanta, ma la Fattoria di Celle, il luogo in cui la sua raccolta avrebbe trovato la propria definitiva collocazione, inaugurava al pubblico il 12 giugno del 1982: il Labirinto faceva già parte del percorso.
Realizzata proprio nel 1982, l’opera di Robert Morris (Kansas City, 1931 – Kingston, 2018), uno dei pionieri, dei teorici e dei massimi rappresentanti del minimalismo, si configura come una delle installazioni più affascinanti e simboliche della Collezione Gori, collegando l’esperienza fisica del visitatore con un profondo significato esistenziale.
Il labirinto, che Morris realizzò dopo aver trascorso diversi mesi in Toscana proprio con l’intento di mettere a punto la sua opera (anche il punto in cui si trova la struttura, un prato in leggera salita, venne scelto dall’artista), è costruito utilizzando materiali locali come marmo bianco e marmo serpentino, uniti al cemento, con una forma che richiama un triangolo equilatero di 15 metri di lato e un’altezza di 2,1 metri. Esternamente, si distingue per le righe bianche e verdi che ricordano lo stile delle chiese romaniche toscane. Questa scelta stilistica non è casuale, ma mira a connettere l’opera all’architettura storica del territorio, creando un dialogo visivo tra passato e presente. Il labirinto di Morris, come molte altre opere della Collezione Gori, è infatti fortemente legato al paesaggio che lo ospita. La Fattoria di Celle ha sempre cercato di offrire un contesto ideale per questo tipo di opere in situ, dove l’arte diventa parte integrante del paesaggio naturale e dialoga continuamente con il territorio. L’opera, con i suoi riferimenti all’architettura locale e alla natura circostante, si inserisce dunque armoniosamente nel parco, creando una relazione tra l’artificiale e il naturale, il passato e il presente, l’interiorità umana e il mondo esterno.
Dal punto di vista strutturale, il labirinto non presenta le caratteristiche tipiche dei labirinti classici, come vicoli ciechi o percorsi alternativi. Invece, Morris ha progettato un percorso lineare, senza varianti, che si snoda in maniera obliqua, riflettendo il concetto di un viaggio che, nonostante le scelte personali, conduce sempre a un’unica destinazione finale. L’unica variante rispetto ai labirinti classici è la presenza di salite e discese: per questo Morris aveva scelto un terreno in pendenza per la sua opera. Anche queste sono simbolo di ciò che s’incontra nella vita. Una struttura, dunque, che vuol essere altamente evocativa: il viaggio attraverso il labirinto rappresenta una metafora del percorso della vita, con momenti di facile discesa, seguiti da difficoltà (simboleggiate dalle salite e dagli spigoli acuti), ma con la consapevolezza che alla fine si torna sempre sui propri passi.
L’ingresso nel labirinto avviene attraverso un breve corridoio che s’interrompe bruscamente rompendo l’orientamento del visitatore e gettandolo immediatamente in uno stato di disorientamento fisico e mentale. Camminare al suo interno non offre la possibilità di vedere l’intera struttura, ma solo una serie di muri e angoli che si svelano progressivamente. Questo è il cuore del lavoro di Morris: l’esperienza dell’opera non è solo visiva, ma coinvolge l’intero corpo e i sensi del visitatore, creando una sorta di immersione fenomenologica nello spazio. L’osservatore è obbligato a vivere il labirinto dall’interno, senza la possibilità di acquisire una visione complessiva dall’esterno (da fuori si vedono soltanto le pareti a righe), rappresentando metaforicamente l’idea che il senso della vita si comprenda solo attraverso l’esperienza diretta.
C’è però anche un altro aspetto relativo a questo rapporto tra orizzontalità e verticalità. Morris, nel 1975, aveva scritto un articolo intitolato Aligned with Nazca, pubblicato su Artforum: nell’articolo, l’artista, riflettendo sui geoglifi peruviani di Nazca, si focalizzava sul fatto che queste strutture potevano essere comprese solo se osservate dall’alto. E lo stesso per i labirinti: “Un labirinto è comprensibile solo se visto dall’alto, in pianta, quando è stato ridotto a latitudine e noi siamo fuori dalla sua spirale spaziale. Ma tali riduzioni sono estranee all’esperienza spaziale come le fotografie di noi stessi lo sono alla nostra esperienza di noi stessi”. Questa antinomia tra orizzontale e verticale diventa preciso oggetto d’indagine nel Labirinto della Collezione Gori. “Se osservato dal livello ‘orizzontale’del suolo, tale opera”, ha scritto la studiosa Alessandra Acocella, “si mostra come un corpo quadrangolare delimitato da pareti alte due metri con sottolineata alternanza cromatica di fasce orizzontali marmoree bianche e verdi, dall’andamento stratigrafico e continuo. Questo progressivo avvicendarsi di stringhe chiare e scure […] accresce, esasperandolo, la sensazione di disorientamento provata da colui che incede all’interno dell’angusto e obbligato corridoio articolato in pendenza e caratterizzato da continue svolte in forma di angoli acuti. La non orizzontalità del piano pavimentale, che alterna tratti in salita a tratti in discesa, deforma percettivamente lo sviluppo continuo delle fasce bicromate che, dalla condizione di perfetta leggibilità all’esterno dell’architettura, si dinamizzano al suo interno creando un illusionistico gioco di prospettive distorte. In uscita dal labirinto, viene offerta una differente lettura dell’opera rispetto a quella proposta dall’esperienza fenomenologica ‘d’interno’ influenzata e condizionata dal disorientante sentiero. Una pedana rialzata, collocata nelle vicinanze e celata alla vista dagli alberi, consente di fare esperienza di una visione altra, ‘elevata’, che permette di comprendere come la forma volumetrica del labirinto non sia originata da un triangolo equilatero. Inoltre ci consente di notare come il punto di origine e il traguardo finale del dispositivo labirintico […] siano adiacenti e divisi tra loro solo da un muro. Al forte senso di smarrimento provocato da questa duplice e inaspettata rivelazione, fanno eco le parole dell’artista, poste a conclusione del breve ed enigmatico corredo testuale al labirinto di Celle: ‘I sentimenti disegnati di verde e di bianco che appaiono dall’alto, mostrano una via d’uscita? E un’uscita da dove?’”.
Il Labirinto di Robert Morris può essere letto come una riflessione sul viaggio esistenziale (“La forma del labirinto”, scrisse l’artista nel 1975, “è forse una metafora della ricerca del sé, perché richiede un continuo peregrinare, un continuo rinunciare alla conoscenza di dove uno si trova”). La sua linearità e mancanza di alternative simboleggiano la condizione dell’essere umano, che si muove in una vita ricca di difficoltà e incertezze (gli spigoli acuti e le salite), ma che, alla fine, è destinato a un unico percorso, privo di varianti. Questo viaggio rappresenta sia un’esplorazione fisica del mondo, sia un viaggio interiore, alla ricerca di sé stessi. Il fatto che si debba tornare indietro lungo lo stesso percorso riflette l’idea che la vita, in fin dei conti, sia un cerchio chiuso, e che ogni esperienza vissuta influenzi inevitabilmente quella successiva.
Il tema del labirinto è centrale nella produzione artistica di Robert Morris, che ha esplorato questa forma architettonica in diverse opere nel corso della sua carriera. È una ricerca che lo ha sempre affascinato, fin dal momento in cui realizzò l’opera Passageways nel suo studio nel 1961: non era un labirinto propriamente detto, ma era un piccolo sistema di corridoi e passaggi che poteva ricordare una struttura labirintica. I labirinti propriamente detti sarebbero comunque arrivati nella sua arte, che abbonda di dedali, basti pensare al Philadelphia Labyrinth del 1974, al Labirinto di Pontevedra del 1999 o al Glass Labyrinth del 2013. Ci sono poi nella sua produzione disegni noti come Labyrinths, veri dedali su carta, non pensati per una effettiva traduzione tridimensionale, ma comunque importanti all’interno del suo percorso artistico e della sua pratica. Morris era affascinato dall’ambiguità del labirinto, una struttura che può sembrare opprimente e ingannevole, ma che, allo stesso tempo, offre una sorta di seduzione e curiosità. Questo concetto si ritrova anche nella sua installazione alla Fattoria di Celle, dove il labirinto diventa una struttura ingannevole che disorienta e costringe il visitatore a un’esplorazione diretta e personale dello spazio.
Attraverso l’uso del labirinto come simbolo della vita, Morris invita il visitatore a confrontarsi con le difficoltà, le incertezze e le scelte della propria esistenza, e al contempo offre ai visitatori della Fattoria di Celle uno spazio di meditazione e riflessione immerso nella natura toscana. E la Collezione Gori, grazie a opere come questa, si conferma un luogo d’eccezione per l’arte contemporanea, dove l’interazione tra arte e paesaggio crea esperienze uniche e coinvolgenti.
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