La Scuola di Posillipo è stata una esperienza pittorica di un gruppo di artisti riuniti a Napoli, a partire dal secondo decennio dell’Ottocento, dediti prevalentemente alla pittura di paesaggio praticata all’aperto. La Scuola fu inaugurata dal pittore olandese Anton Sminck van Pitloo che la guidò fino al 1837, per passare poi al napoletano suo allievo Giacinto Gigante. Rappresentò un momento importante per la pittura locale napoletana e italiana, in un più ampio contesto europeo che tendeva alla celebrazione del genere del paesaggio al di là della sua rappresentazione ideale e storica.
Pitloo, ispirato dalle bellezze paesaggistiche e usanze partenopee, riuscì a cogliere e a tramettere agli allievi i valori atmosferici della natura affermando una pennellata personale, rapida, a macchie luminose. Gigante, come rappresentante di una famiglia di pittori che si strinsero intorno a Pitloo, ne ereditò l’ispirazione e, accentuò l’uso della macchia e dell’impressione dal vero, rendendo nella sue opere il movimento e la luce, la vivacità e la tipicità napoletana. Gli elementi naturali locali, le architetture e gli abitanti, esercitarono una forte attrazione su almeno due generazioni di pittori.
Mentre in Francia era Parigi il centro di attrazione massima e fulcro per gli artisti dell’Ottocento, l’Italia era divisa in tanti ambienti politici e culturali e stentava a trovare un linguaggio pittorico che andasse al di là dei limiti provinciali. Napoli, che fu un centro politico e culturale dove confluivano pittori stranieri anche come tappa del Grand Tour e dove circolava una tradizione pittorica paesaggistica già dal Seicento e lungo il Settecento con una ampia diffusione del vedutismo turistico, visse con la Scuola di Posillipo un momento prolifico.
Nel 1816 arrivò da Roma l’olandese Anton Sminck van Pitloo (Arnhem, 1790 – Napoli, 1837) che coltivò in città i suoi interessi artistici, trovando una committenza ideale e un fecondo stimolo per il suo lavoro, tanto da fondare nel 1820 una scuola privata di pittura. Nasceva così la Scuola di Posillipo, che già nel decennio 1825-1835 trovò ampio consenso. Si chiamò così perché l’osservazione della città avveniva dall’alto di Posillipo, quartiere collinare che permetteva vedute con prospettive panoramiche.
Pitloo dipingeva, con una personale interpretazione del paesaggio, quadri destinati ad essere particolarmente apprezzati dalle nuove generazioni di pittori e che gli valsero la considerazione di “uno dei più geniali artisti del tempo”. Dal 1822 diventò professore presso il Reale Istituto di Belle Arti di Napoli e si affermò come artista internazionale. Riuscì infatti a intrattenere contatti con l’ambiente dell’arte europeo e con artisti come Jean-Baptiste Camille Corot (Parigi, 1796 – Parigi, 1875), importante paesaggista francese che negli anni ’20 dell’Ottocento fu precursore e influente sostenitore della Scuola di Barbizon. In reazione alle rappresentazioni stilizzate e idealizzate di figure e paesaggi del Neoclassicismo, la maggior parte degli artisti di Barbizon si avvicinarono lungo gli anni Trenta alla pittura di paesaggio in modo naturalistico, catturando gli scenari che vedevano in modo veritiero, facendo attente osservazioni e dipingendo all’aperto per riprodurre fedelmente i colori e le forme della campagna. Corot, che visitò Napoli tra il 1817 e il 1821 e nel 1828, a sua volta esportò le esperienze vissute in Italia durante il suo Grand Tour, che come da abitudine diffusa a quel tempo prevedeva soste nelle più importanti città d’arte italiane.
Parallelamente nella prima metà dell’Ottocento andavano diffondendosi in Europa lo spirito dei pittori del Romanticismo che rivolgevano l’attenzione alla natura e alla pittura all’aperto, in opere basate sull’osservazione ravvicinata del paesaggio, del cielo e dell’atmosfera, dedicandosi a descrivere la reazione soggettiva, la vita interiore rispetto alla natura circostante.
Pitloo ebbe modo di conoscere anche il lavoro del più importante paesaggista inglese del tempo William Turner (Covent Garden, 1775 – Chelsea, 1851), presente a Napoli tra il 1819 e il 1828, da cui colse gli umori romantici, rivolti a una libera interpretazione della natura, poi trasfusi nella formazione scolastica agli allievi di Posillipo. Oltre a quelli che potevano essere i luoghi prediletti nella rappresentazione dell’area partenopea, come il Vesuvio, gli scavi di Pompei e di Ercolano, le isole del golfo, i pittori di Posillipo si rivolsero a rappresentare la natura intorno all’area urbana e la sua atmosfera luminosa mediterranea.
Alla Scuola di Posillipo appartennero numerosi giovani artisti destinati a diventare fautori di una rinnovata fortuna della pittura di paesaggio, di cui i più significativi furono: Achille Vianelli, Gabriele Smargiassi, Teodoro Duclère, Salvatore Fergola oltre che Giacinto Gigante (Napoli, 1806 – 1876), che, alla morte del Pitloo, prese via via e per alcuni anni le redini della scuola.
Giacinto fu, come per molti altri seguaci, uno tra i rappresentanti della sua famiglia che frequentarono e sostennero le attività a Posillipo. Gli entusiasmi artistici avevano contagiato interi nuclei familiari, come I “Carelli” con il padre Raffaele e i tre figli Consalvo, Gabriele e Achille, i “Fergola”, con il capostipite Luigi, i due figli Salvatore e Alessandro, e Francesco, figlio di Salvatore; i “Witting” con Teodoro, incisore, e suo figlio Gustavo e appunto i “Gigante” con Gaetano, padre di Giacinto che diventerà capofila, Emilia, Achille ed Ercole.
In quella che si considera la seconda fase della Scuola, dagli anni Quaranta del secolo in poi, cambiarono le visioni e gli stili, anche in rapporto alle nuove tendenze realistiche – che a Napoli furono introdotte soprattutto dai fratelli Filippo e Giuseppe Palizzi – e alle richieste della committenza, che resero inattuale la liricità della pittura portata avanti a Posilippo. Fino a un progressivo esaurirsi della vitalità espressiva, tra il 1850 e il 1860. Dal 1851 Giacinto Gigante era entrato come professore all’Accademia di Belle Arti di Napoli, andando incontro a una carriera istituzionale che lo portò nel 1867 e nel 1869 all’Esposizione universale di Parigi.
La novità stilistica di Pitloo fu di introdurre l’osservazione dal vero della natura e la resa degli effetti transitori di luce e di colore a partire dal disegno, “en plein air” a partire dagli schizzi preliminari, così come stava sperimentando la Scuola di Barbizon in Francia. L’artista introdusse a Napoli la tecnica della pittura a olio su carta intelata (montata su tela o su cartone), come stava sperimentando Corot. L’idea guida era giungere al completamento del dipinto senza ripensamenti, e in modo da carpire la mutevolezza della luce, abbandonando l’uso del cavalletto. Fino alla fine degli anni ’20 la sua interpretazione del paesaggio era ancora classicheggiante, prima di dedicarsi alla ricerca della resa atmosferica (Il castello di Baia, 1830). Cosicché anche la prima produzione della Scuola di Posillipo era più tradizionale, ricorrendo a vedute ampie, prospettiche e scenografiche, con punto di vista rialzato a volo d’uccello.
Pitloo negli anni abbandonò il vedutismo d’impronta classicista per approdare a una riproduzione del dato naturalistico decisamente più lirico, come inteso dai pittori romantici coevi, per rappresentare le suggestioni personali derivanti dall’osservazione diretta dei luoghi (Castel dell’Ovo dalla spiaggia, 1820-1824 circa). Dopo la sua morte per un’epidemia di colera, l’allievo Gigante, divenne l’interprete più originale di quella poetica che voleva aggiungere la componente emozionale all’immagine di paesaggio, sicuramente influenzati da Turner. Gigante giunse a risultati stilistici aggiornati rispetto alla pittura europea, emancipando la pittura di paesaggio napoletana.
Con la sua pratica cambiò la prospettiva da cui i pittori guardavano ai soggetti, avendo l’artista prediletto campi visivi ristretti, scorci e con la scelta di raffigurare anche le persone nell’atto di compiere azioni quotidiane. Prevalsero la campagna e la costa (Gabriele Smargiassi, Il golfo di Pozzuoli da Baia, 1841; Giacinto Gigante, Costa sorrentina, 1842) e la vita cittadina, con costanti variazioni di temi ricorrenti. Il valore dell’opera non risiedeva più nella nobilita del soggetto, ma nella sua realizzazione, nella personale reazione del pittore di fronte al tema. Gigante eccelse nell’acquerello (Cappella di San Gennaro al duomo durante il miracolo del sangue, 1863) e nelle rappresentazioni di puro colore (Tramonto a Caserta, 1857) che diverranno abituali nell’arte solo poi con l’Impressionismo.
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