La stagione della Repubblica Fiorentina si concluse nel 1512 quando la Lega Santa formata dal papa Giulio II promosse il ritorno a Firenze dei Medici che riuscirono a restaurare la signoria ponendone a capo il cardinale Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico. Giovanni de’ Medici, eletto papa l’anno successivo con il nome di Leone X, lasciò la signoria fiorentina in favore di Giuliano de’ Medici, suo fratello minore. I repubblicani però videro la fortuna girare dalla loro parte nel 1527: il nuovo papa Clemente VII, al secolo Giulio de’ Medici (era figlio di Giuliano, fratello del Magnifico) si alleò con la Francia per estromettere gli imperiali dall’Italia. La reazione dell’impero non si fece attendere: il potente imperatore Carlo V inviò in Italia un esercito di lanzichenecchi per attaccare lo Stato Pontificio. Malgrado gli alleati del papa avessero tentato di ostacolare l’avanzata dell’esercito imperiale, quest’ultimo giunse a Roma nel maggio del 1527 mettendo a ferro e fuoco la città: fu il famoso sacco di Roma che causò anche la diaspora degli artisti presenti in città. I repubblicani ritennero quindi che l’occasione fosse buona per cacciare i Medici da Firenze: ci riuscirono, ma a seguito della riappacificazione tra Carlo V e Clemente VII, le truppe imperiali, nel 1530, assediarono Firenze espugnandola (alla difesa della città partecipò anche Michelangelo Buonarroti) e facendo tornare i Medici in città.
I Medici avrebbero quindi continuato a governare su Firenze per altri due secoli, ininterrottamente. Il nuovo signore, Alessandro de’ Medici, nel 1532 ricevette il titolo di duca, ma il suo dominio fu breve perché morì nel 1537, assassinato dal cugino Lorenzino de’ Medici. Il governò passo quindi nelle mani di Cosimo I che resse il ducato (diventato granducato nel 1569) fino al 1574. Con Cosimo si apriva una stagione piuttosto prospera, caratterizzata dall’espansione territoriale (Cosimo riuscì anche, nel 1555, ad annettere ai suoi domini la Repubblica di Siena) e dalla rinnovata presenza di numerosi artisti in città.
È su questo scenario che prese le mosse il Manierismo. Il termine maniera era già presente nel Quattrocento, ma assunse un significato particolare nelle Vite di Giorgio Vasari (che peraltro fu uno dei principali pittori manieristi): con la locuzione maniera moderna, l’artista e storico dell’arte aretino indicava lo stile dei grandi artisti di quel periodo a lui noto come la terza età, ovvero quello che oggi consideriamo il Rinascimento maturo. Si trattava pertanto dello stile di artisti come Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Giorgione. Il termine manierismo nacque nel XVIII secolo per indicare, in modo sprezzante, tutti quegli artisti che a partire dai primi decenni del Cinquecento, invece di imitare la natura, presero a imitare la “maniera” dei grandi artisti del Rinascimento maturo. Oggi il termine si è spogliato della connotazione negativa che aveva in origine e indica tutti quei processi artistici che iniziarono a staccarsi dall’arte del Rinascimento maturo per elaborare schemi nuovi e differenti rispetto a quelli prodotti in precedenza, e che per certi versi potevano anche costituire un’evoluzione dello stesso Rinascimento (tanto che non è raro trovare, nella storiografia, studiosi che si riferiscono al periodo del Manierismo indicandolo come tardo Rinascimento).
Il primo artista a mostrare un notevole cambio di stile rispetto alle esperienze precedenti, e quindi pienamente manierista, fu Jacopo Carucci detto il Pontormo (Pontorme, Empoli, 1494 - Firenze, 1557). Pittore solitario, dal carattere profondamente tormentato e bizzarro, metodico e isolato dalla società al punto da diventare il primo pittore a incarnare il cliché dell’artista alienato, il Pontormo fu profondamente segnato dalle incertezze e dalle inquietudini del tempo. Gli stravolgimenti politici, le guerre, le difficoltà sociali degli inizi del Cinquecento ebbero infatti una grande influenza sulla produzione degli artisti.
Formatosi a contatto con molti degli esponenti del Rinascimento maturo, di cui fu allievo (Leonardo da Vinci, Andrea del Sarto, Mariotto Albertinelli), il Pontormo operò una drastica rivisitazione dell’arte precedente arrivando a negare fermamente la razionalità rinascimentale. Questa sua tendenza emerge già fin dalle prime opere, come il Giuseppe in Egitto (1518 circa) conservato alla National Gallery di Londra dove diversi episodi tratti dal racconto biblico di Giuseppe vengono raffigurati sullo stesso dipinto senza che però ci sia una divisione netta e senza che vengano rispettate le regole della spazialità rinascimentale: questo è evidente soprattutto se si osserva l’irrazionale scala curva che si arrampica attorno a un edificio dalla pianta circolare.
Questa negazione della spazialità raggiunse il suo culmine in quella che è considerata l’opera principale del Pontormo, la Deposizione (1526-1528) della chiesa di Santa Felicita a Firenze: un’opera in cui mancano tutti i riferimenti spaziali, i corpi sembrano galleggiare nel cielo dal momento che mancano appigli o piani d’appoggio, e dpve le naturali leggi della fisica vengono stravolte (con uno dei personaggi che regge il corpo di Gesù appoggiandosi semplicemente sulla punta dei piedi) e i colori leggerissimi e tenui delle vesti aderentissime, tanto da sembrare dipinte direttamente sui corpi (specifica che diventerà poi una costante del Manierismo), fanno sembrare irreali anche i personaggi. L’effetto di alienazione raggiunge qui il suo punto più elevato.
Parimenti alienante è l’arte dell’altro grande manierista fiorentino della prima generazione, Giovanni Battista di Jacopo detto il Rosso Fiorentino (Firenze, 1494 - Fontainebleau, 1540): dotato di una personalità più aperta rispetto a quella del Pontormo, condivise con il pittore empolese, di cui era coetaneo, parte della formazione, in quanto anche il Rosso fu allievo di Andrea del Sarto. Anche il Rosso Fiorentino aveva come obiettivo quello di stravolgere la razionalità rinascimentale, ma operò in modo diverso rispetto al Pontormo. Se infatti quest’ultimo aveva raggiunto il suo fine negando la spazialità e facendo mancare ogni riferimento razionale, il Rosso Fiorentino invece otteneva l’effetto di alienazione deformando la realtà in modo quasi grottesco: si spiega così la Deposizione (1521) conservata oggi a Volterra, altro grande capolavoro manierista. In una composizione dalle forme astratte e dai toni quasi spettrali (con figure che anche qui sembrano volare dal momento che mancano gli appoggi), il Rosso Fiorentino crea irreali e irrazionali panneggi spigolosi, forme dai colori innaturali, personaggi dai volti deformati.
Questo anticlassicismo che accomunava il Rosso Fiorentino al Pontormo è evidente in diverse sue opere, come Mosè e le figlie di Ietro, dove oltre alla negazione dello spazio tipica degli esordi del Manierismo abbiamo anche le estreme conseguenze del michelangiolismo, con un groviglio di corpi nudi eccezionalmente possenti, e contraddistinti da anatomie spigolose, e con i volti deformati in espressioni grottesche e quasi caricaturali.
Accanto a questi due nomi è possibile aggiungere un terzo “fondatore” del Manierismo, ma in questo caso non fiorentino bensì senese, ovvero Domenico Beccafumi (Valdibiena, 1486 - Siena, 1551), considerato spesso come il primo artista in cui si manifestano tendenze manieriste, dato che fudi dieci anni più anziano rispetto al Pontormo e al Rosso Fiorentino. Gli inizi di Beccafumi furono caratterizzati da meditazioni sul Rinascimento maturo fiorentino, in particolare su quello di fra’ Bartolomeo (di cui riprese la grandiosa monumentalità) e di Raffaello, dimostrando di rileggere i grandi artisti del tempo secondo una sensibilità nuova e più inquieta.
Beccafumi non raggiunse il grado di irrazionalità del Pontormo e del Rosso ma la sua inquietudine si avverte nella presenza di elementi spesso grotteschi e nello sconvolgimento di schemi tradizionali (per esempio, nelle Stimmate di santa Caterina (1515 circa, Siena, Pinacoteca Nazionale), la scena principale viene collocata da Domenico Beccafumi in secondo piano) e soprattutto nella sperimentazione compositiva. Sul finire della carriera, ormai in piena epoca manierista, Domenico Beccafumi avrebbe creato opere dall’andamento irregolare (come il Mosè che spezza le tavole della Legge, 1537-38, Pisa, Duomo) e connotate da un certo grado di eccentricità (tipica dell’artista).
Esauritasi la carica alienante dei primi sperimentatori del Manierismo, gli artisti della generazione successiva mantennero alcune delle caratteristiche sviluppate dal Pontormo e dal Rosso Fiorentino (come i colori tenui, quasi irreali, e le vesti estremamente aderenti) e le unirono a una ampia riflessione sullo stile dei grandi del Rinascimento maturo (su tutti Raffaello e Michelangelo), ognuno secondo la propria personale interpretazione. I principali esponenti di questo Manierismo quasi cortigiano, dal momento che trovò ampi spazi presso la corte di Cosimo I, furono Giorgio Vasari (Arezzo, 1511 - Firenze, 1574) e Angelo Tori detto il Bronzino (Firenze, 1503 - 1572).
Vasari fu un intellettuale eclettico: fu storico dell’arte (potremmo definirlo il padre della moderna storiografia artistica), pittore e architetto (a lui si deve infatti il palazzo degli Uffizi, la più importante opera pubblica dell’artista, commissionatagli da Cosimo I). La pittura vasariana si ispirava direttamente a Raffaello e a Michelangelo, con una tendenza verso il plasticismo michelangiolesco (Vasari era infatti un grande ammiratore di Michelangelo) che veniva declinato secondo un linguaggio di sicuro impatto, monumentale e altamente celebrativo (Perseo e Andromeda, 1570-1572, Firenze, Palazzo Vecchio). Questo senso di elevata solennità che emanano molte delle opere di Vasari è dovuto ovviamente al fatto che per gran parte della sua carriera si trovò a lavorare per la corte medicea. Non mancava comunque, anche in Vasari, un certo gusto per le soluzioni complesse (come accade, per esempio, nella sua Immacolata concezione) che era parte integrante della cifra stilistica manierista ma che in Vasari non arriva a sfociare nella bizzarria.
Un certo gusto per il bizzarro non mancava invece al Bronzino, autore capace di creare complesse allegorie (ancora oggi non del tutto decifrate) in opere che rivisitavano il repertorio mitologico e classico, come l’Allegoria (1545 circa) della National Gallery di Londra, e che sono caratterizzate da colori freddi e diafani, che rendevano quasi astratte le sue composizioni. Ed era proprio la freddezza la caratteristica più tipica e più immediata dell’arte del Bronzino, che fu amico e allievo del Pontormo, ma per quanto fu alienato e isolato il maestro, tanto fu aperto alle relazioni l’allievo, che divenne pittore ufficiale alla corte dei Medici.
La freddezza del Bronzino si ricava soprattutto dalla sua fecondissima produzione ritrattistica: da pittore ufficiale della corte medicea era stato infatti incaricato di realizzare numerosi ritratti dei membri della famiglia. I soggetti raffigurati dal Bronzino appaiono impassibili, quasi astratti, comunque lontani dall’osservatore. Si coglie nel Bronzino una volontà di idealizzazione dagli intenti nuovi rispetto a quelli del Rinascimento: non è più una idealizzazione volta a cercare il bello ideale, ma una idealizzazione che tende a fissare il soggetto ritratto per conferirgli immortalità. Per questo nei suoi ritratti ogni difetto viene cancellato. La fredda astrazione del Bronzino, tra i più grandi e prolifici ritrattisti del suo tempo, non era che un modo per celebrare il casato mediceo. I ritratti dei Medici rispondevano a pieno a quegli ideali di decoro che si erano andati affermando a seguito della Controriforma. Tuttavia il Bronzino era anche un pittore capace di descrizioni minuziose, come è evidente nel ritratto di Eleonora di Toledo (1545, Firenze, Uffizi), moglie di Cosimo I, dove Angelo Tori stupisce l’osservatore con una resa quasi tattile del prezioso vestito della duchessa.
Amico di Giorgio Vasari fu un altro importante esponente manierista della stessa generazione, Francesco Salviati (Firenze, 1510 circa - 1563), che proponeva un possente e carico classicismo che prendeva le mosse da Michelangelo ma che trovò un maggior successo quando l’artista lasciò Firenze per trasferirsi a Roma. Malgrado la loro potenza, tuttavia le sue opere non mancavano di eleganza e di un notevole gusto per la decorazione (Incredulità di san Tommaso, 1543-1547, Parigi, Louvre).
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