Ottone Rosai (Firenze, 1895 – Ivrea, 1957) è stato un pittore la cui arte conobbe diverse fasi: iniziò la sua carriera artistica facendosi notare dai futuristi e stringendo amicizia in particolare con Ardengo Soffici, ma pur ispirandosi ai dettami del movimento, manterrà sempre una visione molto personale dell’arte. Il suo temperamento ribelle per natura lo portò infatti a rigettare le convenzioni e spesso ad assumere posizioni critiche anche in contesti poco tolleranti come quello dell’Italia fascista. I gerarchi, in risposta, fecero girare la notizia della sua omosessualità causando, per la mentalità dell’epoca, un danno di immagine al pittore, che corse ai ripari sposando una amica d’infanzia.
Determinante nella sua vita fu anche il suicidio del padre, per cui il giovane Rosai dovette rilevare la sua attività per poter garantire stabilità alla sua famiglia. Questo episodio condizionò la sua tranquillità, e questa inquietudine traspare nei suoi dipinti dai toni cupi e dalle cromie scure, che si alleggeriscono proprio quando Rosai decise di dedicarsi a tempo pieno alla pittura. Dipinse soprattutto scene di paesaggio, nature morte e ritratti di molti dei suoi amici, tra cui nomi celebri come Soffici, Giorgio de Chirico e altri.
Ottone Rosai nacque a Firenze il 28 aprile 1895 da padre artigiano. Frequentò in gioventù l’Istituto d’Arte, e in seguito si iscrisse all’Accademia di Belle Arti, ma venne espulso dopo pochi anni per cattiva condotta. Continuò gli studi artistici da autodidatta, e nello stesso periodo entrò in contatto con gli artisti Giovanni Papini e Ardengo Soffici, che facevano parte del movimento futurista e lo introdussero alla loro visione artistica. Conobbe anche Filippo Tommaso Marinetti, il fondatore del Futurismo, in occasione della sua prima mostra avvenuta nel 1913 al banco di Pistoia, proprio accanto al locale dove, contemporaneamente, si svolgeva la mostra L’esposizione di pittura futurista di Lacerba. Queste le parole di Rosai in merito all’incontro: “La mostra fu molto visitata, molto discussa e l’onore più grande fu di vedere venirci in gruppo i Futuristi. Guardando, parlando, ammirarono e infine Marinetti, capo del movimento, espresse il desiderio di conoscermi. Fui presentato a lui da Papini e lui a sua volta mi presentò a Soffici, a Carrà e a Tavolato. M’invitarono con essi e da quel giorno divenni un militante futurista ed un frequentatore immancabile del caffè delle Giubbe Rosse”. Tuttavia, Rosai si ispirò certamente ai dettami della pittura futurista nelle prime opere, ma poi seguì il proprio punto di vista personale.
Poco dopo si arruolò come volontario nel Regio Esercito, come molti altri artisti futuristi, e venne chiamato a combattere nella prima guerra mondiale, dalla quale tornerà con due medaglie d’argento. Una volta conclusa la guerra, per Rosai si aprì un momento difficile a causa delle difficoltà incontrate al rientro in società, e in questo frangente iniziò a trovare interessanti le idee di Benito Mussolini. Dopo l’inaugurazione di una mostra personale a Firenze nel 1920, seguì un altro periodo complicato per Rosai. Due anni dopo, infatti, avvenne un episodio tragico che segnerà la sua esistenza, ovvero il padre decise di suicidarsi, arrivando a compiere l’estremo gesto non riuscendo a risanare i propri debiti. Rosai da quel momento ereditò il peso di dover badare alla famiglia e decise di rilevare la falegnameria del padre, in modo da garantire loro stabilità economica. Inoltre, lavorò in parallelo fino al 1929 come illustratore per alcuni giornali fascisti, Il Bargello e Il Frontespizio. A questo periodo risale anche il deterioramento dei rapporti con Ardengo Soffici, a cui dedicò un caustico opuscolo dal titolo Alla ditta Soffici-Papini & compagni nel 1931. Inoltre, alcune mostre, tra cui una personale allestita a Milano nella galleria Il Milione furono fallimentari, e così Rosai decise di lasciar perdere la pittura per un anno. Si dedicò allora alla scrittura, lavorando prima alla sua monografia per la casa editrice Hoepli e poi al volume Dentro la guerra. Questo scritto ebbe subito alterne fortune, rifiutato infatti dal Ministero per la Stampa e la Propaganda, attirò invece l’attenzione di Giuseppe Ungaretti, che lo pubblicò a puntate sulla sua rivista Vita Nuova. La versione integrale dello scritto venne poi pubblicata nel 1934 per la casa editrice Novissima di Roma.
A partire dal 1931 collaborò, infine, con la rivista L’Universale che nacque proprio per diffondere la sua pittura. Nello stesso anno lasciò definitivamente la falegnameria del padre dedicandosi alla pittura a tempo pieno. Nel frattempo, la firma dei patti lateranensi da parte di Mussolini fu per Rosai motivo di aspra delusione, in quanto ritenne che il fascismo avesse tradito le posizioni anticlericali dei primi tempi, e questo episodio lo avrebbe portato a scrivere parole molto dure nei confronti di questa situazione nel testo Per lo svaticanamento dell’Italia. Il volume destò grande scalpore tra le gerarchie fasciste che, volendo rispondere alla durezza dello scritto, iniziarono a diffondere la voce dell’omosessualità di Rosai come accusa infamante, e questo episodio incise negativamente sulla sua fama. A quel punto Rosai per recuperare la sua immagine si vide costretto a sposare una sua amica d’infanzia, la quale era a conoscenza delle abitudini del pittore e fu d’accordo nell’accettare il matrimonio in modo da tutelarlo. Il disagio esistenziale che Rosai provava lo portò a scegliere di vivere in luoghi lontani dalla civilità, e questo tormento divenne evidente negli autoritratti del periodo.
Non tutto però fu cupo nella vita del pittore: nel 1932 raggiunse la consacrazione con una mostra personale allestita a Palazzo Ferroni a Firenze, a cui seguono numerose altre esposizioni a Milano, Roma e Venezia. Nel 1939 venne nominato professore di figura disegnata al Liceo Artistico, e nel 1942 gli viene assegnata la cattedra di pittura all’Accademia di belle arti di Firenze. Tuttavia alla fine della seconda guerra mondiale si trovò nuovamente a sprofondare nello sconforto quando la nuova classe dirigente pretese l’allontanamento dall’insegnamento di tutti coloro che erano considerati rappresentanti del fascismo, ignorando totalmente il trattamento umiliante che subì l’artista proprio da parte dei fascisti.
La sua attività espositiva, tuttavia, continuò nel corso degli anni Cinquanta a livello internazionale: espose alcune sue opere a New York, Il Cairo, Zurigo, Parigi, Londra, Madrid e in Germania, dove venne riproposta una sua esposizione in forma itinerante. Gli venne anche dedicata una personale, come forma di tributo, a Firenze presso la galleria La Strozzina, da poco inaugurata in Palazzo Strozzi, e una grande retrospettiva alla Biennale di Venezia del 1956. Proprio durante una mostra collettiva a La Spezia, il carattere sprezzante di Rosai emerse quando i suoi quadri non ebbero un giudizio favorevole al contrario di quelli di un pittore più giovane, Gualtiero Passani, che furono lodati. Rosai venne preso da un impeto di rabbia e rovinò un suo quadro conficcandovi un sigaro acceso, oltre a diversi insulti nei confronti del gallerista accusandolo di aver messo i dipinti di Passani prima dei suoi. La sua salute cominciò a vacillare, e ne risentì soprattutto il cuore, con diagnosi di cardiopatia. Rosai continuò comunque ad esporre e a ricevere tributi, infatti nel 1957 venne organizzata una mostra a lui dedicata ad Ivrea, nel Centro Culturale Olivetti Rosai partì alla volta di Ivrea per lavorare all’allestimento della mostra, ma improvvisamente morì colto da infarto, il 13 maggio. Le sue spoglie si trovano a Firenze nel cimitero delle Porte Sante.
Rosai fu un pittore caratterizzato da una visione molto personale ed individuale dell’arte, e certamente le sue opere furono condizionate dalle vicissitudini personali che si trovò ad affrontare nella sua vita, pertanto prediligeva soggetti umili, da nature morte a ritratti di familiari, fino ad anziani avvolti da un alone di tristezza, accompagnati da tinte opache che si ritrovano anche nei colori più caldi come il giallo e il rosso.
Spesso viene accostato al gruppo dei Futuristi, ed effettivamente entrò in contatto con loro intorno al 1912, inizialmente con opere caratterizzate da una pennellata piuttosto forte e colori intensi, per poi passare a sperimentazioni polimateriche accostando insieme materiali diversi con colate di colore. Altri dipinti considerati Futuristi sono datati al 1914, e si tratta di Dinamismo bar San Marco e un collage dal titolo Scomposizione di una strada. Nello stesso anno, i Futuristi invitarono Rosai all’Esposizione libera futurista nella galleria Sprovieri di Roma.
Ardengo Soffici, con cui Rosai era solito frequentarsi, fu il tramite che portò il pittore ad approfondire il cubo-futurismo e il collage e a conoscere Paul Cézanne, Pablo Picasso ed Henri Rousseau il Doganiere. Tuttavia, Rosai mantenne una certa individualità che lo portò ad aderire presto al ritorno figurativo, facendo propria una tendenza che esprimeva a pieno la sua esigenza di cercare il più possibile un linguaggio autonomo, rifuggendo per natura dalle convenzioni. Già nel 1913 egli realizzò un’acquaforte in bianco e nero dal titolo La casa delle civette, che rappresenta uno scorcio di case con alcuni pioppi, resi con toni piuttosto cupi ed inquieti. In questo caso, l’artista venne influenzato dalle scenografie teatrali drammatiche di Edward Gordon Craig, che si trovava a Firenze tra il 1908 e il 1913. Nel 1919 inaugurò un periodo fervido in cui realizzò prima delle nature morte, poi dei paesaggi toscani e rappresentazioni di figure in interni resi in modo molto originale, raggiungendo una semplificazione dei volumi che è molto simile alle forme piene di Masaccio nel Quattrocento.
Si concretizza così il completo ritorno al figurativismo, dopo una breve fase cubista che partiva dallo studio del reale così come propugnato da Soffici, che nel frattempo si era avvicinato a Valori Plastici di Mario Broglio. Nella mostra personale datata al 1920, precedentemente citata nella biografia e che venne peraltro introdotta proprio da Soffici, appaiono dipinti realizzati in quell’anno: Serenata (o Concertino), Partita a Briscola e Giocatori di toppa, la prima di una serie di diverse versioni. Qualche anno dopo, Rosai partecipò ad un viaggio nella campagna senese, e riportò le sensazioni suscitate dal contatto con questa terra nei dipinti successivi, che risultano molto espressivi: Suonatori (1928), una versione di grandi dimensioni dei Giocatori di toppa (1929), alcuni scorci urbani e vari ritratti.
In questo vivace ritorno al figurativismo, la particolarità delle figure umane presenti nelle opere di Rosai risiede nel fatto che i lineamenti riprendevano i tratti tipici toscani, e venivano raffigurati mentre passavano il tempo all’osteria tra i vicoli più umili di Firenze, rappresentando un’umanità senza tempo. Venivano dipinti in modo realistico ed essenziale, utilizzando i colori della terra. Nel 1931 si riscontra maggiore luminosità nei colori delle opere di Rosai, e anche i toni generali si alleggeriscono. Questo periodo coincide con la decisione di dedicarsi totalmente alla pittura abbandonando l’attività di falegname. Tra il 1935 e il 1938, Rosai realizzò opere ancora più pacate, tra cui si annoverano i due pannelli realizzati per la sala ristoro della stazione di Firenze, dal titolo Paesaggi toscani. L’influenza della seconda guerra mondiale, che gli causò ulteriore sconforto e sfiducia nel futuro avendo già vissuto la prima, si fece sentire nelle opere del dopoguerra, in cui le figure appaiono molto più drammatiche e nettamente staccate da fondali neutri tramite contorni marcati.
Le opere di Rosai si trovano in Italia. A Firenze, luogo di nascita del pittore, è conservata la sua opera Piazza del Carmine (1954) in Palazzo Pitti, mentre nel Museo del Novecento è conservato un lascito composto da un numero cospicuo di opere, donato dalla vedova Francesca Fei nel 1963, che comprende numerose vedute di Firenze e soprattutto ritratti di celebri personalità, la cosiddetta “serie degli Amici”, tutte realizzate tra il 1954 e il 1955. Tra i ritratti si annoverano Eugenio Montale, Elio Vittorini, Giorgio de Chirico, Ardengo Soffici e Romano Bilenchi.
Si possono ammirare altre opere a Forlì, presso il Palazzo del Novecento, dove si trova I muratori (1949); a Pieve di Cento (Bologna) presso il Museo MAGI ’900 (Museo d’Arte delle Generazioni Italiane del ‘900) dove sono conservate due versioni del Cristo sulla croce, una non datata e una risalente al 1948; a Macerata presso il Palazzo Ricci, dove sono Il cieco (1932), Paesaggio toscano (1950), Uomo in lettura (anni Cinquanta), Vaso di tulipani (1956), e Giocatori al caffé (1956).
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