Sul finire del Cinquecento iniziò a svilupparsi un movimento di forte reazione al virtuosismo manierista. Questo movimento prese le mosse da tre grandi pittori bolognesi che operarono tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo, i Carracci, ovvero i fratelli Agostino (Bologna, 1557 - Roma, 1602) e Annibale (Bologna, 1560 - Roma, 1609) e il loro cugino Ludovico (Bologna, 1555 - Roma, 1619). Alla base del procedere carraccesco vi era il pensiero secondo cui l’arte aveva raggiunto all’epoca un eccessivo intellettualismo che era contrario a quelli che dovevano essere i principî fondamentali dell’arte stessa, vale a dire l’aderenza al vero naturale e la facilità di lettura: due caratteristiche che si erano perse con l’eccesso di ricercatezza (che spesso sfociava nella bizzarria) tipico dell’arte manierista.
La crisi del Manierismo toccò l’apice in periodo di Controriforma (la produzione carraccesca infatti spesso fu legata alle istanze controriformistiche): proprio a Bologna, nel 1582, il cardinale Gabriele Paleotti aveva stampato il proprio Discorso intorno alle immagini sacre e profane che ebbe una vasta risonanza sugli ambienti artistici cittadini. Sono queste le premesse che portarono alla formazione dell’Accademia dei Carracci, con cui i tre artisti vollero riformare l’istituto della bottega artistica, le cui logiche quasi imprenditoriali più che educative risalivano ancora al Medioevo. Nel 1582 era già in funzione l’Accademia degli Incamminati (non ne conosciamo l’anno esatto di fondazione), la scuola formata dai Carracci, principalmente su iniziativa di Ludovico. L’Accademia aveva conosciuto diverse denominazioni (“del Naturale” e “dei Desiderosi”), ma tutte indicanti lo stesso fine, ovvero quello di dirigere gli allievi sulla strada della rappresentazione naturalistica. E questa rappresentazione rifiutava l’imitazione, che era tipica del Manierismo, ma fondava i suoi presupposti sullo studio della natura, senza però trascurare lo studio dei grandi maestri. L’Accademia dei Carracci inoltre si differiva dalle botteghe contemporanee e precedenti anche per un altro aspetto peculiare: fu infatti organizzata come una vera scuola dove, oltre alla tecnica pittorica, si imparavano elementi di letteratura, filosofia, scienze, geometria, perché l’artista, secondo i Carracci, doveva essere un intellettuale completo ed essere in possesso di una solida formazione teorica.
Ludovico Carracci fu, dei tre, il pittore che più avvertì le esigenze controriformistiche, e risentì in modo profondo dei trattati sulle immagini sacre: applicando alla pittura religiosa i canoni del nuovo naturalismo, arrivò a connotare i suoi personaggi di una profonda umanità, dal sapore quasi popolaresco, adatta per un’arte rivolta a un pubblico diffuso, un’arte fortemente devozionale capace di suscitare sentimenti di pietà e religiosità negli osservatori (si veda la Pala Bargellini, 1588, Bologna, Pinacoteca Nazionale). Esiti simili (ma dai toni più spiccatamente narrativi e descrittivi) furono raggiunti dall’arte di Agostino Carracci, che fu l’artista meno prolifico (e probabilmente meno dotato), in quanto il suo ruolo era soprattutto quello di teorico e di studioso dell’arte.
Le vette più alte di naturalismo furono raggiunte da Annibale Carracci: nella sua arte, oltre ai temi tipici della religione e della mitologia, non mancavano anche soggetti umili tratti dalla realtà quotidiana, ai quali il pittore bolognese, attraverso il suo occhio indagatore attento a dare una rappresentazione fedele della realtà, era riuscito a dare dignità artistica. Dei Carracci fu l’unico a oltrepassare infatti i temi più tradizionali per proporre quindi una pittura dai tratti molto rivoluzionari che non mancava però di una base ben specifica, perché Annibale Carracci studiò le opere di Correggio, dei realisti lombardi e dei veneti, come Tiziano e Tintoretto, studiando di questi ultimi due rispettivamente il colore e la luce.
Annibale Carracci è considerato l’iniziatore in Italia della cosiddetta pittura di genere, ovvero la pittura che prediligeva soggetti bassi o popolari raffigurati nelle loro realtà quotidiane (come nella Bottega del macellaio, 1585 circa, Oxford, Christ Church Picture Gallery), e che si stava diffondendo nell’Olanda del tempo. Però, a differenza degli olandesi, Annibale Carracci dimostrò di non avere alcun intento allegorico, morale o satirico, qualità che contraddistinguevano spesso le scene di genere fiamminghe. Tuttavia nelle composizioni ufficiali, Annibale Carracci si avvalse ancora di un classicismo che seppe però rivisitare in termini del tutto nuovi e che fu alla base della nascita del classicismo seicentesco che trovò la sua massima espressione tra Roma e Bologna, che fu uno dei poli artistici più importanti in Italia durante il Seicento.
L’artista che ruppe completamente con la tradizione e scombinò tutti gli schemi della pittura fu però Michelangelo Merisi detto il Caravaggio (Milano, 1571 - Porto Ercole, 1610). Caravaggio, alla luce della sua formazione lombarda e dello studio delle opere degli artisti veneti, fu mosso dalla stessa volontà dei Carracci di fornire una rappresentazione naturalistica della realtà che lo circondava. L’artista tuttavia estese questa volontà anche alla pittura religiosa, nel senso che i personaggi più umili della Roma del tempo (dove Caravaggio lavorò), come popolani e prostitute, diventavano i modelli per santi e Madonne (per esempio nella Morte della Vergine, 1604, Parigi, Louvre: sembra che la figura della Madonna sia ispirata a una prostituta annegata nelle acque del Tevere a Roma), tanto che l’artista dovette subire spesso il rifiuto delle sue opere da parte dei committenti. Quello che differenziava il Caravaggio da Annibale Carracci (artista che Caravaggio dimostrò di stimare apertamente) era innanzitutto il fatto che il bolognese, come si è detto prima, nelle composizioni ufficiali si mantenne su schemi classicisti, sebbene innovativi, mentre il Caravaggio portò la sua carica innovativa anche in dipinti eseguiti per commissioni pubbliche (come nel Martirio di san Matteo, 1600-1601, Roma, San Luigi dei Francesi). E inoltre, Annibale Carracci era interessato, nelle sue scene di genere, a una indagine oggettiva, mentre Caravaggio conferiva ai suoi soggetti, oltre a un attento realismo, anche un’elevata carica drammatica. Questa incredibile combinazione di realismo e drammatismo rese fortemente innovativa l’opera di Caravaggio e ancora oggi riesce a fare presa su un pubblico vastissimo.
In Caravaggio la religione si spogliava di quella idealizzazione che l’aveva sempre distinta ed entrava invece in una dimensione quotidiana nella quale ogni osservatore poteva riconoscersi: i sentimenti dei personaggi appartenenti alla sfera sacra (angeli, apostoli, santi, Madonne), come lo stupore, la disperazione, il dolore, erano studiati dal vivo ed erano quelli della gente comune, dei poveri del tempo, che entravano così in un tipo di arte che rifiutava quel decoro al quale invece i Carracci non mancarono mai di attenersi. Caravaggio seppe poi rinnovare l’uso della luce, che si fece quanto mai realistico: in dipinti caratterizzati da atmosfere buie e cupe, la luce costruiva le forme spesso raggiungendo anche elevati significati simbolici, soprattutto, ancora una volta, nei dipinti a soggetto religioso (per esempio, nella Vocazione di san Matteo, 1599, Roma, San Luigi dei Francesi, la luce sottolinea la chiamata di Matteo da parte di Cristo). La carica drammatica delle opere di Caravaggio si accentuò negli ultimi anni della sua carriera artistica, quando, per sfuggire da una condanna a morte per omicidio, dovette recarsi in diverse parti d’Italia: questa sua vita tormentata, oltre ad alimentare il cliché dell’artista maledetto che al giorno d’oggi esercita un notevole fascino sul grande pubblico, diede luogo a un’arte fortemente angosciata e dagli elevati toni patetici (Davide con la testa di Golia, 1609-1610, Roma, Galleria Borghese).
Un’arte così esplicitamente rivoluzionaria ebbe subito una vasta risonanza in tutta Italia e non solo (gli artisti stranieri presenti a Roma, principalmente francesi e olandesi, “esportarono” infatti le novità caravaggesche), e i due più originali e geniali interpreti della lezione caravaggesca furono sicuramente Orazio Gentileschi (Pisa, 1563 - Londra, 1639), che fu anche amico personale di Caravaggio, e Bartolomeo Manfredi (Ostiano, 1582 - Roma, 1622). Orazio Gentileschi, toscano, si era formato nell’ambito del Manierismo della sua regione d’origine, ma ben presto a Roma, a contatto con il Caravaggio, dimostrò dapprima una stretta osservanza ai suoi modi. Poi però, alla luce di una più attenta riflessione, seppe declinarli secondo forme più eleganti e raffinate, in linea con il suo percorso formativo.
Orazio Gentileschi fu un pittore molto più sensibile rispetto a Caravaggio (ma anche molto più freddo: la carica drammatica di Caravaggio è molto attenuata, anzi quasi del tutto assente, nell’arte di Gentileschi), e questa sua sensibilità si tradusse in un caravaggismo più delicato, caratterizzato da colori limpidi e da una grande minuzia descrittiva che raggiungeva il suo apice nella rappresentazione dei tessuti (un tratto, questo, specifico dell’arte di Gentileschi, a cui contribuì la sua formazione toscana). Tutte caratteristiche che ritroviamo, per esempio, nella Annunciazione (1623). Sul finire della sua carriera, Orazio Gentileschi fu dapprima a Genova (dove diede un notevole impulso allo sviluppo e all’aggiornamento della scuola locale) e quindi lavorò presso le corti di Parigi e Londra: la sua arte si fece ancora più raffinata e la luce tipica dell’arte caravaggesca raggiunse in lui esiti di purezza e freddezza tali da garantire risultati di eccezionale limpidezza (Ritrovamento di Mosè, 1633, Madrid, Prado).
Di diverso temperamento fu invece la figlia di Orazio, ovvero Artemisia Gentileschi (Roma, 1593 - Napoli 1653): talento precocissimo, favorito anche dalla professione del padre, dimostrò un carattere però molto più fiero e appassionato, così che la sua interpretazione del caravaggismo andò in senso opposto rispetto a quella del padre, tanto che le opere di Artemisia hanno una carica di pathos incredibile, sconosciuta all’arte di Orazio. Su questa drammaticità che spesso sfociava nella violenza brutale (Giuditta che decapita Oloferne, 1612, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte), ebbero sicuramente una notevole influenza le vicissitudini personali della giovane artista, costretta a vivere in tempi in cui il ruolo della donna era relegato ad aspetti molto marginali nella società, in un ambiente, quello degli artisti, prepotentemente dominato dalla figura maschile e in una città, la Roma di inizio Seicento, dove la vita per una giovane ragazza che non apparteneva ai ceti più alti della società, era tutt’altro che facile.
Bartolomeo Manfredi diede invece una declinazione del caravaggismo in termini più sereni. Artista che prediligeva le scene di genere, elaborò uno stile tutto personale noto come manfrediana methodus (ovvero “metodo di Manfredi”), termine che fu coniato nel 1675 dal pittore e storico dell’arte tedesco Joachim Sandrart. La manfrediana methodus era fondata sull’utilizzo delle scene di genere, tratte da ambienti perlopiù umili e popolari, dalle quali però era assente il drammatismo caravaggesco: la capacità di descrivere in modo impeccabile i sentimenti umani serviva per dipingere sui volti dei personaggi sentimenti di serenità e allegria sconosciuti a Caravaggio e spesso anche dai toni aspramente beffardi (Scena di una taverna, 1620 circa, Los Angeles, County Museum of Art). La manfrediana methodus fu particolarmente apprezzata soprattutto al di fuori dell’Italia, tanto che ebbe un vasto seguito in Francia (con artisti come Valentin de Boulogne, Georges de la Tour e Simon Vouet, attivi anche in Italia) e in Olanda (dove il massimo esponente della pittura caravaggesca fu Gerrit van Honthorst, italianizzato in Gherardo delle Notti per la sua capacità di creare raffinati e suggestivi notturni).
Infine, tra gli esponenti più originali della pittura caravaggesca è possibile annoverare anche Orazio Borgianni (Roma, 1578 – Roma, 1616) e Giovanni Serodine (Ascona, 1594 - Roma, 1630). Il primo, tornato da una singolare esperienza in Spagna dove aveva conosciuto l’arte di un pittore come Dominikos Theotokopoulos detto El Greco, aggiunse alla lezione caravaggesca la visionarietà tipica della pittura di El Greco (come nel San Carlo Borromeo, 1611-1612, Roma, San Carlo alle Quattro Fontane), mentre il ticinese Serodine meditò soprattutto sugli effetti di drammaticità dell’arte di Michelangelo Merisi, dimostrando una sorprendente vena realistica nella rappresentazione sia dei personaggi che dei loro stati d’animo, e un sapiente dosaggio degli effetti luministici (Cristo tra i dottori, 1625 circa, Parigi, Louvre).
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