Mario Sironi (Sassari, 1885 – Milano 1961) è stato uno degli artisti più celebri della prima metà del Novecento. Nel corso della sua carriera, Sironi ha aderito a diverse correnti artistiche e ne ha persino fondata una insieme ad altri artisti, come nel caso del movimento Novecento Italiano. Negli anni Sironi è stato membro del Futurismo, l’avanguardia italiana nata nel 1909 con il celebre manifesto di Filippo Tommaso Marinetti (Alessandria d’Egitto, 1876 – Bellagio, 1944). Dopodiché per un certo periodo ha subito gli influssi anche della corrente Metafisica, fondata negli anni Venti da Giorgio de Chirico, e della pittura espressionista. Inoltre, Sironi si è mosso in prima linea per riportare in vita la pittura murale, di cui divenne il più importante esponente del suo tempo.
Tuttavia, la sua brillante carriera artistica è stata macchiata dalla convinta adesione al movimento politico fascista, nel quale vedeva un trampolino di lancio per la rinascita dell’Italia e di conseguenza dell’arte italiana. Negli anni Sironi ebbe stretti rapporti con il regime, per il quale allestì diverse mostre e molti padiglioni. Per di più, il pittore lavorò come illustratore per il Popolo d’Italia, il giornale fondato da Benito Mussolini. A causa della sua vicinanza al regime le opere di Sironi vennero screditate per quasi tutta la seconda metà del Novecento. D’altra parte, negli ultimi anni è in corso una rivalutazione del corpus sironiano che, senza cancellare l’onta dell’adesione del pittore al movimento fascista, sta riportando in luce i capolavori di uno dei più grandi maestri italiani moderni.
Mario Sironi nacque dal matrimonio tra Enrico (Milano, 1847 – Roma, 1898) e Giulia Villa (Firenze, 1860 – Bergamo, 1943), entrambi provenienti da due famiglie di tradizione artistica. Il nonno materno, Ignazio Villa, era uno scultore e architetto, così come lo zio paterno Eugenio Sironi, mentre il padre Enrico era un ingegnere e la madre una formidabile musicista. Nel 1856, la famiglia si trasferì a Roma, dove il giovane Mario svolse gli studi tecnici. Tuttavia, la sua adolescenza fu scossa profondamente dalla morte prematura del padre, avvenuta quando Sironi aveva soltanto tredici anni. Mario trascorse la sua adolescenza leggendo i grandi classici francesi, Leopardi e alcuni dei più grandi filosofi. Nel 1902 Sironi si iscrisse alla facoltà di ingegneria, che abbandonò dopo soltanto un anno a causa di una grave depressione dovuta a un forte disagio esistenziale, che segnò tutta la sua esistenza. Così, sotto il consiglio di due artisti a lui cari, si iscrisse alla Scuola Libera del Nudo per dedicarsi alla pittura. Contemporaneamente entrò in contatto per la prima volta con gli artisti futuristi, tra i quali Umberto Boccioni (Reggio Calabria, 1882 – Verona, 1916) e Giacomo Balla (Torino, 1871 – Roma, 1958) e anche con la cerchia di Angelo Prini (Belgirate, 1915 – Pavia, 2008), futuro esponente dell’Arte Povera.
Dopo un primo momento di incomprensione con Boccioni, a causa della devozione di Sironi per la stessa arte classica che il futurismo si impegnava a distruggere, il giovane pittore entrò nelle grazie dell’artista futurista. Mario diventò a tutti gli effetti un membro del movimento, interpretandone le caratteristiche stilistiche secondo una ricerca volumetrica, che caratterizzò il suo stile per tutta la sua carriera. Gli anni seguenti furono molto fruttuosi dal punto di vista della produzione artistica per il giovane futurista, che ottenne i primi riconoscimenti pubblici dalla critica. Contemporaneamente a questi elogi, Sironi venne invitato a esporre in diverse occasioni e nel 1916 firmò il manifesto futurista: L’orgoglio italiano. Allo scoppio della Prima guerra mondiale, Sironi si arruolò nel battaglione Volontari Ciclisti, insieme ai suoi compagni futuristi. L’esperienza bellica durò fino al 1918, dopodiché l’artista rientrò a Roma e prese parte alla Grande Esposizione Nazionale Futurista. Tuttavia, a partire dagli anni Venti la pittura di Sironi venne influenzata dalle suggestioni della corrente metafisica. Lo stesso anno, Sironi si sposò con Matilde Fabbrini, con la quale ebbe due figlie e un matrimonio molto complicato, dovuto al continuo nomadismo del pittore. Infatti, dopo pochi mesi dal matrimonio Sironi si trasferì a Milano, dove nacquero i suoi primi paesaggi urbani. Nel capoluogo lombardo si avvicinò al fascismo, iniziando a partecipare alla riunioni del Fascio milanese.
Nel 1920 Mario Sironi insieme ad altri artisti firmò il Manifesto futurista. Contro tutti i ritorni in pittura, che conteneva alcuni principi del futuro movimento artistico Novecento Italiano. Quest’ultimo nacque due anni dopo, dal sodalizio tra Sironi, Anselmo Bucci (Fossombrone, 1887 – Monza, 1955), Leonardo Dudreville (Venezia, 1885 – Ghiffa, 1976), Achille Funi (Ferrara, 1890 – Appiano Gentile, 1972), Gian Emilio Malerba (Milano, 1880 – Milano, 1926), Piero Marussig (Trieste, 1879 – Pavia, 1937) e Ubaldo Oppi (Bologna, 1889 – Vicenza, 1942), supportati dalla critica d’arte Margherita Grassini Sarfatti (Venezia, 1880 – Cavallasca, 1961). Novecento promuoveva una moderna classicità, rispettosa della tradizione artistica nazionale e in grado di confrontarsi con le necessità moderne. Il gruppo espose per la prima volta alla Galleria Pesaro nel marzo 1923 e in seguito al grande successo ottenuto, la Sarfatti organizzò la Prima mostra del Novecento italiano. A quest’ultima aderirono 110 espositori, tra i quali alcuni dei più importanti artisti dell’epoca: Carlo Carrà (Quargnento, 1881 – Milano, 1966), Giorgio de Chirico, Arturo Martini (Treviso, 1889 – Milano, 1947), Giacomo Balla, Fortunato Depero (Fondo, 1892 – Rovereto, 1960) e molti altri.
Dopo il grande successo ottenuto grazie al movimento Novecento, iniziò un periodo molto complicato per Sironi sia dal punto di vista lavorativo che personale. Infatti, nel 1930 Mario si separò dalla moglie e le opere esposte alla I Quadriennale di Roma dell’anno successivo non furono apprezzate dalla critica. L’insuccesso ottenuto alla mostra fu dovuto all’avvicinamento di Sironi allo stile espressionista, che non venne compreso dai giudici. Tuttavia, questo momento fuorviante durò ben poco, dato che l’artista iniziò a dedicarsi principalmente a opere pubbliche. Questi lavori erano caratterizzati da uno stile composito, che richiamava le tavole prospettiche di inizio Quattrocento. Fino al 1940 Sironi si impegnò quasi esclusivamente nella pittura monumentale, mettendo da parte quella su cavalletto ritenendola ormai inadeguata per le proprie esigenze. Inoltre, questa pratica venne coronata con la stesura di due manifesti: Pittura murale (1932) e il Manifesto della Pittura Murale, firmato assieme ad altri artisti (1933). Tra i lavori più importanti dell’epoca vi furono: La Carta del Lavoro per il Ministero delle Corporazioni a Roma (1932) e i due mosaici L’Italia corporativa (1936-1937) e La Giustizia fiancheggiata dalla Legge (1936-1939), entrambi a Milano.
Nel decennio seguente Sironi continuò il suo impegno nella pittura murale, esponendo una serie di tempere con il nome di Frammenti di opere murali. Nel frattempo, Mario rimase fedele fino all’ultimo al partito fascista, perfino nelle fasi finali più critiche. L’artista uscì sconvolto dalle violenze e dalla brutalità della guerra, durante la quale rischiò perfino di essere fucilato. Disilluso dopo la sconfitta italiana, Sironi cadde in un isolamento inconsolabile acuito dal suicidio della giovane figlia Rossana nel 1948.
Nonostante il terribile susseguirsi degli eventi, Mario Sironi continuò a dipingere e la sua pittura si tinse di toni cupi e frammentari, come nel caso di una delle sue ultime serie pittoriche: Apocalisse.Negli ultimi anni il pittore continuò a esporre sia in Italia che all’estero e nel 1956 venne nominato Accademico di San Luca, un titolo che l’artista accolse con ironica amarezza. Mario Sironi morì nel 1961, in seguito a delle complicazioni dovute a una broncopolmonite.
I primi lavori di Mario Sironi furono fortemente influenzati dall’arte divisionista, una corrente artistica nata intorno alla fine dell’Ottocento. Quest’ultima richiamava il movimento puntinista francese, infatti era caratterizzata dall’accostamento di filamenti e linee di colore. I soggetti prediletti dai pittori divisionisti erano la maternità e le tematiche sociali. Sironi reinterpretò la pittura filamentosa e la tematica materna nel dipinto Madre che cuce (1905), alla luce dello stile composito e materico, che lo contraddistinse per tutta la sua carriera.
Negli anni seguenti Sironi si dedicò allo studio dell’arte classica, fino a quando non entrò a tutti gli effetti all’interno del movimento futurista. Frutto delle influenze dell’avanguardia italiana furono numerose opere, tra cui delle composizioni dai toni sgargianti e dall’inconfondibile cifra stilistica volumetrica. Tuttavia, il giovane artista entrò in contatto con una nuova corrente artistica che caratterizzò parte della sua produzione degli anni Venti, ovvero la Metafisica. Una delle opere in cui è possibile rivedere i riflessi della corrente fondata da De Chirico è La lampada (1919). Sulla tela è rappresentato un manichino con richiami alla composizione geometrica futurista, circondato da un alone di mistero, dovuto all’accostamento della capigliatura maschile con le calzature femminile. Di conseguenza, lo spettatore si ritrova davanti una figura di cui è difficile stabilire il sesso, immersa in una stanza oscura e con richiami alle ambientazioni dei quadri metafisici di De Chirico.
Ulteriore sviluppo delle influenze metafisiche e delle cupe riflessioni interiori di Mario Sironi furono la serie dei Paesaggi urbani, le sue opere più famose nate dopo il trasferimento a Milano. Nelle vedute cittadine di Sironi campeggiano delle case monolitiche e delle alte ciminiere, scandite secondo rigide prospettive lineari che danno vita a delle città scarne, grigie e prive di vita. Margherita Sarfatti scrisse nel suo libro Storia della pittura moderna: “[Sironi] è il pittore dei paesaggi urbani meccanici e implacabili come la geometria delle vite rinchiuse dei cubi delle case, fra i rettifili delle strade”. Dunque, la Sarfatti rivide nei paesaggi urbani di Sironi la stessa visione dell’esistenza racchiusa nella mente del pittore, con il quale passava molto tempo insieme. Infatti, per Mario le sue città prive di vita erano lo specchio delle vite vuote delle persone che vivevano in periferia e della sfiducia nell’industrializzazione del paese.
Sironi rielaborò numerose volte questo sentimento di malinconia e di nostalgia verso il passato, come nel caso dell’opera: Solitudine (1925). In questo dipinto è rappresentata una donna affacciata su un balcone all’interno di un ambiente scarno, con lo sguardo fisso e mesto oltre lo spazio dell’opera. I tratti del viso e le vesti della protagonista richiamano l’immaginario classico, di cui il partito fascista si reclamava l’erede, mentre l’ambiente indefinito e arcaico, di memoria metafisica, accentua la tristezza e la malinconia della donna. Quest’ultima rappresenta da una parte il dramma dell’uomo contemporaneo costretto a vivere in una condizione di alienazione e subordinazione rispetto alla tecnologia; dall’altra la donna è simbolo della sfiducia del pittore nei confronti della modernità, che stava allontanando sempre di più l’uomo dai gloriosi tempi antichi.
A partire dagli anni Trenta Mario Sironi iniziò a dedicarsi quasi esclusivamente alla pittura parietale. Il pittore sosteneva la superiorità dell’arte murale rispetto a quella da cavalletto per la sua dimensione pubblica, che contemporaneamente la sottraeva dalle speculazioni del mondo del mercato. Inoltre, secondo Sironi la grande pittura parietale avrebbe incentivato gli artisti a misurarsi con temi più alti, andando oltre i meri sentimentalismi dei quadri da cavalletto. Dunque, la pittura pubblica andava incontro sia alle esigenze del maestro che non voleva avere nulla a che fare con il sistema del mercato dell’arte, e allo stesso tempo risultava un ottimo strumento di diffusione dell’ideologia del regime fascista.
Uno degli affreschi più celebri di Mario Sironi è L’Italia tra le Arti e le Scienze nell’Aula Magna dell’Università di Roma (1935). Il pittore progettò il disegno dell’opera per due anni e impiegò tre mesi per realizzarlo, immaginando l’allegoria dell’Italia in mezzo alle discipline del sapere, divise tra scienze e arti. In seguito alla caduta del regime fascista, il murale ha vissuto una vicenda travagliata, rischiando di essere distrutto a causa dei simboli fascisti presenti sulla sua superficie. Infatti, l’opera fu sottoposta a un’operazione censura, che si tradusse in un intervento di ridipintura. Quest’ultimo non fu volto soltanto all’eliminazione degli elementi fascisti, ma anche alla modifica permanente delle figure e dei colori. Dopo settant’anni è stato possibile rivedere l’affresco nelle sue sembianze originali grazie a un importante restauro.
Mario Sironi è stato uno degli artisti più versatili della prima metà del Novecento italiano ed è importante che la critica continui a studiare il suo percorso artistico per ricostruire le tappe della nascita dell’arte moderna in Italia.
La maggior parte delle opere di Mario Sironi sono conservate in diversi musei italiani, per esempio a Firenze, tra la Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti e il Museo Novecento, a Roma alla Galleria nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, dove è possibile vedere la stessa Solitudine e al Mart di Rovereto. D’altra parte la più grande collezione di opere d’arte di Sironi si trova all’interno del Museo del Novecento a Milano.
Tuttavia, come detto sopra numerose opere di Sironi non sono conservate soltanto all’interno dei musei, ma anche in diversi edifici pubblici. A Bergamo sono conservati due teleri realizzati dall’artista: L’Agricoltura o Il Lavoro in Campagna, e L’Architettura o Il Lavoro in Città (1929-1931). anche a Roma ci sono diverse opere murali dell’artista, come La carta del lavoro (1927-1932) all’interno del Ministero dello Sviluppo Economico e l’affresco L’Italia tra le arti e le scienze. Ma ancora una volta è Milano ad avere il primato, infatti il capoluogo lombardo ospita il maggior numero di opere pubbliche di Sironi. In città è possibile vedere: Il lavoro fascista (1936-1937) al Palazzo dell’Informazione, il mosaico La Giustizia fiancheggiata dalla Legge, che reca le tavole scritte, e da una figura giovanile, simbolo della forza, recante il Fascio con la Verità (1936-1938) e la vetrata L’annunciazione (1938-1939) alla Chiesa dell’Ospedale Maggiore di Niguarda.
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