La Controriforma aveva sottolineato l’esigenza di un’arte che da una parte richiamasse il fedele alla dottrina cattolica e dall’altro affermasse il primato della religione cattolica contro la Riforma protestante. Entrambe queste tendenze, nei primi decenni del Seicento, trovarono la loro convergenza e sfociarono nel linguaggio barocco: riportare il fedele ai canoni della Chiesa di Roma significava anche coinvolgerlo a livello emotivo in modo forte, meravigliandolo, e affermare il primato della religione cattolica significava comunicare la potenza e il trionfo della Chiesa. Questo portò a uno stile di fortissimo impatto e caratterizzato da un notevole virtuosismo dettato proprio dalla volontà di stupire.
Il termine stesso, barocco, contiene in sé, potremmo dire, l’essenza dell’arte che si produsse in questa epoca: potrebbe infatti derivare dal termine spagnolo barrueco (o dall’omologo portoghese barroco), con cui si indica la perla scaramazza, ovvero una perla dalla forma irregolare. Tale termine, nato in senso spregiativo nell’ambito della storiografia di fine Settecento, proprio per indicare un’arte apparentemente vuota ed eccessivamente stravagante, è stato poi ripreso, ma in senso questa volta positivo, a fine Ottocento, quando grazie all’opera dello studioso tedesco Heinrich Wölfflin la poetica barocca iniziò a essere rivalutata e ad essere anallizata più approfonditamente anche sulla base del contesto sociale e culturale che la produsse.
Una delle caratteristiche che contraddistinsero l’arte barocca fu sicuramente il culto dell’immagine, nato in opposizione alla tendenza tipicamente luterana per cui l’opera d’arte era considerata un inutile sfoggio, una vanità, un’ostentazione. Per questo la Chiesa cattolica, in epoca barocca, moltiplicò le committenze artistiche, secondo l’idea che più un’opera stupiva fino a quasi intimorire l’osservatore, più colpiva nel segno. L’arte, con il barocco, si fece strumento di persuasione e di propaganda: in Italia le committenze maggiori spettarono alla Chiesa, ma ben presto il barocco si diffuse anche in tutta Europa e anche nel resto del mondo, soprattutto nell’America Latina, dove la Chiesa svolgeva al tempo la propria opera di evangelizzazione. Nasceva così un’arte fortemente teatrale, dove l’immagine era vista quasi come una manifestazione divina, e ben presto il linguaggio virtuoso elaborato dagli artisti per la Chiesa iniziò a essere particolarmente apprezzato anche dai committenti privati, poiché in piena epoca di assolutismo, l’arte barocca svolgeva per gli Stati la stessa funzione di celebrazione trionfale che svolgeva per la Chiesa.
Le tendenze barocche, sia in pittura che in scultura, furono però anticipate da alcuni artisti che si formarono in ambito tardomanierista, e a tal proposito giova sottolineare come il barocco sia stato spesso visto come una specie di continuazione ideale del manierismo di cui riproponeva il virtuosismo, anche se con un significato diverso. Il virtuosismo manierista era infatti una reazione all’ordine e al rigore rinascimentale che, in un’epoca di forti inquietudini, erano concetti che gli artisti volevano porre in crisi e stravolgere, mentre il virtuosismo barocco nasceva dalla ricerca di un’arte a effetto che facesse presa sugli osservatori.
Tra i primi scultori che, a metà tra il tardomanierismo e le nuove tendenze, videro il fiorire della loro arte nell’epoca in cui il barocco si stava già affermando, è possibile annoverare Pietro Tacca (Carrara, 1577 - Firenze, 1640). Allievo del Giambologna e attivo presso la corte dei Medici, esercitò il suo gusto per il bizzarro in alcune fontane realizzate per i granduchi di Toscana (come la fontana realizzata nel 1629 a Firenze, in Piazza Santissima Annunziata) in cui trovarono spazio diversi motivi tratti dal mondo animale e vegetale oltre a quelle stravaganti figure fantastiche che abbondarono anche in epoca barocca.
L’arte di Tacca, che spesso assumeva espliciti intenti celebrativi nei monumenti realizzati per celebrare la grandezza e il decoro dei suoi potenti committenti dello scultore carrarese, trovò proprio nel genere del monumento equestre le sue vette di virtuosismo. Pietro Tacca, infatti, fu il primo scultore nella storia dell’arte a realizzare un monumento equestre con il cavallo impennato sulle due zampe posteriori: il monumento a Filippo IV di Spagna, terminato nel 1634 (Madrid, Plaza de Oriente). A questo risultato contribuì anche l’interesse che Pietro Tacca aveva maturato per la scienza: lo scultore era diventato amico di Galileo Galilei che, secondo la tradizione, avrebbe aiutato l’artista nello studio della statica del monumento. Malgrado la Chiesa esercitasse un forte controllo sulla scienza (e un esempio di questo controllo è il processo subito dallo stesso Galileo Galilei), la ricerca scientifica non fu scoraggiata, tranne laddove le posizioni degli scienziati si ponessero in aperto contrasto con i dettami della Chiesa, tant’è che quelle scienze che potevano essere liberamente praticate (come la biologia) conobbero notevoli progressi durante il Seicento.
Alla stessa generazione di Pietro Tacca appartenevano due scultori che, seppur di origini diverse, lavorarono entrambi a Roma agli inizi del Seicento: Stefano Maderno (Bissone, 1576 - Roma, 1636) e Francesco Mochi (Montevarchi 1580 - Roma 1654). Maderno, originario del Canton Ticino, fu uno scultore caratterizzato dai modi semplici e patetici ancora tipicamente controriformisti. La sua ricerca di pathos che portava a un naturale coinvolgimento emotivo dell’osservatore viene vista come un preludio alle ricerche di emotività e drammaticità degli scultori barocchi (Santa Cecilia, 1600, Roma, Santa Cecilia in Trastevere).
Il toscano Mochi si spinse ancora oltre: autore, come Pietro Tacca, di monumenti equestri, produsse una scultura caratterizzata da un acceso dinamismo che trovava compimento nella torsione dei corpi dei personaggi, nella sensazione di movimento, nella gestualità teatrale, come nella Vergine Annunciata del Museo dell’Opera del Duomo di Orvieto. Il tutto con uno spiccato interesse per la rappresentazione dei sentimenti. Probabilmente fu proprio Francesco Mochi l’artista che meglio seppe anticipare le novità dell’arte barocca.
L’artista però più rivoluzionario e con il quale il passaggio alle istanze barocche nella scultura fu compiutamente realizzato, fu Gian Lorenzo Bernini (Napoli, 1598 - Roma, 1680): figlio di uno scultore tardomanierista toscano, Pietro Bernini, fu un talento precoce che si formò studiando i marmi antichi (che in gioventù seppe imitare così bene da portare a considerare quella che oggi è ritenuta la sua prima opera, ovvero la Capra amaltea, una scultura di epoca ellenistica), ma anche i maestri del Rinascimento maturo (il riferimento per gli scultori era ancora Michelangelo), e guardò anche con interesse ai pittori contemporanei.
Entrato nelle grazie dei Borghese, con una delle sue prime opere, ovvero il David (1623-1624, Roma, Galleria Borghese), Bernini rivela una delle caratteristiche della sua poetica barocca: il grande dinamismo che connota la statua e che gli fa assumere una posa totalmente originale è funzionale a cogliere un momento preciso dell’azione, che non è un momento scelto a caso, ma è proprio quello culminante, ovvero l’attimo stesso in cui la pietra sta per essere scagliata dalla mano del protagonista. Il personaggio colto nella istantaneità di un momento che dura una frazione di secondo, proprio per questo deve essere rappresentato da un punto di vista privilegiato, ossia quello frontale. Questo modo di procedere appare diverso rispetto a quello del virtuosismo manierista, che invece presupponeva diversi punti di vista dai quali godere pienamente del dinamismo della realizzazione. Un dinamismo che costituisce anche uno dei tratti specifici della poetica berniniana ed è avvertibile in molte delle sue opere, che si sviluppano in linee sinuose e tortuose (un tipico esempio è l’Apollo e Dafne, 1622-1625, Roma, Galleria Borghese): la linea curva è uno dei fondamenti dell’arte barocca.
La ricerca di drammaticità e di coinvolgimento, come è facile immaginare, veniva praticata da Bernini soprattutto nelle opere a soggetto religioso: in particolare, con la sua Estasi di santa Teresa (1647-1652, Roma, Santa Maria della Vittoria), Bernini fu in grado di realizzare una rappresentazione intensissima, che non può lasciare indifferente l’osservatore, anche perché sviluppata secondo un impianto volutamente e apertamente teatrale (i membri della famiglia committente, i Cornaro, vengono ritratti mentre assistono alla scena da una balaustra). La teatralità, che del resto è una delle componenti fondamentali dell’arte barocca, in questa opera di Gian Lorenzo Bernini raggiunge il suo apice.
Un’altra delle caratteristiche più importanti della poetica barocca fu la contaminazione tra le diverse forme d’arte, soprattutto le tre principali, ovvero la pittura, la scultura e l’architettura: secondo questo principio, elementi tipici di una forma d’arte dovevano mescolarsi a vicenda gli uni con gli altri. Il momento più alto in questo senso fu raggiunto da Bernini nel suo baldacchino di San Pietro (1623-1633, Roma, San Pietro), una monumentale opera a metà tra scultura e architettura ricca però di decorazioni dalla spiccata sensibilità pittorica: si tratta di una struttura destinata a sovrastare il sepolcro di san Pietro, caratterizzata da un impianto che rimandava a una tradizione secolare ma, ovviamente, ampiamente rivisitato e aggiornato secondo le novità e l’estro tutto barocco di Gian Lorenzo Bernini.
Si trattava inoltre di un’opera dal forte impatto celebrativo: la stessa componente della solennità celebrativa tipica dell’arte barocca fu perseguita da Bernini nelle opere di ampio respiro, tra le quali rientra a pieno titolo il monumento funebre di papa Urbano VIII, al secolo Maffeo Barberini, il pontefice che procurò a Bernini diverse commissioni e che contribuì a farlo diventare lo scultore più in auge e più influente della Roma del Seicento. Il monumento berniniano (1628-1647, Roma, San Pietro) è una di quelle opere altamente spettacolari, che probabilmente meglio dànno la prova concreta della volontà della Chiesa di affermare il proprio trionfo.
Il genio di Bernini non fu replicato da nessuno dei suoi successori, che perlopiù ripeterono le formule inventate dal maestro. Non mancarono però artisti dotati di spunti originali o interessanti: tra questi, i maggiori furono Alessandro Algardi (Bologna, 1598 - Roma, 1654) e Domenico Guidi (Torano di Carrara, 1625 - Roma, 1701). Su entrambi gli scultori ebbe un notevole influsso l’ascendente berniniano. Ognuno di loro però sviluppò un tratto specifico dell’arte barocca. Alessandro Algardi proponeva monumenti altamente celebrativi che erano caratterizzati però da toni più composti e quasi idealizzati rispetto a quelli di Bernini (monumento funebre di Leone XI, 1634-1644, Roma, San Pietro). Domenico Guidi (che fu collaboratore di Algardi) sviluppò invece una drammaticità particolarmente carica che trovò le sue vette in opere caratterizzate da linee estremamente libere e dinamiche, come nella pala marmorea della chiesa di Sant’Agnese in Agone a Roma.
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