Non si potrebbero comprendere molti degli sviluppi del Rinascimento nell’Italia del nord senza partire da una città che, sebbene ai margini della vita politica, rivestì un ruolo di primissimo piano nella vita culturale: Padova. La città aveva perso la propria indipendenza già nel 1405, quando entrò a far parte dei domini della Repubblica di Venezia, ma questo non le impedì di diventare una città-guida nel campo della cultura. All’Università si studiavano la filologia e le lettere antiche, continuando una tradizione che risaliva ai tempi di Francesco Petrarca, e nello stesso ateneo si stavano sviluppando gli studi scientifici.
Grazie al soggiorno padovano di alcuni esuli fiorentini (nel 1433 Cosimo il Vecchio e nel 1434 Palla Strozzi, tra coloro che avevano mandato in esilio Cosimo e a sua volta cacciato dopo che quest’ultimo si era impadronito di Firenze), Padova entrò in contatto con la cultura toscana. Palla Strozzi che trascorse nella città veneta il resto della sua vita e si circondò di intellettuali e artisti. A Padova soggiornarono molti dei geni del Rinascimento fiorentino: Donatello, Filippo Lippi, Paolo Uccello. Questi contatti ebbero due effetti principali: portare a Padova le conquiste del Rinascimento fiorentino (il plasticismo, la prospettiva scientifica, la rielaborazione del classicismo... ) e destare negli artisti locali una intensa passione per l’antichità classica.
Si orientò in questo senso l’attività di Francesco Squarcione (Padova, 1397 – 1468), massimo esponente della scuola artistica locale nonché eccezionale estimatore dell’arte antica: una passione, questa, che seppe trasmettere al più geniale dei suoi allievi, Andrea Mantegna (Isola di Carturo, 1431 - Mantova, 1506), che proprio a Padova compì la sua formazione. Dalla bottega di Francesco Squarcione uscì anche, tra gli altri, Carlo Crivelli (Venezia, 1430 circa – 1495 circa), una figura originale ma isolata nel contesto della pittura rinascimentale: le sue opere sono caratterizzate dalle costruzioni architettoniche tipiche delle opere squarcionesche e rivelano quindi un certo interesse per l’antichità, ma sono orientate in senso più raffinato grazie al recupero di elementi tardogotici attraverso cui l’artista raggiunge risultati caratterizzati da atmosfere suggestive, fantasiose e quasi sognanti (Madonna della Passione, 1460 circa, Verona, Museo di Castelvecchio).
Tra gli stati italiani che ebbero un ruolo di primo piano nello sviluppo del Rinascimento nel nord Italia, vi fu la Repubblica di Venezia. La Serenissima, agli inizi del Quattrocento, aveva dato il via all’espansione sulla terraferma riuscendo ad annettere ai propri territori gran parte dell’odierno Veneto: la politica espansionistica di Venezia fu causata, tra l’altro, da una riduzione dei suoi traffici commerciali e la volontà di avere un territorio che potesse garantire sicure fonti di sostentamento a uno Stato che viveva soltanto dei suoi traffici marittimi e importava dai paesi stranieri ciò di cui aveva bisogno. La Repubblica di Venezia conobbe una notevole crescita del proprio prestigio politico, nonché del prestigio culturale perché, entrando a contatto con le città della terraferma (su tutte una Padova umanista che, come detto, da tempo intratteneva rapporti culturali con Firenze), aveva potuto contare sugli stimoli culturali provenienti da queste ultime.
Nel Quattrocento inoltrato, la pittura veneziana era ancora profondamente legata a stilemi tardogotici che a loro volta risentivano di quelle suggestioni bizantine che da secoli costituivano una importante cifra stilistica dell’arte locale. L’artista che diede il via al Rinascimento veneziano può essere considerato Giovanni Bellini (Venezia, 1432 circa - 1516), che lavorò però contemporaneamente a un artista siciliano giunto in laguna, vale a dire Antonello da Messina (Messina, 1430 ca. - 1479). Giovanni Bellini partì da un’attenta riflessione sull’arte del cognato Andrea Mantegna, ma si distaccò presto dal suo segno aspro per dare una posizione di predominanza al colore rispetto al disegno: una caratteristica, quest’ultima, che distinse tutta la scuola veneziana del Rinascimento e che fu sviluppata da tutti i più grandi artisti delle generazioni successive. La preferenza accordata al colore distingueva la scuola veneziana da quella fiorentina, la cui arte era invece fondata sul disegno, anche se non è vero che a Venezia non si disegnasse, perché molti degli artisti veneziani (come lo stesso Giovanni Bellini) hanno lasciato una grande mole di disegni.
Per comprendere perché i fiorentini davano più importanza al disegno e i veneziani al colore, è necessario comprendere quali erano i presupposti culturali alla base delle due scuole artistiche. Il disegno era una sorta di astrazione, in linea con la cultura neoplatonica di Firenze che cercava il bello ideale, un tipo di bellezza che coinvolgeva non a livello emotivo, ma a livello intellettuale. Al contrario, le sorti di Venezia erano rette da un patriziato edonista, amante del lusso, degli eventi mondani e dei piaceri terreni, e il colore era il modo più immediato, nell’arte, per rappresentare il bello naturale, quello cioè che deve coinvolgere a livello di sensi e non di intelletto. Non mancò tuttavia un pensiero filosofico a Venezia, dove però, al contrario di Firenze, più che essere interessato all’etica, era teso a indagare la realtà naturale e a conoscere il mondo circostante, che a cercare di costruire.
Elaborando queste intuizioni, Giovanni Bellini fu il primo a dare preminenza al colore rispetto alle forme decise e marcate (Allegoria, Firenze, Uffizi: leggi qui un approfondimento sull’opera), tanto che si può dire che con lui inizi il Rinascimento veneziano. Con Antonello da Messina condivise parte del percorso formativo, e i due si influenzarono reciprocamente. Contemporaneamente, arrivarono a meditare sull’arte di Piero della Francesca e introdussero il suo ordine geometrico nell’arte veneziana (San Girolamo nello studio di Antonello da Messina, 1474 circa, Londra, National Gallery). Bellini potrebbe aver preso da Antonello il senso del profondo naturalismo che quest’ultimo aveva appreso dall’arte fiamminga conosciuta durante la sua formazione a Napoli dove circolavano molte opere fiamminghe. Antonello da Messina era anche dotato di una capacità descrittiva fuori dal comune: non a caso, la sua ritrattistica è probabilmente la più formidabile di tutto il Quattrocento (Ritratto d’uomo, 1465 circa, Cefalù, Museo Mandralisca).
Anche Milano arrivò in ritardo a recepire le novità rinascimentali. Come Venezia, anche il Ducato di Milano agli inizi del Quattrocento portò avanti una forte politica espansionistica che aveva come obiettivo l’egemonia sull’Italia del nord, e proprio per questo spesso i milanesi arrivarono allo scontro con i veneziani. Gli scontri terminarono nel 1454 con la firma, tra le due parti, della pace di Lodi che ebbe anche l’effetto di frenare l’espansionismo sia di Milano che di Venezia. Nel frattempo, il dominio del ducato milanese, nel 1447, era passato dai Visconti agli Sforza: il primo della dinastia, Francesco Sforza, era capitano di ventura, nonché uomo di gusti tutt’altro che aggiornati. In questo suo ritardo culturale, Francesco Sforza (e come lui i suoi successori) non era diverso dai Visconti, in quanto anche questi ultimi furono legati al gusto tardo-gotico: è per questo che in Lombardia, il Rinascimento giunse con un significativo ritardo. Il primo artista lombardo che potremmo definire pienamente rinascimentale fu Vincenzo Foppa (Brescia, 1427 circa – 1515 circa). Il pittore era entrato a contatto con la prospettiva elaborata dai pittori toscani, conosciuta durante un probabile soggiorno a Padova, seppe innestare le novità appena apprese su una base tipicamente lombarda costituita da quel forte gusto per il realismo (Crocifissione, 1456, Bergamo, Accademia Carrara), che sarà una costante durante tutto il Rinascimento lombardo.
Legata anch’essa alla cultura padovana, fu la fortunata quanto breve scuola ferrarese che fiorì dopo la prima metà del Quattrocento, nella Ferrara di Borso d’Este, che fu uno tra i tanti signori rinascimentali che consideravano l’arte come uno strumento per accrescere il proprio prestigio. Borso fu quindi protettore di artisti e rinnovò in modo radicale l’assetto urbanistico della città. La scuola proseguì con la signoria di Ercole I, che durò fino al 1505. Tuttavia, la guerra contro Venezia combattuta tra il 1482 e il 1484, sommata a una crisi economica che già affliggeva il ducato estense, e le influenze sempre più diffuse del pensiero di Girolamo Savonarola, che a Ferrara era nato e si era formato, posero fine a un’esperienza durata poco più di vent’anni. La straordinaria stagione ferrarese ebbe le sue radici nella temperie culturale che si era creata sotto il governo di Lionello d’Este, signore di Ferrara tra il 1441 e il 1450. Raffinato mecenate, Lionello chiamò alla corte estense letterati e artisti, tra i quali Leon Battista Alberti e Piero della Francesca, e forse anche artisti stranieri come Rogier van der Weyden e Jean Fouquet.
Questo clima diede un notevole impulso alla nascita della scuola locale, che ebbe la sua prima personalità di rilievo in Cosmè Tura (Ferrara, 1430 circa – 1495). Cosmè Tura riprese da Francesco Squarcione, e in generale dal Rinascimento padovano (soprattutto da Donatello e dal suo Altare del Santo nella Basilica di Sant’Antonio a Padova), il senso di monumentalità di derivazione classica unito al gusto per le decorazioni cariche, che in Cosmè Tura talvolta diventavano quasi surreali (Pala Roverella, 1470-1474, Londra, National Gallery). A ciò si aggiungeva il segno aspro di derivazione mantegnesca (anche Mantegna infatti aveva soggiornato a Ferrara, giovanissimo: era appena diciottenne quando arrivò per la prima volta in città) e un’eleganza frutto di retaggi tardogotici. Tutto ciò costituì la cifra stilistica della scuola ferrarese. Cifra stilistica che distinse anche l’opera di Francesco del Cossa (Ferrara, 1436 – Bologna, 1478), che rielaborò le suggestioni di Cosmè Tura eliminando gran parte del decorativismo tardogotico e aggiornando la scuola ferrarese sul plasticismo fiorentino. L’ultima grande personalità della scuola ferrarese, vale a dire Ercole de’ Roberti (Ferrara, 1450 circa – 1496) rilesse l’arte degli altri due concittadini connotandola però di un maggior dinamismo e di una carica patetica molto più accentuata (Mese di settembre, 1470 circa, Ferrara, Palazzo Schifanoia).
L’odierno Piemonte fu tra le regioni che recepirono più tardi la lezione rinascimentale, ma in queste terre, e in particolare nel Monferrato (che anticamente era un marchesato, poi diventato ducato, indipendente), emersero due importanti personalità: Giovanni Martino Spanzotti (Casale Monferrato, 1455 circa - Chivasso, 1528 circa) e Gian Giacomo de Alladio soprannominato Macrino d’Alba (Alba, 1470 circa - 1520 circa). Il primo è considerato l’artista che ha dato il via al Rinascimento nella regione: ispirandosi al Rinascimento realista lombardo di Vincenzo Foppa, seppe coniugarlo con i modi della pittura fiamminga. Completamente diversa fu invece l’esperienza di Macrino d’Alba, che soggiornò a Roma alla fine degli anni Ottanta del Quattrocento, poco dopo il completamento della Cappella Sistina, e studiò le opere dei maestri toscani (Botticelli, Ghirlandaio) e umbri (Perugino, Pinturicchio) disponibili nella capitale dello Stato Pontificio. La sua arte quindi si ispirò al Rinascimento toscano e umbro (Madonna col Bambino e i santi Nicola e Martino, 1493 circa, Roma, Pinacoteca Capitolina). Fondendo elementi provenienti dalle due scuole, Macrino d’Alba formò il suo stile che diffuse poi nelle sue terre d’origine al ritorno da Roma.
In Liguria il massimo rappresentante del Rinascimento fu invece Ludovico Brea (Nizza, 1450 ca. - 1523 ca.): caposcuola del Rinascimento ligure che doveva molto a quello lombardo (la Liguria e la Lombardia avevano infatti diversi contatti commerciali e politici al tempo: basti pensare alla figura di Tommaso Marino, banchiere nonché ambasciatore di Genova presso il ducato sforzesco, fece costruire il palazzo che ancora oggi porta il suo nome ed è l’attuale sede del Comune di Milano) e alla pittura coeva provenzale, Ludovico Brea elaborò uno stile estremamente elegante connotato però da una vena di realismo che derivava dalla lettura, appunto, dell’arte lombarda (Polittico della Rovere, 1485-1490, Savona, Santa Maria di Castello). La sua esperienza fu importante per lo sviluppo della scuola ligure negli anni successivi.
Merita infine una citazione la Bologna dei Bentivoglio: in particolare, Giovanni II Bentivoglio, che governò Bologna dal 1463 al 1506, contribuì a rinnovare in senso rinascimentale il clima artistico e culturale della città, attorniandosi di filosofi, poeti e artisti, ma soprattutto intellettuali attratti dalla possibilità di studiare e lavorare all’Università più antica d’Europa. In questo clima di notevole vivacità culturale e artistica, emerse la figura di Francesco Raibolini detto Francesco Francia (Bologna, 1450 - 1517): dopo i ripetuti contatti con la scuola ferrarese che influenzarono le sue prime opere (Adorazione del Bambino, 1498-1499, Bologna, Pinacoteca Nazionale), Francesco Francia conobbe l’opera del Perugino, che soggiornò a Bologna, e mutò radicalmente il suo stile in favore di una delicatezza e di un lirismo che ricordavano il grande Rinascimento umbro (Madonna con Bambino tra i santi Francesco e Caterina d’Alessandria, 1504 circa, Vienna, Kunsthistorisches Museum).
La tua lettura settimanale su tutto il mondo dell'arte
ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER