Agli inizi del Cinquecento, Roma e lo Stato Pontificio raggiunsero la loro apoteosi sia come ago della bilancia negli interessi politici dell’Italia, sia come centro di produzione artistica, perché a Roma giunsero molti dei più grandi artisti che operavano agli inizi del XVI secolo. Questo ruolo di Roma ottenne un notevole impulso sotto il pontificato di Giuliano della Rovere che, eletto al soglio di Pietro con il nome di Giulio II nel 1503 dopo il brevissimo pontificato (meno di un mese) di Pio III, volle affermare con decisione, oltre che il ruolo spirituale della Chiesa, anche quello temporale: fu infatti promotore di una lega di Stati che potessero contrastare l’espansionismo veneziano (Roma e Venezia furono acerrime nemiche per tutto il Cinquecento), salvo poi accordarsi con Venezia per muovere guerra contro Ferrara, alleata dei francesi che costituivano uno dei maggiori rischi per la stabilità degli Stati italiani.
Sono questi i presupposti che spiegano perché Giulio II fosse uno dei più grandi mecenati del tempo: l’arte per Giulio II rivestiva un ruolo ideologico in quanto le opere da lui commissionate si dotavano di programmi iconografici che volevano trasmettere valori simbolici (per esempio il suo monumento funebre, commissionato a Michelangelo, doveva rappresentare il ruolo del papa come guida del cristianesimo), e perché l’arte era per lui un mezzo per dimostrare al mondo la potenza della sua Roma. Giulio II riordinò anche l’aspetto urbanistico di Roma secondo i canoni dell’architettura rinascimentale e incaricò gli artisti di ideare progetti per la ricostruzione della Basilica di San Pietro che sarebbe dovuta diventare il più grande tempio della cristianità. L’intento ideologico di Giulio II era, infatti, giustificare il potere temporale dello Stato Pontificio su basi spirituali.
Il primo artista chiamato a Roma da Giulio II fu Michelangelo Buonarroti (Caprese, 1475 - Roma, 1564): il suo primo incarico fu quello di progettare il monumento funebre del pontefice. Questo importante monumento rivisitò il tradizionale tipo del monumento funerario in un’ottica di maggiore monumentalità, con uno schema del tutto innovativo e sconosciuto all’arte contemporanea, ma soprattutto prevedeva una commistione di elementi cristiani e pagani che rendeva esplicita una tendenza dell’arte del tempo, secondo le intenzioni dei papi, ovvero quella di connotare di un significato cristiano elementi tipici dell’antichità classica: già Alessandro VI infatti aveva utilizzato elementi tratti dal repertorio pagano (nel suo Appartamento Borgia affrescato dal Pinturicchio) piegandoli alle esigenze della spiritualità cristiana e investendoli così di un nuovo significato. Le statue che fanno (e che dovevano far parte) dell’opera sono tutte pressoché contraddistinte dal non finito michelangiolesco e rivelano quella tensione e quella drammaticità che indicano ancora una volta la filosofia alla base dell’opera di Michelangelo, quella della lotta dell’uomo per raggiungere la propria meta.
La rivisitazione dei canoni fondanti del primo Rinascimento tocca il suo apice negli affreschi che decorano la volta della Cappella Sistina: la prospettiva lineare del Rinascimento viene del tutto abbandonata, e al suo posto Michelangelo mette in primo piano, da scultore, la figura del singolo personaggio, contraddistinta da tratti fortemente energici e vigorosi che sono appunto tipici dell’opera di uno scultore, oltre alla carica di tensione che contraddistingueva le sue realizzazioni precedenti. Questa incredibile e potente commistione di elementi classici e cristiani, trattati col suo impeto drammatico, sconvolse i contemporanei in senso positivo: l’opera ricevette unanime approvazione, anche da parte del rivale Raffaello Sanzio (Urbino, 1483 - Roma, 1520).
Raffaello, arrivato a Roma nel 1508, ricevette da Giulio II l’incarico di decorare ad affresco tutti gli appartamenti del pontefice: si trattava della prima grande committenza pubblica del giovane urbinate, all’epoca appena venticinquenne. Raffaello dà prova di padroneggiare uno dei principî-cardine del Rinascimento maturo, la monumentalità, qui volta a rappresentare, in modo solenne e ufficiale, la grandezza della chiesa. Per questo attinse a piene mani dal repertorio classico come dimostra un affresco come la Scuola di Atene, con l’equilibrata riunione di tutti i maggiori filosofi dell’antichità (che per l’occasione assunsero le sembianze di artisti e intellettuali contemporanei). Il programma iconografico della Stanza della Segnatura (dove si trova la Scuola di Atene) voleva infatti esaltare la cultura umanistica della corte pontificia rappresentando, sulle quattro pareti, le allegorie delle quattro discipline che costituivano, appunto, le basi della cultura umanistica: la teologia, la filosofia, la poesia e la giustizia, che a loro volta diventavano simbolo di quattro diverse qualità riprese dalla filosofia neoplatonica, vale a dire il vero razionale (filosofia), la verità divina (teologia), il bello (la poesia) e il buono (la giustizia). Con Raffaello le volontà ideologiche di Giulio II arrivano al loro definitivo compimento.
A partire però dalla seconda delle Stanze Vaticane assegnate a Raffaello, il giovane urbinate dimostra di abbandonare in parte la grazia che fino a quel momento aveva contraddistinto la sua produzione per andare incontro a rappresentazioni più drammatiche, e che accogliessero anche il plasticismo michelangiolesco. Questa tensione è alla base della Stanza di Eliodoro, dove l’arte raffaellesca inizia ad accantonare la bellezza ideale e quasi astratta che l’aveva contraddistinta per abbracciare invece uno stile che potesse maggiormente provocare il coinvolgimento emotivo dell’osservatore. Ritroviamo tali tendenze nella Stanza dell’Incendio di Borgo (realizzata sotto il pontificato del nuovo papa, Leone X, al secolo Giovanni de’ Medici): qui anche Raffaello, così come Leonardo e Michelangelo, arriva all’abbandono della prospettiva lineare. Questo nuovo stile fatto di riflessioni sul plasticismo michelangiolesco, coinvolgimento emotivo e rifiuto dell’ordine troverà la sua massima espressione nella Trasfigurazione (1518-1520, Roma, Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana), ultimo capolavoro di Raffaello, contraddistinto da una drammaticità che anticipa molti degli esiti dell’arte successiva.
La Trasfigurazione fu realizzata da Raffaello in aperta gara con Sebastiano Luciani, detto Sebastiano del Piombo (Venezia, 1485 - Roma, 1547), il terzo protagonista del Rinascimento maturo a Roma, che fu amico di Michelangelo e rivale di Raffaello. Nel 1517 infatti il cardinale Giulio de’ Medici (futuro papa Clemente VII) commissionò due lavori ai due artisti per la cattedrale di Narbonne in Francia, città di cui era vescovo: Raffaello realizzò la Trasfigurazione, mentre Sebastiano del Piombo la Resurrezione di Lazzaro (1517-1519, Londra, National Gallery), e i lavori durarono a lungo perché nessuno dei due rivali voleva terminare per primo. Quella che Sebastiano realizzò fu una concitata scena che riecheggiava precedenti michelangioleschi, visibili, oltre che nella carica drammatica, anche nei colori vivaci e nel plasticismo di diverse figure.
Già a Venezia (Sebastiano del Piombo era infatti originario di Venezia), il pittore aveva rivisitato la tradizione artistica locale fondendo la predilezione per il colore tipicamente veneziana a una ricerca di grandiosità e di monumentalità. Però alla fine (data anche la concorrenza con Tiziano, una lotta che era già persa in partenza) l’artista dovette spostarsi a Roma, dove un’arte come la sua poteva trovare un maggior apprezzamento da parte dei committenti. Sebastiano del Piombo fu infatti tra i pochi artisti che riuscirono a conciliare le atmosfere veneziane con un’arte di ascendenza toscana che nella fattispecie, non poteva che guardare a Michelangelo, data la naturale predisposizione di Sebastiano del Piombo per opere monumentali e data l’amicizia che lo legava al grande artista di Caprese (Morte di Adone, 1512 circa, Firenze, Uffizi). Sebastiano del Piombo utilizzò anche le atmosfere veneziane per infondere un senso di maggior religiosità alle sue opere (i paesaggi infatti accentuavano questo senso: è il caso, per esempio, della
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