La crisi di valori del primo Rinascimento portò, nei primi anni del Cinquecento, allo sviluppo di quel periodo noto come Rinascimento maturo: periodo in cui i valori fondanti del Rinascimento (il rigore prospettico, l’indagine della realtà fondata su canoni astratti, l’armonia e l’equilibrio) vengono messi in seria discussione attraverso continue rivisitazioni e sperimentazioni.
Questa opera di rinnovamento partì, ancora una volta, da Firenze e si irradiò poi nei principali centri della penisola, soprattutto a Roma e a Milano. Firenze ebbe ancora una volta il ruolo di guida perché agli inizi del Cinquecento, ancora in epoca repubblicana, vide la fortunata e contemporanea presenza dei tre grandi geni del Rinascimento maturo: Leonardo da Vinci (Vinci, 1452 - Amboise, 1519), Michelangelo Buonarroti (Caprese, 1475 - Roma, 1564) e Raffaello Sanzio (Urbino, 1483 - Roma, 1520).
Rispetto a Michelangelo e Raffaello, Leonardo apparteneva a una generazione di poco precedente, ma già nella Firenze di Lorenzo il Magnifico, quando studiava presso la bottega del Verrocchio, era mosso dal suo proverbiale spirito indagatore: fu proprio il suo diverso modo di intendere lo studio della realtà uno dei massimi contributi portati da Leonardo al Rinascimento maturo. Se infatti i pittori del primo Rinascimento si avvicinavano allo studio della realtà sulla base di leggi astratte e matematiche, Leonardo sovvertì questo approccio fondando il suo studio sull’osservazione diretta della natura. Per Leonardo l’arte era anche uno strumento per conoscere a fondo la realtà: la sua prima opera nota è infatti un Paesaggio (un disegno conservato presso il Gabinetto dei disegni e delle stampe degli Uffizi a Firenze) dove Leonardo indaga in modo molto concreto uno scorcio della val d’Arno.
Questa volontà indagatrice portò Leonardo anche a una profonda revisione della prospettiva lineare, ritenuta insufficiente per rappresentare la tridimensionalità in pittura. L’artista elaborò quindi la prospettiva aerea basandosi sull’intuizione che l’aria che si frappone tra l’occhio dell’osservatore e l’oggetto, alterandone la nitidezza e la percezione cromatica, può dare un’idea della lontananza di quest’ultimo dall’osservatore. Per questo Leonardo arriva a elaborare una prospettiva fondata su questo concetto: nei suoi dipinti, i soggetti in lontananza perdono chiarezza nella definizione delle loro forme e diminuiscono i loro contrasti cromatici (Annunciazione, 1472-1475 circa, Firenze, Uffizi). E ancora, questa indagine della realtà portò Leonardo a mettere a punto la tecnica dello sfumato: partendo dall’idea che i corpi nello spazio non hanno forme nette (come poteva apparire nelle opere del Quattrocento fiorentino, dove le figure erano messe in evidenza dal contorno), Leonardo elaborò un finissimo chiaroscuro, fatto di gradazioni di colore molto sottili, che arrivavano a far sì che la figura del personaggio si fondesse con lo spazio che la circondava (La Belle Ferronière, 1490-1495 circa, Parigi, Louvre). Non che Leonardo disprezzasse le conquiste del primo Rinascimento: tuttavia riteneva che, affinché il pittore potesse dirsi veramente universale, oltre a studiare con occhio matematico la realtà (la scienza era infatti ancora una solida base su cui l’arte doveva trovare fondamento), dovesse anche osservarla e sperimentarla per trarre il maggior numero possibile di informazioni e suggestioni dai fenomeni naturali. L’arte con Leonardo diventava quindi uno strumento di conoscenza.
Anche Michelangelo mosse i suoi primi passi nella Firenze laurenziana, e agli inizi del Cinquecento arrivò allo scontro diretto con Leonardo quando i due pittori furono incaricati, da parte della Repubblica fiorentina, di realizzare due affreschi per il Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio: la Battaglia di Cascina per Michelangelo e la Battaglia di Anghiari per Leonardo. Michelangelo però non era interessato, come Leonardo, allo studio della natura. Fin dall’inizio Michelangelo fu influenzato dalla filosofia neoplatonica che si era sviluppata nella cerchia della Firenze medicea: anche per lui la perfezione del corpo umano rappresentava, come per i neoplatonici, la manifestazione del divino sulla terra. Il neoplatonismo michelangiolesco è però rivisitato secondo la crisi di valori del primo Rinascimento: l’uomo è visto come in perenne lotta per raggiungere una meta, un obiettivo verso cui deve tendere la vita umana. Si spiega in questo modo la concezione dell’arte di Michelangelo, che fu principalmente uno scultore: la creazione dell’opera d’arte è in realtà una lotta durante la quale l’artista cerca di estrarre l’opera d’arte, che secondo Michelangelo già esiste nella materia. È anche per questo motivo che Michelangelo guardava, più che ai contemporanei, ad artisti come Giotto, Masaccio e Donatello, perché erano quelli che più, secondo il suo punto di vista, avevano posto l’uomo al centro della loro riflessione.
Proprio per questi motivi, spesso le opere di Michelangelo sono caratterizzate da una tensione e da un virtuosismo che erano sconosciuti all’arte del Quattrocento, tali da portare l’artista a una revisione dell’equilibrio del Rinascimento: se prima l’equilibrio di una composizione era dato dall’armonia (spesso geometrica) degli elementi, in Michelangelo l’equilibrio è dato dalla somma delle tensioni dinamiche dei varî elementi. Inoltre, Michelangelo porta a compimento quella revisione del classicismo che fu anticipata da Donatello ma che non trovò riscontri altrettanto alti nel corso del Quattrocento. Per molti artisti del primo Rinascimento infatti la riscoperta dell’antichità classica tornò a limitarsi a un recupero di forme, mentre per Michelangelo, oltre alle forme, anche i significati e i valori dovevano connotare l’opera d’arte. Si spiega così la nascita di un capolavoro come il David (1501-1504, Firenze, Galleria dell’Accademia), monumento pregno di forme e valori classici, malgrado il soggetto tratto dall’Antico Testamento. A livello di forme, Michelangelo si ispira a pose classiche ma le rivisita in modo profondamente moderno: il David è connotato da una incredibile tensione, data dal fatto che è realizzato nel momento precedente al lancio della pietra. A livello di contenuti, il David è simbolo di quegli ideali, tipicamente classici e già filtrati dall’umanesimo, di forza fisica e insieme di virtù morale, indispensabili per difendere la Repubblica (Michelangelo fu peraltro un convinto repubblicano) in un’epoca dominata dai valori che contraddistinguevano invece il mondo delle corti rinascimentali.
Completamente diversa fu l’arte di Raffaello, apparentemente immune dai gravi tormenti interiori che laceravano l’animo di Michelangelo. Raffaello aveva un carattere completamente opposto: quanto era inquieto e turbato il primo, tanto era solare il secondo. Raffaello rivisitò la spazialità dell’arte rinascimentale portandola a una estrema semplificazione che si traduceva in forme molto armoniose e aggraziate (Madonna del cardellino, 1506, Firenze, Uffizi), tanto da far meritare a Raffaello l’epiteto di divino. L’arte di Raffaello prese le mosse dagli artisti a cui si ispirò e seppe fondere in modo armonioso tutte queste suggestioni. Dal maestro Perugino, Raffaello riprese il lirismo. Da Leonardo ricavò la lezione sui moti dell’animo. Da Michelangelo riprese, in certe sue opere, il solidissimo e scultoreo plasticismo. In Raffaello le suggestioni sono sempre molto evidenti, ma l’insieme di queste suggestioni riesce a fondersi nella sua arte in modo molto omogeneo per dare luogo a una cifra stilistica unica, fatta di grazia e classicismo, un classicismo che trovava la sua massima espressione nella raffigurazione del bello ideale di cui Raffaello fu, assieme a Michelangelo, il massimo interprete in questa fase del Rinascimento.
Inoltre, dei tre artisti, Raffaello fu l’unico che non rifiutò la prospettiva lineare del primo Rinascimento (almeno per gran parte della sua carriera artistica). E ancora Raffaello diede prova di essere anche un ottimo indagatore della realtà oggettiva come appare da diversi suoi ritratti (Ritratto di Agnolo Doni, 1506 circa, Firenze, Palazzo Pitti). Ma la sua arte manca della tensione drammatica che contraddistingueva la lezione michelangiolesca proprio in virtù della differente concezione dell’arte secondo i due artisti. Come si è detto, l’opera d’arte (e quindi la bellezza ideale) in Michelangelo è nella materia e compito dell’artista è quello di portare il bello alla luce. Per Raffaello invece il bello ideale è una ricerca di grazia, armonia, delicatezza, facilità d’esecuzione.
Tutti i tre artisti lasciarono Firenze prima del ritorno dei Medici, chi prima e chi dopo: Michelangelo andò a Roma nel 1505 (ma tornò successivamente a Firenze all’epoca di papa Leone X de’ Medici), e a Roma lo raggiunse Raffaello nel 1509. Proprio a Roma Raffaello si stabilì definitivamente (e si accese la rivalità tra i due artisti). Leonardo invece partì da Firenze nel 1508 per fare ritorno a Milano, dove già aveva soggiornato negli anni Novanta del Quattrocento, all’epoca del governo di Ludovico il Moro. Da Milano, dopo qualche tempo, avrebbe poi raggiunto la Francia.
Accanto alle figure dei tre artisti principali, emersero poi a Firenze delle figure che potremmo definire di transizione tra il primo Rinascimento e il Rinascimento maturo. Queste figure furono quelle di Baccio della Porta, in seguito fra’ Bartolomeo (Firenze, 1473 - 1517), Andrea del Sarto (Firenze, 1486 – 1530) e Giovanfrancesco Rustici (Firenze, 1475 - Tours, 1554). Fra’ Bartolomeo si formò nel solco della tradizione, guardando ad artisti come Lorenzo di Credi, il Perugino e il Ghirlandaio, ma presto la lezione del Rinascimento maturo arrivò nella sua arte, che si arricchì da un lato della grazia raffaellesca, di cui fra’ Bartolomeo fu all’epoca uno dei maggiori interpreti, e dall’altro del plasticismo michelangiolesco che fra’ Bartolomeo rivisitò per garantire una monumentalità ai suoi dipinti che mai si era vista a Firenze prima di allora (San Marco, 1515, Firenze, Palazzo Pitti). Inoltre, fra’ Bartolomeo riprese da Raffaello modelli e schemi che si tradussero, nelle sue opere, in una semplificazione della spazialità (Matrimonio mistico di santa Caterina, 1511, Parigi, Louvre). Fra’ Bartolomeo seppe far evolvere continuamente la sua arte, per arrivare a un raffinatissimo classicismo che lo pone come uno dei maggiori interpreti del Rinascimento maturo.
Diverso fu l’approccio di Andrea del Sarto, che ebbe l’ascendente raffaellesco in comune con fra’ Bartolomeo, ma evitò la forte monumentalità di origine michelangiolesca che contraddistinse parte della produzione di fra’ Bartolomeo per orientarsi invece verso le ricerche di Leonardo da Vinci: questo garantì risultati di maggior naturalezza nelle sue opere pittoriche, che si tradussero soprattutto in una luminosità naturalistica che ricordava quella di Leonardo (Assunzione della Vergine, 1526, Firenze, Palazzo Pitti). Giovanfrancesco Rustici fu invece il primo grande interprete in scultura delle novità leonardesche e michelangiolesche. Spesso ingiustamente dimenticato da gran parte della storiografia, Giovanfrancesco Rustici era coetaneo di Michelangelo e come quest’ultimo fu allievo di Bertoldo di Giovanni, ma anche del Verrocchio, di cui riprese il naturalismo. Rustici rimase estremamente affascinato dalla Battaglia di Anghiari di Leonardo: l’indagine dei moti dell’animo e lo scardinamento dell’armonia rinascimentale entrarono quindi in alcune delle sue realizzazioni, che riecheggiavano il disegno leonardesco (Zuffa, 1505; Firenze, Museo del Bargello). Ma la riflessione sui moti dell’animo contraddistinse anche quello che forse è il più grande capolavoro di Rustici, la Predica del Battista (1506-1511, Firenze, Museo del Duomo) in cui la figura principale, quella di Giovanni Battista, si ispirava, nelle pose, nei gesti e negli sguardi, direttamente a Leonardo. Per Rustici fu poi importante anche il confronto con Michelangelo, il cui plasticismo fu rivisitato da Giovanfrancesco Rustici in chiave più raffinata e delicata.
Infine, isolata in questo contesto, ma del tutto originale, fu l’eccentrica figura di Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma (Vercelli, 1477 - Siena, 1549). Si formò nella sua terra d’origine, il Piemonte, assieme a Giovanni Martino Spanzotti, di cui fu allievo. Riuscì però a intuire quanto fosse già superato il suo linguaggio quando, nel 1498, si trasferì a Milano dove già aveva attecchito il linguaggio leonardesco. il Sodoma, giunto poi in Toscana, dove si stabilì definitivamente scegliendo Siena come sua città d’adozione (e a lui spetta il merito di aver riportare in auge la scuola locale), elaborò il suo personale e originalissimo stile fatto di figure energiche (derivanti dall’arte di Signorelli) ma notevolmente addolcite dalla conoscenza dell’arte di Raffaello e del Perugino, il tutto con un gusto decorativo pinturicchiesco, un non trascurabile amore per la stravaganza e una naturale predisposizione verso l’indagine naturalistica appresa a contatto con l’ambiente lombardo e con la pittura di Leonardo da Vinci. Caratteristiche che ben si riassumono in un’opera come il San Sebastiano del 1525 (Firenze, Uffizi).
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