L’arte del neoclassicismo sorse principalmente come reazione contro il virtuosismo e la retorica del gusto tardobarocco ma anche contro le frivolezze del rococò: la reazione quindi non era soltanto estetica, ma anche morale. Punto di partenza di questo tipo di arte era la volontà di cercare un nuovo classicismo (da qui il nome) che potesse ancora recuperare l’arte antica, per una ricerca di rigore e oggettività che era in linea con la filosofia illuminista e che prendeva le distanze dall’arte contemporanea. Ciò che differenzia il neoclassicismo dai classicismi che lo precedettero, è soprattutto lo spirito che animò le ricerche dei neoclassici: se in passato il recupero del classicismo era anche un recuperi di valori, nel tardo Settecento gli artisti diventarono consapevoli che quella civiltà antica che volevano recuperare non sarebbe mai più tornata, e di conseguenza l’arte neoclassica si tinse di quel senso di nostalgia che pervade tutte le opere realizzate in quest’epoca. L’arte neoclassica tuttavia rispondeva anche a una precisa visione illuministica dell’arte, in base alla quale le opere d’arte dovevano farsi portatrici di intenti etici.
Il neoclassicismo inoltre si distingueva dalle forme d’arte contemporanee perché la ricerca del bello ideale, che doveva trarre ispirazione sia dall’arte romana che dall’arte greca antica, doveva spogliarsi da ogni sorta di dramma, di sentimento e di passione umana: per questo, le opere neoclassiche appaiono sempre composte e pacate anche laddove si consuma una scena altamente drammatica o dolorosa. Il canone neoclassico del bello ideale fu reso esplicito da quello che probabilmente fu il maggior teorico dell’arte neoclassica, il tedesco Johann Joachim Winckelmann, secondo cui il bello ideale era riassumibile nella formula nobile semplicità e quieta grandezza (leggi qui un approfondimento sulle basi del neoclassicismo secondo Winckelmann): la “nobiltà” si riferiva alle forme eleganti dell’arte classica, “semplicità” in quanto dovevano essere ben lontane da virtuosismi bizzarri e stravaganti, mentre la “quieta grandezza” è quella dell’uomo classico (e quindi neoclassico) capace di controllare, in modo razionale, le proprie pulsioni. Il bello ideale era quindi ricerca razionale che doveva mirare a forme semplici ma contraddistinte da una grazia che si traduceva in un equilibrio e una compostezza quasi idealizzati.
A livello etico, il neoclassicismo riproponeva il concetto, tipicamente classico, di unione tra bellezza e virtù, in aperta polemica contro le bizzarrie dell’arte barocca, vista come eccessivamente virtuosistica e stravagante e pertanto lontana dalla razionalità, soprattutto nelle realizzazioni illusionistiche dei più grandi pittori del barocco. Il neoclassicismo era anche contro le licenziosità dell’arte rococò, di cui criticava la frivolezza e soprattutto il disimpegno. L’arte neoclassica tuttavia non fu ovunque uniforme in quanto fu un linguaggio internazionale che trovò declinazioni diverse a seconda del paese in cui l’arte veniva prodotta (quindi diverse esigenze morali e sociali) e anche dell’inclinazione personale dell’artista.
Il maggior esponente del neoclassicismo in Italia, nel campo della scultura, fu senza dubbio Antonio Canova (Possagno, 1757 - Venezia, 1822), l’artista in cui la ricerca di bello ideale teorizzata da Johann Joachim Winckelmann trovò la sua massima espressione e si esplicitò in un assoluto equilibrio tra idealizzazione e forme naturali. Però, malgrado la ricerca del bello ideale avesse trovato in Canova uno dei suoi maggiori interpreti, l’arte canoviana non era contraddistinta da un profondo impegno politico come quella di molti suoi contemporanei (soprattutto francesi). Infatti lo stesso Canova riteneva che l’arte dovesse superare la tendenza a piegarsi alla politica contemporanea e farsi, invece, portatrice di valori più universali (come la lotta della ragione sulla forza, rappresentata da una scultura giovanile dell’artista veneto, Teseo sul Minotauro, 1781-1783, Londra, Victoria and Albert Museum). Grazie anche a questo suo mantenersi al di sopra delle parti, Canova riuscì a garantirsi committenze provenienti da ambiti politici anche contrastanti tra di loro.
L’arte di Canova si rifece al repertorio classico che l’artista seppe rivisitare con la propria sensibilità alla ricerca di una astrazione che divenne evidente soprattutto nelle scene che dovevano presupporre movimento o concitazione, come le Ercole e Lica (1795-1815, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna) dove le espressioni dei personaggi rimangono imperturbabili e sembra di assistere più a una danza che a una lotta, benché la forza con cui Ercole scaraventa l’avversario allontana l’artista dal neoclassicismo più rigoroso. Canova inoltre raggiungeva la purezza ideale che voleva trasmettere ai propri soggetti anche con una particolare lavorazione del marmo che conferiva una levigatezza rimasta insuperata, grazie alla quale l’artista poteva realizzare opere contraddistinte da una elevata raffinatezza e una grande morbidezza.
La natura sensoriale tuttavia non è del tutto assente dall’arte di Canova: la si può ravvisare soprattutto nelle sue opere a soggetto femminile, a cui Canova infonde una leggiadria, soprattutto nei movimenti, e una bellezza pura non priva di un certo grado di sensualità che si evince soprattutto dalle pose, pose in cui comunque non manca quella ricerca di armonia ed equilibrio tipica del neoclassicismo. Questo filone dell’arte canoviana è evidente soprattutto in uno dei massimi capolavori, ovvero Amore e Psiche giacenti (1788-1793, Parigi, Louvre), opera nella quale Canova suggerisce la sensualità dell’amplesso attraverso l’abbraccio dei due protagonisti, che diventa simbolo della loro unione, pur senza dimenticare una ricerca di equilibrio neoclassico in quanto il movimento dei due amanti costruito secondo un preciso schema di linee diagonali.
Per trovare un interprete più astratto e rigidamente formale del neoclassicismo bisogna osservare le opere di Bertel Thorvaldsen (Copenaghen, 1770 - 1844), artista danese a lungo attivo in Italia e ritenuto all’epoca l’unico scultore al mondo a poter competere con Canova. Il recupero dell’arte classica da parte di Thorvaldsen fu infatti molto più radicale: le forme dei suoi soggetti si fecero più pure (basti confrontare i nudi femminili di Thorvaldsen con quelli di Canova), e i sentimenti del tutto sopiti. Al contrario di ciò che succedeva nell’arte canoviana, in Thorvaldsen manca del tutto il movimento, che in Canova esprimeva la volontà di conferire alle sue bellezze idealizzate un contatto con la natura, il cui studio non era stato accantonato dallo scultore veneto. La scultura di Thorvaldsen, che prendeva ispirazione direttamente dai canoni dell’arte greca antica, fu quella che forse più di ogni altra si fece interprete di quella volontà di rigore e astrazione formale auspicata dai teorici del neoclassicismo (Giasone con il vello d’oro, 1803, Copenaghen, Thorvaldsens Museum): ciò nondimeno appare di gran lunga più fredda rispetto a quella di Canova.
Canova ebbe un vasto stuolo di seguaci, ma i due scultori che meglio interpretarono il neoclassicismo dopo di lui, seppur non raggiungendone il livello tecnico e formale, furono Carlo Finelli (Carrara, 1782 - Roma, 1853) e Adamo Tadolini (Bologna, 1788 - Roma, 1868). Adamo Tadolini si dimostrò un fedele continuatore dello stile canoviano, che trovò i suoi massimi risultati in monumenti celebrativi o comunque di ampio respiro. Carlo Finelli, che nel primo Ottocento diventò uno dei più importanti e richiesti scultori di Roma, propose un’arte molto elegante e raffinata che però riusciva a raggiungere una maggior astrazione rispetto a quella di Canova: in effetti in molte opere ne temperò la sensualità e ne diminuì la carica dinamica (Le Ore danzanti, 1824, San Pietroburgo, Hermitage), pur senza raggiungere i rigidi formalismi di Thorvaldsen.
La cultura neoclassica si diffuse anche nella pittura, dove gli intenti politici del neoclassicismo si fecero molto più evidenti che in scultura. Mancando però riferimenti diretti all’arte antica, i pittori neoclassici non potevano che rifarsi ai grandi geni del Rinascimento maturo, come Raffaello o Michelangelo, oppure ai classicisti del Seicento. Maggiori esponenti della pittura neoclassica furono Andrea Appiani (Milano, 1754 - 1817) e Vincenzo Camuccini (Roma, 1771 - 1844).
Andrea Appiani fu uno dei pittori favoriti di Napoleone Bonaparte, ed ebbe notevoli e numerosi incarichi ufficiali. Formatosi studiando i pittori leonardeschi e l’arte di Correggio, Appiani si impegnò soprattutto nella celebrazione dell’imperatore Napoleone che raffigurò in ritratti dal sapore fortemente idealizzato in cui ne esaltava le virtù, fino ad apoteosi che richiamavano la pittura classicista del Seicento, ma anche in ritratti, anch’essi idealizzati, in cui la forza di Napoleone traspariva soprattutto dall’intenso sguardo che Appiani gli conferiva. Capace di composizioni di grande solennità, Andrea Appiani seppe però adottare un registro più delicato in dipinti come il Parnaso (1811, Milano, Villa Belgioioso Bonaparte) ricchi di riferimenti alla cultura raffaellesca.
Diverso fu l’impegno di Vincenzo Camuccini, che non fu minimamente intaccato dal culto di Napoleone e preferì invece dipingere scene di soggetto storico, tratte perlopiù dall’antichità classica (Morte di Giulio Cesare, 1798, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte): le scene, concitate ma equilibrate e con sentimenti sempre espressi in maniera sobria e composta come volevano i teorici del neoclassicismo, si fecero portatrici di elevati valori morali di una valenza universale, rendendo tangibile il suo impegno civile. Per il pittore romano, l’arte doveva avere un preciso intento educativo: per questo manca del tutto nelle sue opere il gusto per l’aneddoto. A questo Camuccini, invece, sostituisce la volontà di una narrazione che da un lato racconti l’evento senza forzature e nel modo più oggettivo possibile, e dall’altro riesca a comunicare all’osservatore le virtù morali (libertà, equità, giustizia, onestà) espresse dall’evento stesso.
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