Nella Roma della Controriforma le più illustri famiglie della nobiltà romana, come i Borghese, gli Aldobrandini, i Ludovisi, i Barberini e altre (famiglie dalle quali provenivano anche papi e alti esponenti del clero), avevano iniziato a maturare, in privato, un notevole interesse per l’antichità classica. Molti avevano cominciato anche ad allestire collezioni di reperti archeologici: in particolare i Farnese crearono una ricchissima collezione di statue antiche. Per ospitarle, fecero costruire un’apposita Galleria nel loro palazzo romano (Palazzo Farnese) e affidarono al pittore bolognese Annibale Carracci (Bologna, 1560 - Roma, 1609) l’incarico di decorarla ad affresco. Fu questa la committenza che sancì di fatto la nascita del classicismo seicentesco e che iniziò a delineare i dettami del gusto classicista che avrebbe dominato tutto il Seicento romano e che avrebbe conosciuto, oltre a Roma, un altro importantissimo centro di diffusione, ovvero Bologna, da dove provennero pressoché tutti gli artisti classicisti delle prime generazioni.
Annibale Carracci, assieme al fratello Agostino e al cugino Ludovico, affermò la necessità di un’arte che aderisse al vero, e cercò di applicare questo pensiero anche all’arte con soggetto classico. Ne è un esempio la stessa Galleria di Palazzo Farnese (decorata tra il 1597 e il 1600), dove le scene mitologiche vengono trattate con una libertà compositiva e una spontaneità che porta quasi a far perdere la concezione dello spazio e a far assomigliare la scansione ritmica della scena a quella di un fregio antico, a scapito quindi degli intenti narrativi. Pertanto, il classicismo carraccesco toni magniloquenti particolarmente adatti alle esigenze dei committenti. I personaggi inoltre non mancavano di una certa dose di naturalismo, in linea con la poetica dei Carracci.
Parallelamente, Annibale Carracci arrivò a una rivisitazione della pittura di paesaggio destinata a influenzare questo genere di pittura per tutto il Seicento (artisti come Nicolas Poussin e Claude Lorrain si rifecero apertamente ai modelli del pittore bolognese): il paesaggio infatti non è più la descrizione di un luogo preciso ma la descrizione di un luogo ideale dove trovare la bellezza, canone fondante della poetica classicista. Tuttavia questa ricerca da parte di Annibale Carracci della bellezza ideale nella natura (una ricerca che costituiva una forte innovazione poiché nessuno prima di allora cercato il bello ideale nella natura) non contrastava con la sua poetica naturalista: infatti, per Annibale Carracci, il bello ideale rappresentava, si potrebbe dire, lo stadio di perfezione del bello naturale, ovvero quello visibile agli occhi. Una concezione, questa, che sarebbe poi stata teorizzata qualche decennio più tardi da Giovan Pietro Bellori. E quella di Carracci era, peraltro, una natura dove l’uomo è sempre presente, in quanto anch’egli partecipe del mondo della natura.
Il più importante esponente del classicismo, nel primo Seicento, fu Guido Reni (Bologna, 1575 - 1642), che fu anche il primo ad accogliere le istanze del classicismo carraccesco. Guido Reni fu, tra gli artisti del Seicento, quello in cui il culto del bello ideale probabilmente toccò il suo apice, e portò il pittore a ispirarsi all’arte di Raffaello Sanzio, che nessun artista del Seicento probabilmente studiò quanto lui. Nel dipingere i suoi personaggi, specie se nudi (nudi che trovavano ampio spazio nelle scene mitologiche), l’artista bolognese aspirava a conferire ai loro corpi la massima perfezione possibile (Sansone vittorioso, 1611-1612, Bologna, Pinacoteca Nazionale). Nell’ultima fase della sua carriera le figure si fanno eteree e quasi metafisiche, tanto erano idealizzate. Questa volontà di perfezione ideale era sottolineata da una pittura estremamente limpida e cristallina.
Anche Guido Reni, tuttavia, non fu immune dal problema tipicamente seicentesco della scelta tra Idea e Natura, un problema sorto comunque dalla stessa base che trovava fondamento sulla volontà di reagire al Manierismo. La reazione non poteva che condursi nei due modi contrari all’estro virtuoso manierista, ovvero cercando la perfezione ideale oppure l’aderenza al vero. Il problema, nella pittura reniana, si poneva soprattutto laddove il pittore si trovava a dover dipingere scene in cui si svolgeva un’azione cruenta o, comunque, concitata. Tipico esempio del modo in cui Guido Reni risolse il problema è la Strage degli Innocenti conservata alla Pinacoteca Nazionale di Bologna (1611), un’opera che rivela la profonda riflessione dell’artista sulla pittura di Raffaello. Come in Raffaello infatti l’artista apporta una estrema semplificazione dello schema, con il movimento e la concitazione della scena che assumono una disposizione geometrica (in particolare qui a forma di triangolo rovesciato) e con il sentimento di dolore espresso in toni molto composti e pacati.
Diverso fu invece l’approccio al classicismo di Domenico Zampieri detto il Domenichino (Bologna, 1581 - Napoli, 1641), che partì dalle stesse basi di Guido Reni: studio dell’arte antica e dei grandi maestri, su tutti ancora Raffaello, e volontà di ricerca del bello ideale. Il Domenichino si rivelò però più attento alla lezione carraccesca: più spontaneo di Guido Reni, realizzò figure più umanizzate rispetto a quelle del suo concittadino, e figure in cui la ricerca dello stato d’animo dei personaggi si faceva più viva (Rimprovero di Adamo ed Eva, 1623 circa, Grenoble, Musée des Beaux-Arts). Uno stato d’animo che però, più che dalle espressioni, era comunicato dai gesti dei personaggi: questo espediente rendeva la pittura del Domenichino più teatrale rispetto a quella di Guido Reni (senza ovviamente raggiungere quegli esiti di spettacolarità che sarebbero stati contrari alla ricerca di ordine compositivo fondamentale per la sua idea di arte).
Il Domenichino inoltre praticò molto più di Guido Reni la pittura di paesaggio (Paesaggio con guado, 1604, Roma, Galleria Doria Pamphilj), anche se in questo caso dimostrò un allontanamento dai modi di Annibale Carracci: anche se i suoi erano paesaggi ideali, spesso si arricchivano di elementi completamente realistici che invece erano assenti nei paesaggi carracceschi.
Accanto a questi artisti si inserì Francesco Albani (Bologna, 1578 - 1660), che fu autore di dipinti traboccanti di un raffinatissimo classicismo che assumeva contorni quasi aulici e solenni (La Primavera, 1616-1617, Roma, Galleria Borghese). Una solennità a cui faceva da contraltare però una minor capacità compositiva di quella dei suoi contemporanei, che si traduceva in opere probabilmente meno libere e caratterizzate da schemi più rigidi.
Uno dei primi e più importanti artisti classicisti non bolognesi fu Alessandro Turchi detto l’Orbetto (Verona, 1578 - Roma, 1649), autore di composizioni devote aggiornate sullo stile di Ludovico Carracci ma che guardavano anche al punto di riferimento comune per tutti i pittori classicisti del Seicento, vale a dire Raffaello. Inoltre, in occasione del suo trasferimento a Roma nel 1614 (città dove si stabilì definitivamente), Alessandro Turchi entrò a contatto con le novità dell’arte caravaggesca che, a soli quattro anni dalla scomparsa di Michelangelo Merisi, stava conoscendo una stagione particolarmente fortunata: tuttavia la maniera di Caravaggio non fece molta presa sull’artista veronese, che però si servì del luminismo caravaggesco per creare effetti che arricchivano le sue composizioni classiciste (Resurrezione di Lazzaro, 1616-1617 circa, Roma, Galleria Borghese).
Allievo di Francesco Albani e di Ludovico Carracci fu invece Andrea Sacchi (Nettuno, 1599 - Roma, 1661), che continuava a proporre la sua pittura classicista composta, semplice e fatta di poche figure in un’epoca in cui si era già pienamente affermato il linguaggio barocco (anche se Sacchi dimostrò, in certe sue realizzazioni, di essere in qualche modo contaminato dall’arte barocca).
Singolare fu invece l’iter di un artista come Giovan Francesco Barbieri detto il Guercino (Cento, 1591 - Bologna, 1666), inquadrabile più come un artista di transizione verso la poetica barocca che come un pittore compiutamente classicista. La produzione guercinesca si può dividere, grossolanamente, in tre fasi: una caratterizzata da una produzione di matrice quasi caravaggesca (anche se il Guercino non utilizzò mai la luce per costruire le forme come Caravaggio) e addolcita però dalle esperienze dei Carracci (La Madonna del Passero, 1615-16, Bologna, Pinacoteca Nazionale), una seconda fase caratterizzata dall’elaborazione della cosiddetta macchia guercinesca, ovvero una tecnica (memore di soluzioni venete) secondo cui le forme erano costruite mediante l’accostamento di vere “macchie” di colore giustapposte (Vestizione di san Gugliemo, 1620, Bologna, Pinacoteca Nazionale), e una terza fase più marcatamente classicista (Saul contro Davide, 1646, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica).
Tuttavia, il classicismo del Guercino fu piuttosto lontano rispetto a quello degli artisti che lo precedettero: nel Guercino mancava quella volontà di ricerca del bello ideale (avvertibile però nella sua produzione paesaggistica), ma era invece presente un certo grado di naturalismo nei personaggi (anche nei dipinti più classicisti) e una ricerca di teatralità ottenuta o mediante accorgimenti compositivi (disposizione di elementi nella scena) oppure tramite una certa dose di movimento inserito nelle composizioni. Queste nuove istanze nell’arte di Guercino fecero di lui, come anticipato, un pittore che si distaccò dal classicismo più purista per tendere invece a un modo di dipingere che si avvicinava di più ai dettami dell’arte barocca.
In piena epoca barocca, il classicismo seicentesco fu portato avanti da un artista come Giovanni Battista Salvi detto il Sassoferrato (Sassoferrato, 1609 – Roma, 1685), un allievo del Domenichino che creò opere caratterizzate da un forte senso di devozione. Però la ricerca del bello ideale che aveva distinto i classicisti della generazione precedente era stata ormai svuotata di significato, tanto che Giovanni Battista Salvi non si rifaceva più all’antico ma osservava direttamente (e forse quasi solamente) l’arte di Raffaello. Arrivò così a creare opere piuttosto prive di sentimento, che rasentavano quasi l’imitazione, ma che erano comunque caratterizzate da una grandissima dolcezza e una eccezionale chiarezza tanto da rendere il Sassoferrato uno dei pittori più delicati del Seicento (Madonna in preghiera, 1640-1650 circa, Londra, National Gallery).
Ultimi e più tardi esponenti del classicismo seicentesco furono Carlo Maratta (Camerano, 1625 – Roma, 1713) e Carlo Cignani (Bologna, 1628 – Forlì, 1719). Carlo Maratta lavorò in prevalenza a Roma, acquisendo una fama tale da influenzare lo stile della pittura romana sul finire del secolo. Anche lui guardava ai precedenti carracceschi e raffaelleschi ma non poteva fare a meno di misurarsi con l’arte barocca che stava vivendo il suo apice proprio negli anni in cui iniziava a proporre le sue opere. L’arte del pittore marchigiano dimostrò così un classicismo monumentale con scene caratterizzate da impianti grandiosi e magniloquenti e ricche di elementi tipici della poetica barocca (per esempio le onnipresenti nuvole su cui poggiano i personaggi o gli effetti di luce), tanto che spesso si arriva a etichettare la pittura di Maratta come classicismo barocco (Disputa sull’Immacolata Concezione, 1686, Roma, Santa Maria del Popolo).
Rispetto a Maratta, Carlo Cignani fu invece meno tentato dalle novità barocche e si attenne di più alla lezione dei suoi maestri (fu allievo di Francesco Albani): da questo risultò un classicismo in cui si rinnovava la ricerca di quella idealizzazione che aveva contraddistinto la produzione degli artisti classicisti di inizio secolo. Tuttavia, nelle sue opere ad affresco, Cignani dimostrò apertura nei confronti delle soluzioni illusionistiche largamente adoperate in epoca barocca.
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