Giuseppe Capogrossi, vita, opere e stile dell'artista del segno


Giuseppe Capogrossi è stato uno dei principali artisti informali e la sua arte è legata alla ricerca sul segno. La vita, le opere, lo stile.

Giuseppe Capogrossi (Roma, 1900 – 1972) è stato un pittore che ha segnato la cultura artistica italiana del secondo dopoguerra. La produzione di Capogrossi viene associata alla ricerca sul segno che, in tutta Europa, nasceva in un momento di smarrimento e di riflessione provocato dall’esperienza dei regimi totalitari e dalla catastrofe del conflitto mondiale: di conseguenza, la centralità dell’uomo cominciò ad essere messa in discussione. Una corrente filosofica come quella dell’esistenzialismo mise in evidenza tutti i caratteri di finitezza e precarietà della vita umana. Fu una crisi che, nel panorama delle arti visive, si tradusse nell’introduzione di nuove modalità di lavoro, di un’arte alternativa. Michel Tapié per primo parlò di questa art autre e raggruppò le novità sotto il nome di informale per indicare un’arte che scelse nuovi metodi, nuovi gesti. Questa tendenza si concentrava sulla materia, sul segno e, per questo motivo, in Italia, fu rappresentata, tra le altre, anche dalla produzione di Capogrossi. Questi, insieme ad Alberto Burri, è considerato infatti uno dei massimi esponenti della pittura informale e si colloca fra gli artisti della Scuola Romana.

Il suo personale apporto alle poetiche del segno, del gesto controllato, contribuì a rompere con la tradizione imperante sulla scena artistica italiana, respingendo la rappresentazione del dato oggettivo e reale. L’arte che venne a crearsi, intorno agli anni Cinquanta, consentiva una nuova libertà espressiva.

La ricerca di Capogrossi era costituita dall’esplorazione della forza del colore, basata sulla ripetizione di elementi e segni elementari bidimensionali. In queste trovava “la ragione prima” della sua pittura, lasciando da parte la teoria e il contenuto. Questa indagine lo condusse a partecipare, nel 1950, alla fondazione del Gruppo Origine, insieme ad Alberto Burri, Mario Bellocco ed Ettore Colla. Si trattò di un’esperienza che durò appena un anno, ma fu indicativa del momento che il panorama culturale italiano stava vivendo nel secondo dopoguerra.

Questo assunto si accorda perfettamente alla ricerca artistica di Capogrossi, la cui arte riusciva ad essere fortemente emotiva, pur appoggiandosi alla reiterazione di un semplicissimo simbolo e alla relazione tra i colori. L’artista si schierò quindi tra coloro che, in Italia, professavano l’astrazione dell’arte, in netto contrasto con i fautori del realismo. Eppure, Giuseppe Capogrossi non arrivò da subito a prendere questa posizione: inizialmente, almeno fino al 1949, egli rimase un pittore figurativo, che “muoveva dal paesaggio e dalla figura”, come ebbe a dire Maurizio Fagiolo Dell’Arco nel 1999.

Giuseppe Capogrossi fotografato da Paolo Monti
Giuseppe Capogrossi fotografato da Paolo Monti

Vita di Giuseppe Capogrossi

Giuseppe Capogrossi nacque a Roma il 7 marzo del 1900. Discendeva da una nobile famiglia romana da parte del padre Guglielmo. Venne indirizzato allo studio del diritto, laureandosi nel 1922. Tuttavia, la sua forte vocazione artistica lo portò presto a studiare pittura: tra il 1923 e il 1924 iniziò a frequentare la Scuola di Nudo di Felice Carena, tra le più prestigiose nella Roma di quegli anni. In questo ambiente strinse amicizia con i pittori Fausto Pirandello, Onofrio Martinelli e, soprattutto, con Emanuele Cavalli. Di quest’ultimo legame rimane anche un dipinto del 1927, dove Capogrossi si ritrae a fianco all’amico. I due trascorsero insieme le estati presso Anticoli Corrado, un paesino situato nella valle a sinistra dell’Aniene, allora in voga fra gli artisti che volevano circondarsi di paesaggi pittoreschi. Qui, probabilmente, il pittore cominciò a conoscere l’esigenza, i primi sintomi di una inclinazione personale alla ricerca di un ambiente arcaico, incontaminato e lontano dall’artificio della città. Con Fausto Pirandello, invece, si recò nel 1927 a Parigi, cui seguiranno altri numerosi viaggi: qui ebbe la possibilità di studiare gli impressionisti, di avvicinarsi all’arte di Pablo Picasso e di André Derain. Ma lo scopo principale di questi viaggi, come il pittore ebbe a scrivere al fratello Francesco nel marzo del 1929, era quello di provare ad inserirsi e farsi conoscere negli ambienti artistici.

Insieme ai pittori Emanuele Cavalli e Francesco Di Cocco, esordì nella collettiva del 1927 a Roma, presso l’Hôtel Pensione Dinesen. Qui presentò i suoi primi lavori, che erano ancora essenzialmente figurativi, tra cui Autoritratto e Casa in demolizione, entrambe opere caratterizzate da un “realismo minimalista”, stando a quanto recensiva lo storico dell’arte Wart Arslan nel suo articolo Una mostra giovanile (uscito sul Corriere d’Italia nel giugno 1927). Assieme a Cavalli e Corrado Cagli, nel febbraio 1933 espose alla Galleria il Milione di Milano, e alla Galerie Bonjean di Parigi nel dicembre dello stesso anno. In questi anni Capogrossi aveva elaborato una pittura che si concentrava sulla figurazione e sul tonalismo. Di questo periodo sono Il vestibolo, presentato nel 1933 a Parigi, Piena sul Tevere (1934). Le cose cominciarono a cambiare negli anni Quaranta: il dopoguerra fu un momento di intensa riflessione per l’artista. In particolare, il 1946 fu l’anno della sua prima mostra personale a Roma, alla Galleria San Marco.

Allo stesso anno risale un viaggio in Sardegna che parve illuminarlo. Il paesaggio sardo, con i suoi colori e le sue luci, gli fecero apprezzare la natura nel suo contesto primordiale. Qui si sviluppa un nodo importante della sua concezione artistica, fu un momento dove cominciò una nuova contemplazione del segno archetipico e nuova considerazione del colore. Abbandonò così il linguaggio pittorico che lo aveva caratterizzato negli anni Trenta: delle tele figurative, che pure lo portarono a una certa notorietà, non è dato sapere molto. Al momento della svolta artistica degli anni Cinquanta, infatti, Capogrossi andò alla ricerca dei suoi quadri ancora figurativi con l’intento di distruggerli. È anche probabile che le opere degli anni Venti fossero ancora in suo possesso, e dunque gli fosse addirittura più facile eliminarli.

Dopo il deciso rifiuto della figurazione, Capogrossi si avvicinò a una ricostruzione neocubista dell’immagine. Il momento neocubista fu breve, ma servì come ponte di transizione verso l’astrazione. Il periodo si concluse nel 1949: Superficie 022 (1949) è uno dei suoi primi quadri astratti. La prima mostra non figurativa risale al 1950, alla Galleria il Secolo di Roma: qui espose le tele che presentavano la sua nuova modalità pittorica, fatta di segni reiterati e di titoli uguali. Infatti, il pittore romano iniziò a chiamare tutte le sue opere Superfici, puntualmente numerate.

Tra il 1950 e il 1951, partecipò a una breve esperienza, quella della fondazione del gruppo Origine assieme ai pittori Mario Ballocco, Alberto Burri ed Ettore Colla. I quattro stesero un breve manifesto dove affermavano di “voler liberare la ricerca artistica dalle molteplici sovrastrutture”, per esprimere “all’origine l’emozione della vita nel mistero del suo svolgersi”. Il gruppo organizzò la “Mostra del Gruppo Origine” alla Galleria Origine di Roma, ma si sciolse subito, durando appena un anno. Dopo questa piccola parentesi, Capogrossi continuò ad avere successo ed espose nelle principali rassegne artistiche sia in Europa sia in America. All’altezza del 1951 aveva ormai raggiunto la notorietà: collaborava puntualmente con le gallerie Il Cavallino a Venezia e Il Naviglio a Milano. Da qui cominciarono a diffondersi le sue opere, che vennero vendute anche all’estero. Ancora nel 1951 espose regolarmente in diverse collettive di Parigi, arrivando poi a Londra e a Stoccolma. Negli anni successivi lavorò molto in America: si ricordano due mostre personali alla Leo Castelli Gallery di New York e Galleria Sistina di São Paulo (entrambe del 1958).

Giuseppe Capogrossi ebbe anche un’esperienza di contatto con le arti decorative, dedicandosi alla produzione di ceramiche smaltate e addirittura prestando i suoi disegni per la realizzazione di arazzi. Queste produzioni furono ancora idee nuove per continuare a proporre il suo segno ritmico e dentato, dimostrando l’inesauribile volontà di esplorazione e di ricerca del pittore. L’artista divenne tanto riconosciuto e affermato che, nel 1968 Palma Bucarelli, direttrice della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, dedicò alle sue opere una sala intera. E sempre nella capitale italiana Capogrossi morì, il 9 ottobre del 1972. In questo stesso anno, gli eredi del pittore (la figlia Olga, il nipote Guglielmo) cominciarono a raccogliere il materiale documentario della sua attività. Venne istituito a Roma l’Archivio Capogrossi, con il fine di tutelare e promuovere lo studio dell’artista e della sua produzione.

Giuseppe Capogrossi, Autoritratto con Emanuele Cavalli (1927 circa; olio su tavola, 55 x 52 cm; Collezione privata)
Giuseppe Capogrossi, Autoritratto con Emanuele Cavalli (1927 circa; olio su tavola, 55 x 52 cm; Collezione privata)
Giuseppe Capogrossi, Il vestibolo (Donna bendata, lo spogliatoio degli uomini) (1932; olio su tela; Roma, Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea)
Giuseppe Capogrossi, Il vestibolo (Donna bendata, lo spogliatoio degli uomini) (1932; olio su tela; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea)
Giuseppe Capogrossi, Il temporale (1933; olio su tela, 109 x 95,7 cm; Roma, Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea)
Giuseppe Capogrossi, Il temporale (1933; olio su tela, 109 x 95,7 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea)
Giuseppe Capogrossi, Piena sul Tevere (1934; olio su tela, 86 x 146 cm; Collezione privata)
Giuseppe Capogrossi, Piena sul Tevere (1934; olio su tela, 86 x 146 cm; Collezione privata)

Opere e stile di Giuseppe Capogrossi, dal paesaggio al segno

In ragione della modalità con cui trattava la materia, della considerazione che aveva del colore, del segno e del gesto, Giuseppe Capogrossi viene considerato uno dei principali esponenti dell’informale italiano.

La sua prima attività artistica fu figurativa e tonale. Capogrossi si mosse a partire dal paesaggio: nel 1927 realizzò Casa in demolizione, opera che rivela uno studio pittorico veloce, memore dell’esperienza impressionista che ebbe modo di studiare nei suoi frequenti viaggi a Parigi. Qui cercò di affondare le atmosfere in una sorta di bruma grigio-brunastra, di tinte opache e agre, ravvivate qua e là da timide illuminazioni.

Il primo Capogrossi usa pennellate rapide ma sicure, volte a plasmare le forme. In questa tavola si percepisce una fiducia che il pittore riponeva nella forza del colore, cui lasciava comporre l’intera rappresentazione. Concedeva esclusivamente alla materia pittorica di suggerire oggetti, come nel caso del veicolo sulla destra, o nelle scale che scendono verso il fiume. Casa in demolizione è un olio su tavola, come anche Autoritratto con Emanuele Cavalli, realizzato nello stesso anno. L’artista si dipinse insieme all’amico, entrambi guardano lo spettatore con uno sguardo fisso e silenzioso, ma eloquente: anche quest’opera è caratterizzata da una tonalità calda, la tavolozza gioca sulle terre e sugli ocra.

La metà degli anni Trenta è caratterizzata da un realismo nella definizione della scena e da una componente di mistero. Un’immobilità di figure che richiama Piero della Francesca. Vestibolo, olio su tela del 1932, presenta un ambiente chiuso in cui si trovano diversi individui nudi. La figura maschile rivela l’interesse di Capogrossi per la pittura picassiana (si vedano ad esempio i Due giovani, di Pablo Picasso, di cui ricorda l’incedere della figura maschile). Ancora, in questo momento è centrale l’uso del colore in Capogrossi, cui affida la creazione delle forme e la gestione della profondità spaziale. Ne Il temporale, del 1933, la figurazione è costruita su una memoria arcaica. I personaggi sono cristallizzati nel loro gesto, non comunicano ma restano in bilico tra fisico e metafisico. Piena sul Tevere, del 1934, è un dipinto in cui le cabine creano una barriera visiva e presenta un momento di sospensione, animato solo dalle figure sulla sinistra.

Durante gli anni Quaranta l’interesse di Capogrossi per la figurazione si dissolse. La sua visione artistica iniziò a sfaccettarsi e i continui contatti con l’ambiente parigino lo portarono a visitare la lezione neocubista. Nel 1948 realizzò Le due chitarre: in quest’opera c’è più disegno, le linee sono piuttosto nette e decise. Il colore è sempre protagonista ma lascia più spazio a una chiara divisione delle forme che si fanno squadrate. Qui il pittore cominciò una ricerca fatta di elementi geometrici che poi lo portò a una semplificazione della scena sempre maggiore. L’esito di questa esplorazione fu un risultato come quello di Superficie 022 (1949): sullo sfondo bianco si impilano pure forme e puri segni astratti nel binomio assoluto bianco-nero. Capogrossi si concentrò su un’unica forma, un archetipo che reiterò in maniera ordinata; il ritmo è qui scandito da quell’unico segno-chiave in nero, che si ripropone in file ordinate variando a poco a poco la sua struttura, senza mai abbandonare il suo principio segnico. Con questo dipinto del 1949, Capogrossi perse ogni contatto col realismo e imboccò la scia dell’astrattismo.

In Argan (1967) si legge: “Questi primi quadri non sono tanto opere quanto ‘ricerca del segno’”. Superficie 022 venne esposta per la prima volta nel 1950 proprio alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, dov’è tuttora conservata. Si trattava della prima mostra personale di opere astratte di Giuseppe Capogrossi. Da qui in poi, la produzione si basò essenzialmente sulla ripetizione ritmica dei segni elementari. Forme a pettine, a tridente e forchetta: tutti archetipi bidimensionali riproposti in numerose varianti, ogni volta riorganizzate in soluzioni combinatorie e cromatiche nuove. La direzione del ritmo segnico poteva essere orizzontale, verticale o diagonale, ma, da ora in avanti, Capogrossi le intitolò sempre Superficie, affiancate da un numero progressivo. La superficie della tela diventò, nella mente del pittore, una sorta di grado zero, un campo ideale dove gli elementi si potevano ordinare e intersecare per creare ogni volta una relazione ritmica originale.

Del 1950 è Superficie 596: il segno è quasi primordiale, ripetuto e impilato a formare file parallele in una gestione dello spazio liberissima. Superficie 608, realizzato l’anno successivo, è un lavoro già diverso dal precedente di un anno prima. I segni, eseguiti in tempera nera, possono anche diversificarsi, sono modulati, ma l’origine archetipica è sempre basilare. La pittura si colloca come agente, qualcosa che attiva il dinamismo spaziale. Lo spazio, a sua volta, si genera istante dopo istante dagli occhi dello spettatore che partecipa al movimento leggendo e attraversando la scansione ritmica proposta dai pieni e dai vuoti, ambedue necessari. Gli intervalli, in questa carta stesa su tela, sono importanti perché contribuiscono al ritmo con la stessa importanza di una pausa in un brano musicale. Nel 1956 Capogrossi realizzò Superficie 154: su sfondo chiaro, i segni neri si dispongono piccoli in file. Questi vengono poi riproposti, in dimensioni maggiori, in primo piano. La classica scelta bicromatica del bianco e nero viene dinamizzata de inserti rossi e arancioni. La composizione restituisce un sapore arcaico, atemporale per l’originalità della proposta, che orbita sempre attorno a quell’elemento primordiale, collocandolo come parte in un alfabeto fondamentale, archetipico e immaginario.

Dall’esperienza che Capogrossi perseguì nel panorama delle arti applicate, è rimasto un arazzo, Astratto, oggi di proprietà della Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Ideato nel 1963 per la Turbonave Michelangelo, Capogrossi prestò la sua visione segnica anche all’arte più importante della tessitura.

Giuseppe Capogrossi, Le due chitarre (1948; olio su tela, 150 x 100 cm; Roma, Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea)
Giuseppe Capogrossi, Le due chitarre (1948; olio su tela, 150 x 100 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea)
Giuseppe Capogrossi, Superficie 608 (1951; marouflage a tempera su carta applicata su tela, 238 x 87 cm; Collezione privata)
Giuseppe Capogrossi, Superficie 608 (1951; marouflage a tempera su carta applicata su tela, 238 x 87 cm; Collezione privata)
Giuseppe Capogrossi, Superficie 154 (1956; olio su tela, 80 x 100 cm; Milano, Gallerie d'Italia)
Giuseppe Capogrossi, Superficie 154 (1956; olio su tela, 80 x 100 cm; Milano, Gallerie d’Italia)
Giuseppe Capogrossi, Superficie 290 (1958; olio su tela; Roma, Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea)
Giuseppe Capogrossi, Superficie 290 (1958; olio su tela; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea)

Dove vedere le opere di Giuseppe Capogrossi nei musei

In Italia, molte opere di Giuseppe Capogrossi si trovano oggi in collezione privata. Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna a Roma si trovano diverse opere del pittore, tra cui la Superficie 018 (1948), Superficie 022 (1949) e anche Superficie 335 (1959). Sempre qui è conservato l’arazzo Astratto (1963) ma anche uno dei suoi quadri ancora figurativi, Il temporale del 1933. A Torino, alla Galleria Civica di Arte Moderna e Contemporanea, si trovano le Superfici 89, 102 ,141 e 213, tutte realizzate nei primi anni Cinquanta.

La Superficie 154 (1956), di cui sopra, si trova a Milano, di proprietà della Collezione Banca Intesa. A Venezia, al Peggy Guggenheim è esposta la Superficie 236, olio su tela del 1957. Al Mart di Rovereto è Superficie 678 (Cartagine), un olio su carta applicata su tela del 1953.

All’estero, due lavori del 1953, presentate col titolo di Composition e Section 4, si trovano al Museum of Modern Art di New York. Sempre a New York, le opere Superficie 210 (1957) e Superficie 236 (1957) sono conservate al Solomon Guggenheim Museum.


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