Gino De Dominicis (Ancona, 1947 – Roma, 1998) è stato uno degli artisti italiani più discussi del Novecento: espresse la sua arte attraverso diverse tecniche, ovvero la pittura, la scultura e l’architettura, svincolandosi il più possibile da tutte le convenzioni legate al mondo artistico, a partire dall’esigenza di limitare al minimo le riproduzioni fotografiche delle sue opere fino al rigetto di alcune terminologie come “performance” oppure “arte concettuale”.
Per De Dominicis, il fulcro principale doveva essere costituito dall’arte stessa, l’unico modo possibile per lui di indagare una serie di tematiche su cui si è concentrato per tutta la vita, ovvero l’immortalità, il riuscire a realizzare l’impossibile, l’immobilità e i culti antichi, in particolare la civiltà sumera. Ha spesso declinato i suoi ragionamenti in chiave surreale o ironica, ad esempio inserendo lunghi nasi innaturali sui volti dei protagonisti e persino sugli scheletri, un altro elemento ricorrente della sua produzione artistica.
Gino De Dominicis nacque il 10 aprile 1947 ad Ancona, capoluogo delle Marche, e studiò all’Istituto d’Arte della città. Tra i suoi maestri figurava l’artista Ettore Guerriero. Già a diciassette anni De Domincis espose le sue prime opere in una galleria locale. Si trasferì a Roma nel 1968, dopo aver compiuto diversi viaggi, ed entrò in contatto con il gruppo di Via Brunetti, Laboratorio 70, costituito dagli artisti Gianfranco Notargiacomo, Paolo Matteucci e Marcello Grottesi, restando colpito dalle loro innovazioni. De Dominicis tentò diverse volte di entrare nel gruppo parlando direttamente con Grottesi, e venne effettivamente ammesso poco dopo.
Il gruppo di Via Brunetti si caratterizzava per una serie di atti performativi compiuti nelle strade e nelle piazze di Roma, sconvolgendone la quotidianità, lanciando un messaggio di opposizione e di rifiuto verso i luoghi preposti all’arte come musei e gallerie. Alcuni esempi delle loro opere furono le Pillole Pincus in Piazza San Pietro e la Ghigliottina in Piazza del Popolo. La prima mostra personale di De Dominicis avviene nel 1969 nella galleria L’Attico di Fabio Sargentini, il quale ne sottolineò l’apporto innovativo anche rispetto agli altri due artisti di punta della galleria, Pino Pascali e Jannis Kounellis.
Partecipò numerose volte alle più importanti esposizioni internazionali: fu presente spesso alla Biennale di Venezia, a partire dal 1972 fino agli anni Novanta; inoltre venne invitato a Documenta di Kassel; infine fu significativa l’esperienza alla Biennale di Parigi, dove espose nel 1973, vinse il Premio Internazionale nel 1982 e partecipò di nuovo nel 1985.
Tra il 1985 e il 1986 De Dominicis partecipò a Washington ad una mostra collettiva dal titolo A New Romanticism, Sixteen Artists from Italy. Nel 1986 collaborò per la prima volta con la gallerista Lia Rumma a Napoli, con cui lavorò in diverse altre occasioni e, infine, Adelina von Fürstenberg organizzò in suo onore una grande mostra retrospettiva al Centre National d’Art Contemporain le Magasin a Grenoble nel 1990.
De Domincis morì a Roma il 29 novembre 1998, e dopo la sua scomparsa vennero organizzate diverse mostre e rassegne per ricordarlo. La prima ebbe luogo nel P. S. 1 Contemporary art center di New York un anno dopo, nel 1999, con il titolo The game room; successivamente nella città di Roma venne allestita un’importante retrospettiva nella Galleria nazionale d’arte moderna e poi un’altra nel 2010 all’interno del MAXXI, intitolata Gino De Dominicis. L’immortale.
De Dominicis era un artista carismatico ed eccentrico, che ha espresso le proprie idee e convinzioni attraverso diverse forme d’arte. Riteneva che l’arte fosse un momento di magia, e non un mezzo di comunicazione, rifuggendo ogni convenzione che si crea solitamente intorno ad essa. Ad esempio, si espresse chiaramente contro l’utilizzo di alcune terminologie, oppure riteneva superflua la presenza del pubblico, senza il quale l’arte poteva e doveva esistere in ogni caso, inoltre era molto rinomato per il rifiuto di far fotografare le sue opere.
La sua arte si concentrò su tematiche ricorrenti che riguardavano la morte e l’immortalità; la capacità di riuscire a realizzare l’impossibile e di fermare l’irreversibilità del tempo, individuando il ruolo dell’arte in tal senso; l’esigenza di confutare l’irreversibilità dei fenomeni scientifici. Aveva esplicitato queste tematiche anche in uno scritto datato al 1966, la Lettera sull’immortalità del corpo. Inoltre, De Dominicis utilizzava spesso simboli archetipici alchemici e religiosi, come le croci, le piramidi, le stelle, le figure geometriche, e dotava i profili delle sue figure di nasi lunghi, innaturali. L’elemento del naso ha un significato particolare, in quanto collega la parte più “spirituale” del volto, quella della mente, a quella più bassa, dove risiede la bocca.
Si può dividere l’opera di De Dominicis in due periodi distinti. Il primo è compreso tra la fine degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta e venne indicato come “concettuale”, una definizione che si è rivelata poi molto frettolosa ed approssimativa, smentita sia dall’artista stesso che dalla critica. Il secondo periodo va dai primi anni Ottanta fino alla sua morte nel 1990, ed è caratterizzato da una ripresa innovativa della pittura figurativa.
Nelle prime opere di De Dominicis è spesso presente un’asta. Ad esempio, in Senza titolo (1967- 1969), una lunga asta dorata viene posta a sfiorare con un’estremità appuntita il bordo di un masso. Il punto di contatto tra l’asta e la pietra è costituito da una superficie millimetrica, talmente piccola da quasi non giustificare la disposizione degli elementi in equilibrio. Si crea in questo modo un’incongruenza che avviene in un tempo inesistente e contemporaneamente infinito. In Equilibrio (1969), l’asta dorata è rappresentata in sospensione dello spazio, quasi come fosse la linea che dà origine all’intera azione. Intorno all’asta, sono posti gli oggetti invisibili, come Il Cubo, il Cilindro, la Piramide, così definiti in quanto l’artista ne disegna solo i contorni sul pavimento.
Le sue ricerche sfociano poco dopo in atti performativi, volti ad indagare gli aspetti più inafferrabili, immateriali ed invisibili dell’arte. Tuttavia, De Dominicis non utilizzava il termine “performance”, in quanto lo considerava più affine al mondo del teatro che all’arte. In effetti, a differenza di altre performance di artisti a lui contemporanei, De Dominicis raramente pone le figure in movimento, ad eccezione di due filmati datati al 1969, Tentativo di far formare dei quadrati invece che dei cerchi attorno ad un sasso che cade nell’acqua e Tentativo di volo. Nel primo filmato, De Dominicis torna sul concetto del dialogo tra la forma quadrata e quella circolare, inoltre riflette sul movimento come presenza invisibile sottoforma di attesa o aspettativa della pietra che cade nello specchio d’acqua. Sempre datata al 1969 è la scultura Il tempo, lo sbaglio, lo spazio composta da uno scheletro umano disteso a terra che indossa dei pattini a rotelle, mentre su un dito mantiene un’asta in equilibrio e contemporaneamente porta uno scheletro di cane al guinzaglio. In quest’opera, “lo spazio” è costituito dalla verticalità, mentre “lo sbaglio” dalla volontà di spostarsi orizzontalmente e ancora maggiormente dal desiderio dell’accelerazione suggerita dai pattini.
Risalgono al 1970 Zodiaco, in cui rappresentò realisticamente i dodici segni zodiacali presentando un toro, un leone vivo, una giovane ragazza realmente vergine e due pesci morti, disposti in semicerchio; e Mozzarella in carrozza, letteralmente una carrozza vera e propria al cui interno è posta una mozzarella. Proprio quest’opera contribuì ad annullare l’idea di De Dominicis come artista concettuale, in quanto venne pensata in modo che le parole del titolo fossero visualizzate concretamente, materializzate. In più, l’opera intendeva essere una critica verso il concetto per cui il “contenitore dell’arte”, ovvero la galleria o il museo, possa trasformare qualunque oggetto comune in opera, mentre la mozzarella restava tale anche se inserita in un contenitore lussuoso. Anche in una mostra nella galleria di Enzo Sperone del 1982, verrà riproposto lo stesso concetto ponendo un water tra altre opere d’arte e sottolineando che restava un water, senza altri significati. Lo stesso De Dominicis definirà queste “operazioni omeopatiche”, nel senso di modi che l’artista individua per criticare le tendenze e metodologie in voga al momento.
Tra i lavori datati agli inizi degli anni Settanta, risultò piuttosto controversa Seconda soluzione d’Immortalità (L’Universo è Immobile) l’opera del 1972 che De Dominicis presenta alla Biennale di Venezia. Un giovane affetto dalla sindrome di Down era fatto sedere in un angolo, davanti ad un cubo invisibile, ad una palla di gomma ritratta nell’attimo che precedeva il rimbalzo dopo una caduta di due metri e ad una pietra in attesa di un movimento causale in grado di spostarla. Gli elementi erano posti in una stanza in cui De Dominicis chiese che fossero rimosse tutte le coperture ai lucernai per poter stabilire un contatto tra la stanza e l’universo. L’assistente Simone Carella disse in merito a quest’opera che “Gino considerava la sala una summa, ma non aritmetica, delle cose che aveva fatto sino ad allora”. Fu la scelta di coinvolgere il ragazzo a suscitare diverse reazioni critiche sia da parte della critica che del pubblico. L’intento di De Dominicis non era di rappresentare un giovane con una particolare difficoltà, ma di rappresentare la “soluzione di immortalità” del titolo attraverso un uomo che avesse conservato l’aria di un bambino, ingannando così il tempo.
Altri “atti” di rilievo degli anni Settanta furono un cocktail organizzato a Roma per celebrare il superamento del secondo principio della termodinamica nel 1972, e una mostra organizzata nella galleria Lucrezia De Domizio Durini di Pescara il cui ingresso era riservato esclusivamente agli animali, in quanto esseri che non hanno consapevolezza della morte, aggiungendo un ulteriore elemento alle sue digressioni sull’immortalità.
A cavallo tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta De Dominicis entra nel cosiddetto secondo periodo, realizzando disegni e dipinti figurativi con tecniche base, come tempera e matita su tavola o su carta. Utilizzò anche la tela, ma più raramente. Le tematiche che affronta in questa fase sono affini a quelle indagate negli anni precedenti, analizzandole in modo rinnovato. De Dominicis approfondì in questo periodo la conoscenza delle culture antiche, in particolare la civiltà sumera, che esercitava in lui un fascino particolare in quanto si convinse che avessero “inventato tutto” poiché antecedenti agli egizi e ai greci. In particolare, rappresentò molto frequentemente e in varie forme il mito sumero di Gilgamesh, che è strettamente legato all’immortalità. Gilgamesh, infatti, era il re di Uruk, una città mitologica che si ritiene fosse nell’attuale Iraq, e decise di compiere un viaggio lungo e pericoloso per trovare il segreto della vita eterna. De Dominicis abbina spesso la figura di Gilgamesh insieme a quella di Urvasi, una dea femminile immortale presente nella tradizione indiana, che viene amata da un uomo mortale. Presentandoli insieme nella stessa opera, egli intendeva unire il maschile (Gilgamesh) e il femminile (Urvasi), mostrando i loro profili uno di fronte all’altro, e allo stesso tempo desiderava creare una sorta di corto circuito tra culture di due popoli diversi. Non a caso, in Senza titolo (1988) tra i due profili disegnati con il colore bianco compare il paesaggio della Mesopotamia.
Nello stesso periodo compaiono nuovamente nasi lunghi ed appuntiti che vengono anche applicati in modo ironico e surreale sugli scheletri, come accade in Calamita cosmica (1988). Quest’opera, esposta per la prima volta nella mostra antologica al Museo d’Arte Contemporanea di Grenoble, ed ora conservata nella chiesa sconsacrata della Santissima Trinità in Annunziata a Foligno (Perugia), è diventata il lavoro più celebre dell’artista.
Poco dopo, De Dominicis presentò alla galleria Monti di Milano Lampadario antientropico, appendendo al soffitto un sacco di plastica in cui aveva inserito i resti di alcuni quadri distrutti, creando così un lampadario che non diffondeva luce, ma ombra, in modo da non disperdere energia andando ad annullare l’entropia. Un’opera del 1988 accostava ai temi sempre ricorrenti dello scorrere del tempo e della ricerca dell’immortalità il rapporto tra l’opera d’arte e l’ambiente circostante. L’opera in questione, esposta alla Galleria Lia Rumma di Napoli, riprendeva un distrutto lavoro precedente, Specchio che tutto riflette tranne gli esseri viventi, e consisteva nel porre in una sala semibuia uno specchio di fronte ad un dipinto, in modo che riflettesse l’opera ma non gli spettatori, lasciando intendere la convinzione che l’arte resta immobile, mentre l’uomo è transitorio. Così De Dominicis si avvicinava sempre più alla risoluzione del problema, individuando l’arte come elemento immortale, quindi non l’artista e nemmeno l’uomo.
Nel corso degli anni Novanta, la produzione artistica di De Dominicis vira verso forme più stilizzate. Compaiono in questi anni audaci accostamenti di colore, come il nero con l’oro, molto amato dall’artista, oppure il rosso e il nero. In questi anni utilizzò molto spesso la matita, con inediti risultati figurativi molto espressivi, come volti ghignanti, corpi gobbi e occhi strabici (le figure realizzate tra il 1996 e il 1997), oppure un coppia unita in un’unica figura (1991). Degni di nota inoltre una serie di grandi quadri realizzati con il bianco e l’oro, presentati alla Biennale di Venezia del 1993, in cui De Dominicis rappresenta il cosmo prima della nascita del cielo e della terra, con una disposizione dei pianeti e dei satelliti che non corrispondeva a quella che si conosceva e che trova infatti origine nel mito della creazione della cultura sumera. In questo modo, De Dominicis ha presentato un altro cosmo, in un altro tempo.
Uno dei tratti distintivi del carattere di De Dominicis era il rifiuto di far fotografare le sue opere. La motivazione risiedeva probabilmente nella convinzione dell’artista che questo mezzo avesse minore intensità rispetto alla pittura. Pertanto, molte opere risalenti al primo periodo vengono tramandate da testimonianze di galleristi ed amici, ma non restano documenti visivi, tranne per alcune eccezioni.
De Dominicis concesse infatti alcune testimonianze fotografiche da lui accuratamente selezionate, fu il caso, ad esempio, di Tentativo di far formare dei quadrati invece che dei cerchi attorno a un sasso che cade nell’acqua oppure Seconda soluzione d’Immortalità (L’Universo è Immobile).
Per quanto riguarda la presenza di altre opere di De Dominicis nei musei italiani, nella GNAM - Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, sono conservate due opere in grafite su tavola, ovvero Senza Titolo e Con titolo, della metà degli anni Ottanta.
All’interno delle collezioni del Museo e Real Bosco di Capodimonte di Napoli si trova Senza titolo (1996-97). Alcune opere sono, inoltre, esposte nel Castello di Rivoli, tra cui si ricordano Senza titolo (1967-69) e Senza titolo (Urvasi e Gilgamesh) del 1988. Alcuni video di De Dominicis fanno, infine, parte delle videoteche della GAM - Galleria d’Arte Moderna di Torino, in cui si trova Tentativo di volo (1969) e dell’Archivio storico della Biennale di Venezia, in cui è custodito Videotape (1974).
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