La Napoli del Seicento era una città caratterizzata da forti contrasti: capitale del Vicereame spagnolo, era stata oggetto, da parte degli spagnoli, di una politica di accentramento del potere che aveva portato maggiori ricchezze e aveva fatto emergere anche il ruolo culturale di Napoli. Doveva però anche fare i conti con una realtà sociale caratterizzata da scontri sociali e da povertà diffusa. Si trattava di una città ricca di contraddizioni: i suoi problemi avrebbero portato alla famosa rivolta di Masaniello, scoppiata nel 1647 e sedata l’anno successivo. In una Napoli così piena di contrasti si sviluppò però un tessuto artistico particolarmente vitale, che conobbe un notevole sviluppo dopo che Caravaggio soggiornò in città agli inizi del Seicento: la presenza del pittore lombardo diede la spinta necessaria al fiorire della scuola locale, che agli inizi del secolo fu di chiaro stampo caravaggesco.
Il primo artista a recepire le novità introdotte da Caravaggio a Napoli fu Battistello Caracciolo (Napoli, 1578 – 1635). Formatosi in un ambiente spiccatamente tardomanierista, ben presto Battistello Caracciolo apprese la lezione caravaggesca e fu il primo a diffonderla a Napoli attraverso una pittura religiosa nella quale lo spirito di Caravaggio era seguito in maniera quasi pedissequa, benché dimostrasse di svilupparne soprattutto la componente tenebrista di Michelangelo Merisi (Liberazione di san Pietro, 1615, Napoli, Pio Monte della Misericordia). Per questo le opere di Caracciolo sono spesso ambientate in atmosfere cupe dalle quali le figure emergono grazie al sapiente uso della luce, che però per lui era un espediente per mettere in risalto i personaggi e non per costruirli come invece faceva Caravaggio.
Più libera fu l’adesione al caravaggismo da parte di José de Ribera, noto anche come Jusepe de Ribera o con il soprannome di Spagnoletto (Xátiva 1591 - Napoli 1652), un pittore spagnolo trapiantato però a Napoli che sviluppò quella componente realista dell’arte di Caravaggio, che si rivelò particolarmente adatta al suo talento. Ribera, infatti, aveva uno spiccato gusto per l’analisi dei dettagli. L’artista pescava regolarmente i suoi soggetti nei bassifondi di Napoli e così arricchiva la sua pittura di bizzarri personaggi, pieni di difetti fisici, ma che erano inseriti in composizioni dai toni altamente drammatici attraverso i quali il pittore voleva portare l’osservatore a riflettere sul significato dei dipinti (Democrito, 1630, Madrid, Prado).
Un altro momento importante per lo sviluppo della scuola napoletana, fu il soggiorno di Artemisia Gentileschi, che arrivò a Napoli in un momento della sua carriera in cui la carica drammatica delle sue opere giovanili si era stemperata in una poetica più intimista. Poco prima inoltre erano arrivati a Napoli anche Giovanni Lanfranco e il Domenichino, tanto che per un breve periodo, tra gli anni Trenta e gli anni Quaranta, si registrò la presenza contemporanea dei tre grandi artisti del Seicento. Un altro apporto alla riflessione sul classicismo bolognese fu dato anche da Guido Reni, che soggiornò nella città partenopea per un breve periodo negli anni Venti: grazie a queste presenze, Napoli vedeva ancora più affermarsi il proprio primato in campo artistico. Artemisia Gentileschi ebbe una profonda influenza su diversi pittori, i più importanti dei quali furono Massimo Stanzione (Orta di Atella, 1585 - Napoli, 1656) e Bernardo Cavallino (Napoli, 1616 – 1656), che dimostrarono però una certa apertura anche al classicismo del Domenichino.
Massimo Stanzione fu un pittore che rifletté a lungo sulla lezione caravaggesca, interpretandola però con toni molto delicati. Nella sua pittura le donne, grazie soprattutto all’influenza di Artemisia Gentileschi, diventavano protagoniste con le loro espressioni intense e la loro bellezza non stereotipata ma realistica, quasi popolana (Giuditta con la testa di Oloferne, 1630 circa, New York, Metropolitan Museum). Stanzione elaborò una poetica molto raffinata, dai colori limpidi che si mescolavano alle atmosfere caratterizzate dal tenebrismo caravaggesco: su questa sua raffinatezza giocò un ruolo decisivo l’influenza dei classicisti, su tutti il Domenichino.
Anche Bernardo Cavallino produsse un’arte simile a quella di Massimo Stanzione, ma a un certo punto della sua carriera operò una decisa svolta in chiave più barocca, tanto che è possibile dire che Bernardo Cavallino è stato, assieme a Mattia Preti (Taverna, 1613 - La Valletta, 1699), il primo artista barocco che operò a Napoli. Cavallino dimostrò infatti di riflettere sulla pittura di artisti come Rubens e van Dyck, ma anche sul potente e drammatico colorismo di Tiziano, per elaborare un linguaggio piuttosto vigoroso connotato da un certo grado di dinamismo e teatralità (Ester e Assuero, 1650 circa, Firenze, Uffizi).
Mattia Preti, noto anche come il Cavalier Calabrese dal momento che nel 1642 diventò cavaliere di Malta, fu uno degli artisti di maggior successo nel meridione italiano del Seicento. Era originario di un paesino della Calabria, ma si era formato a Roma dove aveva seguito il fratello Gregorio, modesto pittore. A Roma in particolare Mattia Preti rifletté sull’arte di Bartolomeo Manfredi e sulla manfrediana methodus, tant’è che le sue prime produzioni sono tutte attentissime descrizioni della vita quotidiana della Roma seicentesca, una Roma fatta di osterie, soldatesche, giocatori (Partita a dama, 1630-1635 circa, Oxford, Ashmolean Museum). La sua arte pertanto non era dissimile da molta della produzione contemporanea, benché Mattia Preti rivelasse una capacità di indagine naturalistica fuori dal comune e pari solo a quella dei più grandi artisti del tempo.
Dopo aver studiato le opere dei pittori classicisti (su tutti, ancora una volta, il Domenichino), e a seguito di un suo soggiorno a Genova dove entrò in contatto con il luminismo di Luca Cambiaso, evidente soprattutto nei dipinti realizzati proprio nella città ligure, Mattia Preti elaborò un linguaggio più monumentale, caratterizzato da forme più vigorose e da una maggior teatralità (Clorinda libera Sofronia e Olindo dal rogo, 1646, Genova, Palazzo Rosso) che portò poi lo stile dell’artista a sfociare nel barocco. Mattia Preti offrì una prima prova di queste tendenze negli affreschi di Sant’Andrea della Valle a Roma, dove poté avvalersi dei consigli di Pietro da Cortona: tuttavia, il suo primo esperimento barocco si risolse in un risultato fallimentare, per il fatto che il suo eccezionale gigantismo derivante da una personale e troppo affrettata interpretazione del cortonismo non fu apprezzato dai contemporanei. Riflettendo sui propri errori, l’artista giunse però a dare prova, in maturità, di uno stile barocco dagli impianti solennemente celebrativi e illusionistici, che come in Pietro da Cortona facevano uso di quadrature ed effetti di luce per estendere all’infinito la spazialità degli affreschi: uno stile, questo, evidente soprattutto negli affreschi realizzati a Malta per la Concattedrale della Valletta (1661-1666).
La Napoli del Seicento vide anche la presenza di un artista fuori da ogni schema come Salvator Rosa (Napoli, 1615 - Roma, 1673), uno degli artisti più originali, innovativi, particolari e bizzarri di tutto il Seicento e forse anche di tutta la storia dell’arte. A Napoli iniziò la sua carriera sotto il segno della pittura di José de Ribera, ma dopo aver conosciuto Giovanni Lanfranco, che gli aveva consigliato di trasferirsi a Roma, si recò nella capitale dello Stato Pontificio dove conobbe l’arte dei pittori olandesi presenti in città ma anche quella di Caravaggio, e sempre a Roma fu un importante protagonista della vita culturale della città. Salvator Rosa infatti fu un artista eclettico: pittore ma anche cantante, musicista, scrittore, tanto che le sue Satire costituiscono uno degli scritti più interessanti del tempo anche perché ci dànno modo di conoscere il pensiero dell’artista su molti aspetti della vita dell’epoca. Salvator Rosa in particolare fu molto critico verso i potenti, colpevoli di dissipare in frivolezze enormi quantità di denaro e di riservare pochissimo per i poveri.
Accanto a dipinti di matrice caravaggesca, Salvator Rosa sviluppò una particolarissima pittura di paesaggio. Meditando sulle pitture paesaggistiche classiciste di artisti come Nicolas Poussin e Claude Lorrain, l’artista napoletano rivisitò quanto fino ad allora prodotto per proporre paesaggi dove la natura non è più idilliaca e idealizzata ma si fa selvaggia e inquietante, gli edifici sono spesso in rovina, il mare burrascoso (Paesaggio marino con torre in rovina, 1645-1650 circa, Firenze, Palazzo Pitti). Una pittura che sotto diversi aspetti dimostrò di anticipare la pittura di paesaggio del Romanticismo che si sviluppò nell’Ottocento.
Un altro filone della pittura di Salvator Rosa fu quello del fantastico e del mostruoso. L’artista infatti realizzò spesso scene con sabba di streghe, presenze demoniache o inquietanti creature (come il terrificante mostro delle Tentazioni di sant’Antonio, qui proposta nella versione della Pinacoteca Rambaldi di Coldirodi, Sanremo, 1645-1649 circa). Salvator Rosa sviluppò questo gusto dell’orrido ispirato da alcuni dipinti di magia e di alchimia olandesi, in aperto contrasto con la pittura classicista del suo tempo, per affermare tutte le contraddizioni di un’epoca connotata da forti contrasti sociali. In questo senso, si potrebbe dire che la pittura di Salvator Rosa fosse l’espressione visiva della sua attività letteraria, ma anche un risvolto estremo del gusto per la drammaticità dell’arte barocca che trovava nella sua opera vette di bizzarria inarrivabili. E in più, le scene di stregoneria, in un’epoca in cui nasceva il moderno pensiero scientifico, potrebbero essere anche un tentativo di conferire una dignità artistica attraverso una precisa e voluta estetica dell’orrido alle credenze popolari che, agli occhi di un uomo di cultura, non potevano che sembrare assurde.
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