Arte cinetica e arte programmata. Storia, stile, artisti


L’Arte cinetica puntò a restituire il senso estetico del movimento nell’Europa tra gli anni Sessanta e Settanta. Storia, stile, artisti principali.

A partire dagli anni Cinquanta in Europa si iniziò a parlare di “Arte Cinetica”, una corrente artistica che mise al proprio servizio una serie di apparati tecnologici più o meno complessi. Conosciuta anche con il nome di “Arte Programmata”, questa tendenza puntò a trasmettere al pubblico una percezione del movimento, che fosse reale o illusorio. Nel momento in cui questo linguaggio espressivo iniziò a giocare con gli effetti ottici, diffondendosi negli Stati Uniti, si iniziò a parlare di Optical Art. Nello specifico, la cinetica è la scienza che studia il moto dei corpi in relazione alla loro struttura: l’arte che si diffuse in Europa a cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta applicò lo studio della cinetica, manifestando un forte interesse nei confronti delle numerose innovazioni scientifiche che si andavano accumulando intorno alla metà del Novecento.

Gli artisti operarono per andare oltre la staticità dell’opera d’arte e si produssero lavori che presentavano meccanismi dinamici, che puntavano a creare un movimento, scoprendo nel mondo fenomenico una realtà sempre cangiante. Come ebbe a dire la nota critica d’arte Lea Vergine nel 1973, l’arte cinetica rappresentò “il rinnovamento del fare estetico contemporaneo”, e tendeva “all’individuazione di valori nuovi attraverso l’analisi dei fenomeni percettivi”. Un punto centrale fra gli obiettivi perseguiti fu l’interazione attiva tra arte e spettatore: sempre Lea Vergine scrisse che “gli autori progettano modelli che intendono svolgere una funzione sociale — la smitizzazione — e una conoscitiva — porre il pubblico in una situazione percettiva e, pertanto, di consapevolezza”. L’arte cinetica fu consacrata con la mostra Le Mouvement a Parigi nel 1955, alla Galleria Denise René; la sua parabola discendente cominciò sul finire degli anni Sessanta, messa in ombra dai colori della Pop Art e dalle forme dell’Arte Povera.

Alexander Calder, Grande mobile rosso (1961; lamiera, fil di ferro, 160 x 400 cm; Torino, GAM - Galleria Civica d'Arte Moderna e Contemporanea)
Alexander Calder, Grande mobile rosso (1961; lamiera, fil di ferro, 160 x 400 cm; Torino, GAM - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea)
Jean Tinguely, Méta-Harmonie II (1979; tecnica mista; Basilea, Museo Tinguely)
Jean Tinguely, Méta-Harmonie II (1979; tecnica mista; Basilea, Museo Tinguely)
Victor Vasarely, Homok (1977; serigrafia su carta, 64,8 x 64,8 cm)
Victor Vasarely, Homok (1977; serigrafia su carta, 64,8 x 64,8 cm)
Pol Bury, Rods on Round background (1963; legno e metallo, 91,4 x 232,2 cm; New York, Metropolitan Museum)
Pol Bury, Rods on Round background (1963; legno e metallo, 91,4 x 232,2 cm; New York, Metropolitan Museum)
Nicolas Schöffer, Torre spaziodinamica cibernetica (1961; acciaio, altezza 52 m; Liegi, Convention Centre)
Nicolas Schöffer, Torre spaziodinamica cibernetica (1961; acciaio, altezza 52 m; Liegi, Convention Centre). Foto: Pierre-Jacques Despa

Origini e sviluppo dell’Arte cinetica

L’Europa della metà del Novecento visse una rivoluzione tecnologica che cambiò profondamente il modo del vivere umano. L’energia nucleare indusse a pensare di potere avere a disposizione riserve inesauribili di energia; si procedette alla progettazione di aerei e mezzi di trasporto sempre più efficienti e veloci. L’era spaziale stava collezionando sempre più successi, a cominciare dal lancio in orbita del primo Sputnik, nel 1957. Travolto da questa frenesia tecnologica, il mondo delle arti rispose agli stimoli aprendosi alla scienza, accogliendo la tecnologia e i processi di produzione industriale. Quando nell’opera d’arte venne introdotta un’energia meccanica tale da indurre un movimento, reale o virtuale che fosse, si parlò di cinetismo. Il contesto culturale che consentì l’avviarsi di questo tipo di ricerca artistica è da individuare in un momento preciso della storia dell’arte del Novecento.

L’Arte Cinetica definì la propria forma in una circostanza piuttosto fluida, sviluppandosi in seno alle ricerche delle Neoavanguardie degli anni Sessanta e Settanta, le stesse in cui si mossero anche l’Arte Povera e il Minimalismo. Furono indagini artistiche particolarmente attente alle modalità operative, per via dell’introduzione dell’utilizzo di nuove tecniche artistiche e anche per un’attiva interazione tra le discipline più diverse. Queste espressioni si caratterizzarono anche per un generalizzato rifiuto del sistema commerciale, per l’indirizzo verso un rapporto diretto tra il comportamento artistico ed esistenza quotidiana. Il precursore di questo modo di intendere il fare artistico Marcel Duchamp (Blainville-Crevon, 1887 – Neuilly-sur-Seine, 1968), artista che mise in atto una rivoluzione del campo culturale, dando impulso alla nascita del Dadaismo e del Surrealismo, ma soprattutto all’Arte Concettuale, determinante nello sviluppo dell’arte successiva, in quanto forgiò un comportamento nuovo nell’arte, mettendola a servizio dell’idea.

Nell’Arte Cinetica, il principio fondamentale fu quello di porre il movimento come propria condizione ontologica. La ricerca e la percezione del movimento fu quanto più affascinò gli artisti del cinetismo. I risultati di queste prime ricerche vennero presentati nel 1955 alla Galleria Denise René di Parigi: la mostra Le Mouvement aprì definitivamente la stagione dell’Arte Cinetica, presentando i lavori di artisti già affermati come Duchamp ed Alexander Calder (Lawnton, 1898 - New York, 1976), insieme a quelli di artisti più giovani come Yaacov Agam (Rishon LeZion, 1928), Pol Bury (La Louvière, 1922 – Parigi, 2005), Jesús Raphael Soto (Ciudad Bolívar, 1923 – Parigi, 2005), Jean Tinguely (Friburgo, 1925 – Berna, 1991).

Il dinamismo fu il tema affrontato in relazione ai suoi legami con la tecnologia e con il progresso scientifico ed industriale. Espedienti tecnologici come la fotografia e la cinepresa furono utilizzati in questo senso, l’obiettivo fotografico consentiva l’analisi del movimento catturato nel suo svolgersi. Il filosofo Walter Benjamin, nella sua L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, parlò del movimento e di come i nuovi mezzi, la cinepresa e i suoi ausiliari, consentissero di comprenderlo meglio: “Con il primo piano si dilata lo spazio, con il rallentatore il movimento. E come nell’ingrandimento non si tratta tanto di una mera chiarificazione di ciò che comunque si vede in modo indistinto, ma, piuttosto, vengono alla luce formazioni strutturali della materia completamente nuove, così il rallentatore non porta alla luce soltanto motivi del movimento noti, ma in questi motivi scopre di interamente ignoti” (1935). Altre discipline che diedero valore al movimento nel suo senso più artistico fu certamente il teatro e, senza dubbio, il balletto.

In questo nuovo modo di vedere l’arte, basata sulla percezione, sul pensiero e l’idea, la figura dell’artista venne inoltre a dotarsi di un’aura filosofica, quella propria dei registi e dei compositori, poiché ciò che contava in quel momento era la capacità di progettare, di condurre una riflessione estetica che fosse originale. Per questa ragione, in quel momento nel mondo dell’arte venne attribuito un ruolo molto attivo a critici e curatori, che si fecero mediatori fra artisti e fruitori, come il francese Pierre Restany e l’italiano Germano Celant, che coniò la definizione di “Arte Povera” nel 1952.

In Italia, Bruno Munari (Milano, 1907 - Milano, 1998) fu uno dei grandi protagonisti dell’Arte Cinetica. Nel 1952 scrisse Il manifesto del macchinismo, testo in cui denunciò la dipendenza dell’uomo nei confronti della macchina, del quale era sostanzialmente schiavo. Suggerì dunque agli artisti di uscire da quella posizione sterile per dare una nuova funzione alla macchina, trasponendola nel contesto artistico. Sempre secondo Munari, gli artisti “sono i soli che possono salvare l’umanità da questo pericolo”. Erano queste le idee che circolavano nella Penisola alla metà del secolo.

Nel 1959 gli artisti Giovanni Anceschi (Milano, 1939), Davide Boriani (Milano, 1936), Gianni Colombo (Milano, 1937 - Melzo, 1993), Gabriele de Vecchi (Milano, 1938 - Milano, 2011) e — in un secondo momento — Grazia Varisco (Milano, 1937) formarono a Milano il Gruppo T. Pur presentandosi in collettivo, non venne mai negato un certo risalto alla produzione personale. Il gruppo realizzò esperimenti percettivi, indagò il concetto di abitabilità dell’opera intendendola come ambiente; gli spazi furono sempre aperti al coinvolgimento emotivo degli spettatori. Il gruppo adottò il termine Miriorama (dal greco “infinite visioni”) per definire la propria agenda artistica e per dare un titolo alle quattordici mostre, di cui la prima fu allestita alla Galleria Pater di Milano dal 15 al 18 gennaio 1960: si trattò di una manifestazione in cui vennero presentati quattro esperimenti: Pittura in fumo, Ossidazioni decorative, Superficie in combustione, Grande oggetto pneumatico. Il Gruppo T si concentrò sull’idea dell’immagine mutevole, sulla sequenza temporale: nella dichiarazione poetica della manifestazione si leggeva che “ogni aspetto della realtà, colore, forma, luce spazi geometrici e tempo astronomico, è l’aspetto diverso del darsi dello spazio-tempo o meglio: modi diversi di percepire il relazionarsi fra spazio e tempo. Consideriamo quindi la realtà come continuo divenire di fenomeni che noi percepiamo nella variazione”.

Anche Padova fu teatro di uno snodo fondamentale nel percorso dell’Arte Cinetica: nel 1960 nacque il Gruppo N: Alberto Biasi (Padova, 1937), Ennio Chiggio (Napoli, 1938 - Padova, 2020), Edoardo Landi (San Felice sul Panaro, 1937) e Manfredo Massironi (Padova, 1937 - Padova, 2011). Rispetto al gruppo milanese, il Gruppo N operava nel pieno dello spirito collettivo, firmando le singole opere con il nome del gruppo, sacrificando totalmente l’individualità (a differenza del Gruppo T, dove alcune delle mostre Miriorama furono personali): nella dichiarazione poetica presentata nel 1961 si disse esplicitamente che “la dicitura enne distingue un gruppo di ‘disegnatori sperimentali’ uniti dall’esigenza di ricercare collettivamente”. Insieme, i due gruppi furono precorritori e premesse per la nascita dell’Arte Programmata: nel 1962, Bruno Munari organizzò una mostra al negozio della Olivetti assieme al filosofo Umberto Eco, che coniò il termine di “Arte Programmata”. Essa si riferiva alla possibilità di programmazione tecnica o elettronica dell’opera da parte dell’artista. Tale programmazione fu necessariamente vincolata alla presenza ricettiva del visitatore, il quale non era limitato alla mera posizione di osservatore di immagini, ma diveniva co-autore dell’opera stessa, prendendone parte. Questo fu quanto accadde nel 1967 in un’opera come Spazio Elastico di Gianni Colombo (Gruppo T) dove lo spettatore entrava a far parte dell’ambiente artistico, completamente avvolto e parte fondamentale dello spazio.

La mostra Arte programmata ebbe il merito di lanciare gli artisti cinetici nel panorama dell’arte internazionale, conducendoli alle varie edizioni della Biennale di Venezia (1964 e 1968) e alla IV Biennale di San Marino “Oltre l’Informale” (1963), dove la giuria guidata da Giulio Carlo Argan premiò a pari merito i collettivi Gruppo N di Padova e il Gruppo Zero di Düsseldorf. L’apice del successo del cinetismo corrispose anche alla sua discesa, accompagnata da dubbi e interrogativi su quali fossero i confini del fare e dell’essere arte. Nel catalogo della mostra Arte programmata, Umberto Eco scrisse: “Non è pittura, non è scultura, ma almeno è arte? Badate, non ci si chiede qui se sia ‘grande arte’, ma se una operazione del genere rientri grosso modo nella categoria dell’arte. […] Non so bene come abbia fatto, ma è sempre stata l’arte, per prima, a modificare il nostro modo di pensare, di vedere, di sentire, prima ancora, certe volte cento anni prima, che si riuscisse a capire che bisogno c’era”. Nel 2012, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma ha celebrato l’Arte Cinetica e Programmata dedicandovi lo spazio di una mostra, a testimonianza di una riscoperta e di un recente, rinnovato interesse.

Giovanni Anceschi, Percorsi fluidi orizzontali, dettaglio (1962; legno, liquidi, tubi di plastica, elettromotore, 192,5 x 63,5 x 129,5; Parma, Collezione privata)
Giovanni Anceschi, Percorsi fluidi orizzontali, dettaglio (1962; legno, liquidi, tubi di plastica, elettromotore, 192,5 x 63,5 x 129,5; Parma, Collezione privata)
Davide Boriani, Ipercubo (1961-1965; tecnica mista, 87,5 x 87,5 x 87,5 cm). Foto: ML Fine Art
Davide Boriani, Ipercubo (1961-1965; tecnica mista, 87,5 x 87,5 x 87,5 cm). Foto: ML Fine Art
Gabriele De Vecchi, Scultura da prendere a calci (1959; poliuretano espanso, filo elastico; Gallarate, MA*GA)
Gabriele De Vecchi, Scultura da prendere a calci (1959; poliuretano espanso, filo elastico; Gallarate, MA*GA)
Grazia Varisco, Schema luminoso variabile R. Vod. (1962; ferro, legno, plexiglas, elementi elettrici, perspex, 103 x 100,5 cm; Bologna, MAMbo)
Grazia Varisco, Schema luminoso variabile R. Vod. (1962; ferro, legno, plexiglas, elementi elettrici, perspex, 103 x 100,5 cm; Bologna, MAMbo)
Gianni Colombo, Spazio elastico (1967; elastici fluorescenti, motori elettrici, lampada di wood, 400 x 400 x 400 cm; Milano, Archivio Gianni Colombo). Foto: Giorgio Pizzagalli
Gianni Colombo, Spazio elastico (1967; elastici fluorescenti, motori elettrici, lampada di wood, 400 x 400 x 400 cm; Milano, Archivio Gianni Colombo, ricostruzione per la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma). Foto: Giorgio Pizzagalli
Ennio Chiggio, Quadrati spaziali (1961; legno, poliestere, distanziatori di gomma, 48 x 48 cm). Foto: Archivio Ennio Chiggio
Ennio Chiggio, Quadrati spaziali (1961; legno, poliestere, distanziatori di gomma, 48 x 48 cm). Foto: Archivio Ennio Chiggio

I maggiori esponenti dell’Arte Cinetica: stili e tendenze

Gli artisti indirizzarono le loro ricerche sul movimento attuando una nuova collaborazione, una sintesi fra arte e scienza che sconfiggeva l’anacronistico personaggio dell’artista romantico avverso al progresso. Quella che stava nascendo era una figura nuova, quella di un creatore che sapesse utilizzare le novità introdotte dalla scienza, rileggendole in senso creativo e utilizzandole per ampliare le proprie capacità espressive.

Le ricerche dell’arte cinetica furono anticipate da due importanti artisti, Alexander Calder e Jean Tinguely. Calder è celebre per aver inventato i “mobiles”, sculture mobili sospese che si muovono delicatamente con l’aria. Calder ha trasformato l’arte statica in una danza dinamica di forme e colori, utilizzando fili di metallo, pezzi di legno e fogli di metallo verniciati. Le sue opere non solo esplorano il movimento fisico, ma anche il rapporto tra spazio e forma, creando composizioni che cambiano continuamente aspetto con il movimento. Lo svizzero Tinguely ha invece fondato la sua arte su di una ricerca più meccanica e concettuale e ha creato macchine complesse che si muovono, producono suoni e spesso si autodistruggono, costruite con materiali di recupero e integrate con meccanismi che esploravano il caos e l’imprevedibilità del movimento. Tinguely ha sfidato l’idea tradizionale di scultura come oggetto statico, introducendo elementi di temporaneità e instabilità. Sia Calder che Tinguely, il primo con la sua eleganza e il secondo con il suo approccio ludico e provocatorio, hanno avuto un impatto duraturo sull’arte cinetica, aprendo nuove strade nella comprensione del movimento e dell’interazione delle opere d’arte con il loro ambiente.

Alla mostra parigina del 1955 espose Victor Vasarely (Pécs, 1906 – Parigi, 1997), artista di origine ungherese: nel catalogo, il Manifesto giallo, affermò che “non si tratta di far muovere a ogni costo quadri od oggetti. Esprimiamo un concetto generoso della plastica che ha come veicolo il movimento”. In particolare, Vasarely si pose come esponente di quella parte dell’Arte cinetica che intese il valore plastico dell’opera nel senso più illusionistico delle forme. Con lui il cinetismo divenne Optical art, dove il movimento è introdotto nell’opera tramite strumenti di tipo ottico-percettivo. La definizione nacque negli Stati Uniti, quando venne coniata dal critico William Seitz, in occasione della mostra The Responsive Eye, allestita al MoMa di New York nel 1965. Le opere di Vasarely sono soprattutto “inganni ottici”, come Homok, che venne realizzata fra 1969 e 1973. L’opera è bidimensionale, dalla forma ortogonale astratta, che simula la terza dimensione grazie allo studio delle teorie della forma, dei colori e della percezione mentale.

Anche Pol Bury espose in Le Mouvement, insieme a Duchamp e Calder: realizzò lavori che avevano un motore incorporato. In Rods on Round background (1963), ciuffi sottili di metallo spuntano da una superficie lignea rotonda, come fossero fili d’erba, allusione che rimanda facilmente alla prima formazione surrealista dell’artista.

Il venezuelano Jesús Raphael Soto perseguì invece una ricerca dove fu il movimento dello spettatore a provocare un sostanziale cambiamento nella percezione dell’opera. Le sue sculture furono di grandi dimensioni e alquanto suggestive, come in Gran muro panoramico vibrante, del 1966, una parete lunga quattordici metri esposta a Roma, nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna. La superficie è attraversata da un fitto gioco di linee e strisce; il movimento del visitatore porta il muro a modificarsi e a generare impatti sempre nuovi. Lo stile di Soto si avvicina al senso più illusorio dell’Arte Cinetica ma coinvolge molto attivamente il visitatore, il quale apparato visivo è continuamente sfidato a scoprire i diversi effetti dell’opera.

Nicolas Schöffer (Kalocsa, 1912 – Parigi, 1992), ungherese residente a Parigi, esplorò il movimento nella sua dimensione più architettonica. Fu anche il primo artista che pensò di unire il suono e la scultura, come fece con Torre spaziodinamica cibernetica, nel 1961, costruita in Belgio, a Liegi. Un corpo meccanico alto più di cinquanta metri, è costituito da assi girevoli che ruotano a velocità diverse, attivate da motori incorporati. Le assi muovono a loro volta specchi e lastre che riflettono la luce. L’opera è dotata di alcuni sensori che registrano i dati ambientali (vento, luce, umidità) e li inoltrano a computer, che a loro volta creano un insieme sonoro e luministico sempre mutevole e cangiante, a seconda della situazione meteorologica. È un’opera interattiva che unisce estetica, meccanica e musica: Schöffer approfondì queste sue idee nel 1961 con la pubblicazione del suo saggio intitolato La città cibernetica.

Nonostante l’aura ideale riservata agli autori e il risalto ottenuto dai critici e dai saggisti, si sviluppò anche l’ampia tendenza degli artisti a riunirsi in gruppi, in collettivi dove le idee venivano sviluppate e le attività presentate in un’insieme che annullava l’individualità del bohémien. La preferenza dell’anonimato portò alla nascita di diversi gruppi: fra le compagini europee si ricordano il Gruppo Zero, fondato nel 1957 a Düsseldorf; il GRAV (Group de Recherche d’Art Visuel), nato a Parigi nel 1960. Del GRAV fece parte François Morellet (Cholet, 1926 – 2016), celebre per le sue strutture geometriche realizzate con il filo metallico. Le forme reticolari producevano nell’occhio dello spettatore effetti percettivi cromatici imprevedibili. Una di queste creazioni è Tre sovrapposizioni (1975).

In Italia, gli artisti che formarono il Gruppo T lavorarono alla produzione di diverse strutture. Giovanni Anceschi, fondatore del gruppo, eseguì diverse serie di opere, dette “effetti”, che esploravano le varie possibilità formali della materi. La serie dei Percorsi fluidi (elicoidali o rotanti, spirali e cubici), risalente al 1962, è composta da diversi materiali, tra cui legno, strutture realizzate in ferro smaltato, tubicini in polietilene e liquidi viscosi colorati contenuti tra due fogli di plastica trasparente. Le strutture vengono fissate alla parete, fatte ruotare tramite un dispositivo che permette allo spettatore di assistere alla perenne mutazione dell’opera.

Il collega Davide Boriani realizzò Ipercubo tra 1961e 1963. Per la sua realizzazione impiegò micromotori e metacrilato serigrafato, creando una struttura cubica mobile contenente al suo interno quattro ulteriori forme cubiche più piccole. Il movimento dei cubi rende sempre nuova la percezione dell’intera forma.

Gabriele De Vecchi nel 1959 produsse una Scultura da prendere a calci, presentandola alla mostra Miriorama 3 nel 1960, alla Galleria Pater: questa forma geometrica è fatta di gomma, piuma ed elastico. Il titolo dell’opera è anche un invito all’azione estetica, un esorto di partecipazione rivolto al fruitore: restano alcune fotografie che dimostrano come anche un bambino possa prendere parte all’attivazione di questa struttura artistica.

Grazia Varisco raggiunse il Gruppo T in un secondo momento creando una serie di Tavole magnetiche tra 1959 e 1962: una lamiera metallica fissata su un supporto di legno funge da base per alcuni magneti dalla forma semplice. Punti e linee fissati come calamite sono lasciati ad una funzione ludica offerta allo spettatore. La produzione di Varisco impiegò anche altri materiali come le luci al neon e micromotori, come accadde nel 1962 per realizzare Schema luminoso variabile R. Vod., dove lo stesso titolo veicola l’idea di mutevolezza.

Le opere degli artisti appartenenti al Gruppo T proposero sempre una riflessione sulla variabilità dei materiali delle opere. Talvolta, la produzione si rivolse all’allestimento di opere ambientali, installazioni che segnarono il passaggio dai lavori cinetici e programmati alla costruzione di uno spazio che fosse abitabile e mutevole, presupponendo un’apertura ulteriore dell’opera. L’artista più noto del gruppo, Gianni Colombo, progettò ambienti in cui lo spettatore veniva indotto a prendere consapevolezza del modo in cui, quotidianamente, egli occupasse uno spazio ed interagisse con esso. Spazio elastico (1968) venne allestito alla Biennale d’Arte di Venezia nel 1968, dove fu premiato con il Leone d’oro.

Diversamente dal Gruppo T, il gruppo di Padova credeva più fermamente nell’energia della collettività, tanto da firmare le opere con Gruppo N: per esempio l’esecuzione di Quadrati spaziali in legno e plexiglas (1961), fu di Ennio Chiggio, ma portò la firma dell’intero collettivo. Tuttavia, l’espressione artistica del Gruppo N non fu limitata a un linguaggio di sole opere e dichiarazioni. Piuttosto, organizzò una vera e propria rassegna culturale autogestita dal 1960 al 1964, svolgendo il proprio percorso artistico a Padova, dapprima nella sede di via San Pietro 3 e successivamente in quella di piazza Duomo.

Lo Studio N diede visibilità alle esperienze nazionali ed internazionali più in notevoli: qui esposero artisti come Alberto Burri, Lucio Fontana, Piero Manzoni ma anche Jackson Pollock e François Morellet. Fu un circolo che coltivò l’incontro e la disponibilità, che ricercò un’apertura alle arti contemporanee tese alla promozione di un’etica di vita, appunto, collettiva. Gli artisti furono coerenti nella loro idea di condivisione, vista come nuovo modo di gestire l’informazione culturale.

I componenti del Gruppo N firmarono collettivamente la Mostra chiusa. Nessuno è invitato a intervenire, presso il loro studio N dall’11 al 13 dicembre 1960. La porta d’ingresso della galleria fu sbarrata; insieme all’invito, uno stampato specificava la finalità, che fu quella di una critica alla politica culturale della città di Padova, con l’intento di gettare le basi per una “società nuova”. L’intento provocatorio del Gruppo N continuò con una seconda performance cittadina, la Mostra del pane, dove il panettiere Giovanni Zorzon espose le sue “forme commestibili” per un giorno. In questa occasione il gruppo N mise in forte discussione il mito della figura dell’artista, rifiutandolo a favore di un’esperienza collettiva. La mostra si svolse ancora nella sede di via San Pietro irrompendo sulla scena cittadina e ribaltando i tradizionali principi espositivi dell’arte. Fu subito commentata dal celebre articolo di Luigi Barzini uscito il 18 giugno del 1961 sul Corriere della Sera, “Arte e salame”, dove si chiese fino a che punto si sarebbe spinta l’arte.

Le personalità che formarono il Gruppo N furono tra loro distinte e, al contempo, ognuna indispensabile all’esecuzione delle opere collettive. Ennio Chiggio lavorava con il legno e le sorgenti luminose; in occasione della XII edizione del Premio Lissone, avviata nel settembre del 1961, espose Interferenza e rifrazione luminosa, dove la luce venne percepita smorzata, rifratta a causa dell’apposizione di una retina metallica; lavorò con le sorgenti luminose anche Alberto Biasi nel 1969, quando realizzò il Grande tuffo nell’arcobaleno, un’opera costituita da una struttura piana posta a terra, entro la quale vennero posizionati alcuni prismi in cristallo, fonti luminose ed elettromotori. Questo allestimento proiettava in basso onde mobili di luce colorata. Strutture sospese eseguite con l’impiego di legno, tela, fili elastici su telaio caratterizzarono la collaborazione di Edoardo Landi, le cui composizioni offrivano, nella loro sospensione, percezioni sempre nuove della materia dovute alla movimentazione delle opere. Anche Manfredo Massironi compose forme con materiali semplici come cartone, filo, vetro, legno, inserendosi appieno nello spirito creativo del gruppo (ad esempio con Struttura trasparente con occhielli, datata al 1960). Al di là dell’esecuzione di strutture autonome, ci furono anche progetti per spazi attraversabili: Aquatronic fu il progetto nato dalla collaborazione di Chiggio con Massironi nel 1968 per l’ambientamento di una fontana con giochi d’acqua pensata per la “III esposizione nazionale del Marmo”, a Carrara.

Quando nel 1962 Bruno Munari organizzò la mostra Arte programmata insieme a Umberto Eco e a Giorgio Soavi (consulente artistico dell’ufficio Pubblicità della Olivetti), gli artisti del Gruppo T e quelli del Gruppo N parteciparono, emergendo nel panorama culturale internazionale. Presentarono all’esposizione anche l’artista Enzo Mari (Novara, 1932 – Milano, 2020) e lo stesso Bruno Munari, che aderì al cinetismo già nel 1956 con le sue Macchine inutili: forme geometriche dipinte, sospese e soggette a oscillazioni nell’ambiente in cui si installano. Realizzate con materiali e tecniche derivate dalla produzione seriale ed industriale, furono architettate da Munari per restituire la sola e unica funzione estetica, slegata dalla pretesa funzionalità tecnica dell’opera.

Alla mostra Arte programmata si videro oggetti nuovi, radicali, a cavallo tra arte e design. Il progetto aziendale di Giorgio Soavi, rappresentante della Olivetti, era quello di ricercare “nuovi mezzi e nuove forme di comunicazione visiva”: furono anni di grande apertura, un pensare aldilà degli schemi che portò l’industria ad avere una affinità con “i programmati”. Il tema della programmazione fu effettivamente rilevante per la Olivetti della seconda metà degli anni Sessanta, il cui programma di ricerca sull’elettronica coinvolse il designer Ettore Sottsass (Innsbruck, 1917 - Milano, 2007) per i computer Elea 9000 ed Elea 9003.


La consultazione di questo articolo è e rimarrà sempre gratuita. Se ti è piaciuto o lo hai ritenuto interessante, iscriviti alla nostra newsletter gratuita!
Niente spam, una sola uscita la domenica, più eventuali extra, per aggiornarti su tutte le nostre novità!

La tua lettura settimanale su tutto il mondo dell'arte

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER



MAGAZINE
primo numero
NUMERO 1

SFOGLIA ONLINE

MAR-APR-MAG 2019
secondo numero
NUMERO 2

SFOGLIA ONLINE

GIU-LUG-AGO 2019
terzo numero
NUMERO 3

SFOGLIA ONLINE

SET-OTT-NOV 2019
quarto numero
NUMERO 4

SFOGLIA ONLINE

DIC-GEN-FEB 2019/2020
Finestre sull'Arte