Un frammento di un pala di Francesco Albani (Bologna, 1578 – 1660) smembrata nell’Ottocento riemerge dopo un lungo oblio. Si tratta di una Madonna in gloria con cherubini, il più grande lacerto dell’imponente pala d’altare che raffigurava l’apparizione della Vergine a San Guglielmo e che fu commissionata al pittore bolognese da madre Maria Agostina Tomaselli (Bologna, 1586 – 1654) per la chiesa di Gesù e Maria a Porta Galliera, nel centro di Bologna. L’opera era tornata sul mercato, in maniera piuttosto sorprendente dato che se n’erano perse le tracce da decenni (l’ultima notizia era del 1969), nel 2023, in un’asta di Capitolium, in cui compariva anche sulla copertina del catalogo. Adesso torna sul mercato a seguito di un importante intervento di pulitura, affidato al restauratore fiorentino Andrea Cipriani, che ha consentito all’opera di ritrovare i suoi colori originali. A riportarla alle sue condizioni originarie è la galleria Fondantico di Bologna che adesso l’ha messa nuovamente sul mercato, a seguito del restauro e degli studi che la storica dell’arte Francesca Sinigaglia ha condotto sulla tela (la studiosa aveva dedicato la sua tesi di laurea proprio al complesso di Porta Galliera): la richiesta per questo capolavoro ritrovato è di 200mila euro.
L’opera, adesso, è visibile senza la sporcizia e le patine che offuscavano i suoi colori e la facevano apparire con un aspetto molto lontano dall’originale: Francesco Albani ha ritrovato, a seguito dell’intervento di Cipriani, le sue cromie terse e cristalline, la sua luce quasi smaltata. Terminata nel 1646, in occasione dell’inaugurazione del complesso agostiniano, la pala costituiva “un convincente esempio della fase matura di Francesco Albani, i cui peculiari caratteri si riconoscono al meglio nel grande frammento in esame”, secondo Francesca Sinigaglia. Nella figura della Vergine, l’eleganza della posa e l’accorata efficacia dei gesti sono resi infatti attraverso un morbido naturalismo che si allontana dal mondo ideale di Guido Reni e abbraccia invece la lezione di Annibale Carracci, di cui Albani era stato vicino collaboratore a Roma. A ciò si aggiunge la grazia irrequieta dei putti, per i quali Carlo Cesare Malvasia, peraltro tra i primi a menzionare questo dipinto, informava come Albani fosse solito a tenere avere per modelli i suoi numerosi bambini. In particolare, si possono notare somiglianze in opere dello stesso periodo, per esempio la grande pala con la Madonna e Bambino, San Giovanni Battista, Matteo e Francesco d’Assisi commissionata nel 1639 per la chiesa dei Cappuccini di San Giovanni in Persiceto, ora nella Pinacoteca Nazionale di Bologna, in cui tornano gli stessi puttini. Una stesura pittorica di analoga dolcezza si ritrova poi nella Madonna e il Bambino in gloria con i Santi Sebastiano e Rocco della Collegiata di San Giovanni Battista di San Giovanni in Persiceto (1634), dove si osservano, oltre alle stesse movenze pausate, anche una restituzione delle pieghe dei panneggi attraverso un plasticismo altrettanto raddolcito.
Si tratta di un lavoro dietro al quale si cela la figura di una donna, come accennato sopra: suor Maria Agostina Tomaselli, nipote dei papi Bonifacio IX e di Innocenzo IX, destinò tutta la sua cospicua eredità per la costruzione della chiesa di Poerta Galliera, incluse le commissioni dei dipinti, da lei scelti personalmente (la Circoncisione del Guercino, oggi a Lione, era la pala dell’altar maggiore; Gesù che appare a Sant’Agostino di Michele Desubleo, attualmente alla Pinacoteca Nazionale di Bologna e, appunto, la Vergine che appare a San Guglielmo di Francesco Albani). Anche il monastero sorto in via Galliera fu voluto da madre Tomaselli che, impiegando il molto denaro del quale poteva disporre, poté vedere esaudito il suo desiderio di una riforma radicale della comunità agostiniana bolognese, alla quale apparteneva. Nella sua impresa venne spronata e assistita dal potente padre gesuita Giorgio Giustiniani (1569-1644), che la aiutò a gestire la sua cospicua eredità e ad erigere il nuovo edificio. Gli scambi epistolari che la religiosa ebbe con le personalità più importanti dell’epoca dimostrano la forza di volontà che madre Agostina dimostrò al fine di concretizzare il suo desiderio.
I lavori iniziarono ufficialmente il 17 agosto 1637 e la chiesa esterna fu inaugurata nella notte tra il 31 dicembre 1645 e “il giorno della Circoncisione di nostro Signore”, ovvero il primo gennaio 1646. Le monache scelsero per il progetto del monastero e della chiesa l’architetto Bonifacio Socchi, allievo di Floriano Ambrosini, il più importante architetto bolognese del primo Seicento. Per la decorazione scultorea dell’edificio la scelta andò sull’artista Gabriele Brunelli, allievo del grande Alessandro Algardi, che per l’ideazione degli apparati scultorei collaborò con un grande pittore, Simone Cantarini. Infine, dopo uno studio recedente di Massimo Medica, è emerso che nella chiesa si trovavano anche il Ritratto di Gregorio XV del Guercino, oggi conservato al Paul Getty Museum di Los Angeles, e lo straordinario Busto di Gregorio XV di Gian Lorenzo Bernini oggi al Museo Civico Medievale di Bologna. Con l’entrata di Napoleone in Italia e la formazione della Repubblica Cisalpina, la pala del Guercino fu trasportata a Parigi e, di qui, al Museo di Belle Arti di Lione dove trovò la sua definitiva collocazione. Il dipinto di Michele Desubleo è oggi conservato presso la Pinacoteca Nazionale di Bologna, mentre le vicende della pala di Francesco Albani furono alquanto tormentate. Il complesso agostiniano venne soppresso il 21 giugno 1798 e il 2 gennaio dell’anno successivo fu convertito in ospedale militare, quindi venduto a privati. La maggior parte del fabbricato, compresi la chiesa e il campanile, vennero demoliti e i materiali riutilizzati, sia nel muro che sostiene il terrapieno della Montagnola, sia per la costruzione del perduto Teatro del Corso in via Santo Stefano. È
Da lì in avanti, due secoli di oblio hanno impedito la visione di quest’opera, che fu tra quelle che interessate dalle spoliazioni napoleoniche che non risparmiarono la chiesa in cui l’opera si trovava. La chiesa venne poi distrutta, e il suo apparato decorativo disperso. La tela di Francesco Albani venne ricordata inizialmente da Antonio Masini nella sua Bologna Perlustrata: “di Francesco Albani il S. Guglielmo a destra dell’entrare”. Venne in seguito menzionata, come notato da Sinigaglia, da Carlo Cesare Malvasia nella Felsina Pittrice e nelle Pitture di Bologna: “Gesù e Maria, di Monache Agostiniane, architettata da Bonifacio Socchi. In essa nella prima cappella il San Guglielmo in abito da soldato, e genuflesso avanti il Crocifisso e con sopra in mezzo dell’ornato il coro dei Serafini, sono dell’Albani”. Francesco Albani, stando alle scoperte di Sinigaglia, terminò il dipinto entro il 1646 poiché, come indicato nel contratto del 17 marzo 1646 tra le monache e Bonifacio Socchi, a quelle date le due cappelle laterali erano già completate e quindi provviste dell’apparato decorativo: “Eccettuando [...] ancora la Cappella Maggiore, il resto è fornito, e si è fatto duoi Confessionarij”. Coerentemente alla scelta di dedicare la tela della cappella di sinistra a sant’Agostino, la pala d’altare di destra fu intitolata a un altro santo protettore degli Agostiniani, Guglielmo d’Aquitania. Com’è annotato nelle inedite Memorie del Monastero, per la tela del celebre e stimato Francesco Albani le monache pagarono 2000 lire.
Grazie ad una copia settecentesca di formato ridotto (120 x 90 cm), realizzata prima dello smembramento del dipinto e attualmente di proprietà privata, si possono osservare le scelte iconografiche dell’artista che ripercorrono fedelmente il passo agiografico seicentesco dedicato a san Guglielmo d’Aquitania. L’artista scelse di rappresentare il santo nei tradizionali abiti da cavaliere, genuflesso davanti alla Croce e soccorso dall’alto dalla Vergine e da angeli che lo aiutano a resistere alle percosse dei demoni, inghiottiti da lingue di fuoco. Tuttavia, a seguito delle soppressioni napoleoniche della chiesa di Gesù e Maria, la pala di Francesco Albani andò incontro a un destino infausto: le vicende collezionistiche della tela sono assai complesse e non spiegano del tutto il motivo per il quale, dei tre quadri che ornavano la chiesa, solamente questo conobbe queste vicissitudini così tribolate. Il dipinto venne infatti prima trasferito nei depositi del convento di San Vitale, ora soppresso, dove è descritto in un inventario del 1799 (“San Guglielmo genuflesso in abito da soldato e sopra la B.V. con gloria d’angeli tavola dell’Albani”). In seguito, fu trasportato nell’allora Reale Pinacoteca dell’Accademia di Belle Arti di Bologna, dove figura negli inventari del 1801 (“San Guglielmo genuflesso in abito da soldato, e sopra la Vergine, ed Angeli dell’Albani” accompagnato dal sopraqquadro con “Gloria di Serafini dell’Albani”), del 1810 (“3. [Albani] San Guglielmo a cui apparisce la Vergine. 383x258. Monache di Gesù e Maria. Questa è fatta da Vecchio, è molto debole e patita”) e del 1820 (“B.V. in gloria, nel piano sottoposto San Guglielmo genuflesso, e Santa Maria Maddalena. Alto P 16.8 Largo P 11.2” e “Albani. Circolo di Seraffini. Alto P 3.9 Largo P 5.10 e ½. In cattivo stato”). Nel 1821 l’opera venne venduta al conte Cesare Bianchetti, personaggio tra i più rappresentativi della Bologna aristocratica di quegli anni, che occupò un posto di rilievo come Legato Pro-Presidente dell’Accademia. Nel 1821 il nobiluomo decise di far tagliare il dipinto in quattro parti dal restauratore Antonio Magazzari, separando i quattro gruppi più importanti: così la parte superiore venne divisa nei due pezzi della Madonna in gloria con cherubini, mentre nella parte inferiore si decise di isolare il san Guglielmo dalla Maddalena, di cui rimane il frammento con il teschio. L’annotazione di Gaetano Giordani all’interno della Felsina Pittrice aggiungeva notizie riguardo al brano con la Vergine e gli angeli: “Questo quadro fu tagliato in vari pezzi il gruppo superiore con la Vergine, Bambino ed Angeli è stato or ora inciso dal valente accademico Sig. Antonio Marchi”. Quest’ultimo aveva vinto il concorso organizzato dall’Accademia nel 1835 per il premio Curlandese, presentando appunto l’incisione della parte superiore della tela di Francesco Albani. L’incisore aveva avuto modo di realizzare l’opera avendo visto il frammento della Madonna in gloria con cherubini in casa del conte Merendoni, che lo aveva ricevuto dal conte Cesare Bianchetti.
In seguito, i quattro frammenti ebbero differenti ed incerti passaggi collezionistici; l’unico di cui si ha notizia è il San Guglielmo che, passato prima dalla collezione Zambeccari, rientrò nelle sale della Pinacoteca Nazionale di Bologna e venne catalogato nell’inventario amministrativo del 1917 come “Scuola veneta del XVII”. Il Teschio venne invece segnalato a Milano presso Nené Piatti Antichità di Giovanni Minozzi, ancora accompagnato dall’iscrizione ottocentesca del primo restauratore, per tornare infine alla Pinacoteca Nazionale di Bologna dal 2006 grazie alla donazione dell’architetto Vincenzo Vandelli. Del sopraqquadro con il Coro dei Serafini non si hanno notizie successive alla vendita al conte Cesare Bianchetti. Sulla base della stampa di Antonio Marchi, nel 1969 la Madonna in gloria con cherubini fu individuata da Eric Van Schaack in una collezione privata bolognese, dove era documentata da una fotografia eseguita sul principio del secolo scorso da Felice Croci, poi recuperata e riprodotta anche da Catherine Puglisi nella propria monografia del 1999. Il resto è storia degli ultimi mesi: dopo essere ritornata alla luce sul mercato nel 2023, è stata acquistata da Fondantico di Tiziana Sassoli, che ne ha affidata la pulitura a Andrea Cipriani di Firenze. E Francesco Albani ha ritrovato se stesso.