L’Adorazione dei Magi, unica opera giunta intatta fino a noi, ordinata al pittore dall’uomo più ricco di Firenze, Palla Strozzi, per la propria Cappella in Santa Trinita a Firenze — la cui esecuzione architettonica era stata affidata al Ghiberti — ed ora esposta alla Galleria degli Uffizi. Firmato nel 1425, questo favoloso assemblaggio — un tema caro al gusto «cortese » che aveva modo di allargare il racconto con invenzioni e fiabe — è un insieme di iperboli fantasiose, il non plus ultra della cultura pittorica cortese, dove alba e tramonto, favole e invenzioni, sacro e profano si intrecciano a verità verificabili, dolcezze e melanconie, violenze e morte, dove c’è tutta la trasposizione figurativa di un mondo che si stava dissolvendo. La cavalcata dei Magi è vista in uno spazio unico ma in momenti successivi: dalla apparizione della stella ai Magi sul colle a sinistra, al di qua di una distesa marina, alla lunga cavalcata, al cammino per monti valli, paesi e castelli fino al primo piano, alla ribalta finale di questa lussuosa visione scenografica, dove arrivano, dopo tanto viaggiare e girovagare tra scene di caccia, i Re che fermano il proprio cammino bardati, e scendono dai cavalli per rendere omaggio al Bambino Gesù.
Un mondo arcano ed elegante, con annotazioni esotiche, da spiegare anche «con lo snobismo e coi gusti aristocratizzanti del comittente», mercante ricchissimo, ma anche uomo di cultura. E Firenze, allora, era città che guardava lontano proprio per le sue mercature e i suoi raffinati prodotti che raggiungevano ogni angolo del mondo conosciuto. In quel dipinto ubertoso, fatto di cornici dorate, di colori, di sacri eventi, di mondanità, di preziosità insuperabili, c’è l’universo intero, iniziando dall’Eterno e dai profeti. L’affollamento in primo piano di uomini e cavalli è tale da sembrare l’accolta di una festa, di un torneo, di una sfilata, dove un mondo raffinato ed indifferente si mostra, fa bello spettacolo di sé, come il giovane re al centro, con l’abito prezioso trapunto d’oro e di ricami. Egli ha l’aspetto di un manichino per solennizzare la preziosità del vestire e la sostenuta eleganza del proprio comportamento. L’evento è una splendida parata, vi manca qualsiasi sollecitazione al significato profondo che esso contiene per la Cristianità (quanta differenza con la drammatica interpretazione che di quello stesso episodio evangelico, di lì a pochi decenni, saprà offrire Leonardo in modo drammatico e severo, visibile a poca distanza in quella stessa Galleria fiorentina).
Ma a ben guardare non tutto è oro e splendore, non tutta è estenuata e quasi stucchevole, per quanto altissima, raffigurazione. Nella predella, quasi in contraddizione, tre episodi: la Natività, la Fuga in Egitto, la Presentazione al Tempio (di questa l’originale è al Louvre qui è una copia) propongono scene silenti solitarie, dove le ostentate presenze scompaiono, e dominano gli eventi. Il «notturno» della Natività sotto il cielo trapunto di stelle è una novità assoluta per quella luce che irradia dal Bambino, batte sulla facciata della casetta, là dove sta addormentata una ragazza: e sembra quasi la fantasia d’un pittore metafisico, una visione immersa nel mistero e nell’attesa di un evento temuto. Quell’atmosfera di attesa ha il suo seguito nella Fuga in Egitto, dove il sole è alto, ma il silenzio è profondo nello sguardo di Gesù e della Madonna, col San Giuseppe che precede e le gentildonne che guardano e commentano. Un’atmosfera rassegnata e dolente, così lontana dalla indifferenza totale della scena sovrastante; un sentimento doloroso incombe quasi come nell’addio di Lucia nei Promessi sposi. Ma le eleganti gentildonne sono un richiamo alla realtà fiorentina, quella più prossima, vissuta in prima persona. E si noti quanto esse sono affini, quasi partecipi d’una stessa festa con le «modelle» disegnate dal Pisanello, nei fogli del Museo di Bayonne.
Ultima, ma non ultima attrazione di questa grande opera che è l’Adorazione, estrema esperienza di una figurazione che stava per dissolversi e cedere il passo ad un gusto nuovo, è la decorazione «floreale» dei pilastri traforati che chiudono lateralmente la macchina meravigliosa. Là, dove generalmente occhieggiano in composizioni analoghe - fino alla pala di Pesaro del Bellini — figure di Santi sovrapposti, Gentile ha inventato un assemblaggio di erbe e di fiori, quasi un omaggio ed un addio definitivo ai prati fioriti cari alla pittura lombarda del tempo. Ma quelle presenze assumono qui un valore di nuovo conio, quello della «natura morta», come bene ha notato il Grassi, seguito dal Bellosi, il quale afferma: «non può che lasciarci stupiti il fatto che gli appassionati di questa particolare zona dell’arte non abbiano messo in evidenza questo aspetto stranamente anticipatore di Gentile». Ed infatti erbe e fiori, fragole e ciliegie, tutto quanto la natura può offrire alla nostra ammirata attenzione, l’artista ha qui raccolto con una precisione di resa da interessare arte e scienza. E anche per questo l’Adorazione appare un’opera emblematica: lo fu quando venne collocata nella Cappella degli Strozzi a Santa Trinita, lo è ancora oggi alla distanza di oltre cinque secoli.
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Pietro Zampetti, Gentile e i pittori di Fabriano, Nardini, Prato, 1997, pp. 99-100
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