L’incertezza nell’accettare l’attribuzione a Cimabue, proposta del Thode per l’opera mai ricordata nelle fonti e priva di qualsiasi documentazione, era dovuta soprattutto allo stato di conservazione che permetteva solo di intuirne non di valutarne a fondo i fattori artistici. Sì che quand’anche si era accettata quella paternità, il problema della cronologia aveva potuto essere impostato solo in base a esteriori considerazioni iconografiche. Lo schema compositivo della Madonna dei Servi, coi due angeli dietro lo schienale del trono, quello già preferito da Coppo di Marcovaldo, ma ormai antiquato a Firenze sulla fine del Duecento, aveva indotto alcuni studiosi a considerarla opera giovanile, anteriore alle Madonne di Santa Trinita (ora agli Uffizi), del Louvre, della chiesa inferiore di Assisi, più complesse di composizione, e il Sirèn, esagerando questa tendenza, parla addirittura di un lavoro poco lontano come epoca dalle Madonne di Coppo, o addirittura eseguito da Cimabue in un ipotetico alunnato presso questo artista.
Ma ora altri elementi sono venuti in luce per risolvere tali questioni. La forma, prima di tutto, non più debole, vuota, come le ridipinture la facevano apparire, ma ampia, fortemente plastica. Ora, pur nell’assottigliamento del colore, appare il profondo rapporto plastico tra la luminosità delle parti salienti e l’intensità cupa degli addentramenti, l’infinita graduazione dei piani chiaroscurali nelle scultoree pieghe che si susseguono dal partito sul petto a quello tra le ginocchia per allargarsi nel gran lembo ricadente a sinistra in una chiara solennità ritmica quasi esemplata sulla scultura classica.
E il colore appare ora nella genuina limpidezza dei suoi toni, ma anche nell’intensità del suo valore luminoso, massimo coefficiente di quell’effetto plastico. S’intensifica come gradazione dall’ocraceo del tono, attraverso il verde tenero del drappo su di esso, al profondo oltremare del manto. E intorno a queste essenziali masse cromatiche, si dispongono quasi in vivido alone le note squillanti nelle ali variopinte degli angeli ai lati, nei loro manti rosati, nei due lembi vermigli del cuscino, nel carminio della veste in basso, compendiandosi al centro ogni valore luminoso nel trasparente viola del Bambino.
Questa equilibratissima costruzione cromatica è tutt’uno con l’effetto plastico, perché tutta permeata di luce, graduata nelle sue intensità da una volontà precisa di segnare anche attraverso il colore la profondità e la continuità dello spazio. Non è più la decorativa giustaposizione di toni cui la pittura romanica, dominante a Firenze fino al tardo Duecento, aveva ridotti i suggerimenti plastici di quella bizantina. S’intendono ormai con piena coscienza quei suggerimenti: si sa ormai che la terza dimensione, dove si definisce il volume dei corpi, non più irrealizzati nella fantasia, ma esaltati nella loro reale consistenza, si consegue graduando per tutto, in continuità, le intensità luminose. È ciò che sarà inteso da Giotto, ma anche volto da lui a fini diversi. In Giotto - e ben si vede nella Madonna degli Uffizi - domina forma e spazio una potente astrazione architettonica. Le masse cromatiche sono definite, sì, da intensa graduazione di luce, ma immobilizzate, pietrificate ormai in un ritmo architettonico fuori d’ogni realtà. Il colore non è in lui vibrazione ambientale: sembra solida materia ai singoli volumi. I toni quasi si giustapongono a individuarli, nel metro sovrumano che crea a nuovo forma e spazio. Qui invece la plasticità è in divenire, sorge da tutto l’ambiente pittorico.
Le masse non si chiudono in simbolica, immobile astrazione, ma paiono rivelarsi, affiorando da irreali lontananze, in una luce per tutto diffusa. Questo vigoroso plastico ha riportata all’interno del colore quella luce che i suoi maestri bizantini avevano irrealmente irradiata sulle superfici, commento prezioso alla preziosità dei toni. L’ ha resa massimo fattore della sua scultorea volontà. Ma, ancor memore di quel bizantino splendore, l’ha anche dispersa dovunque, nell’atmosfera in cui le sue forme vivono. Essa vibra, riverbero luminoso, sul drappo del trono coi suoi ricami, sui veli del Bambino, sul lembo della veste della Vergine. È un senso ambientale del colore e della luce, un continuo movimento plastico-luminoso, diverso dalla immota geometria di Giotto. Ma non si può immaginare quella geometria senza il presupposto di questo riaffermarsi potente del senso plastico in mezzo alle tendenze decorative, ancora romaniche, della pittura dugentesca, specie a Firenze. E questo appare con così analoga coscienza, e con così analoga scelta di mezzi espressivi, nelle Madonne di Santa Trinita, del Louvre, di Assisi, in quella dei Servi, da indurci a considerare tutte queste opere prodotto di un’unica volontà artistica. Anche se la piena dimostrazione di questo richieda più estesi confronti, più intima definizione della opera di Cimabue di quanto non consenta una relazione di restauro.
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Luisa Becherucci, Il restauro della ‘Madonna dei Servi’ a Bologna, in Bollettino d’Arte, XXXI, I (luglio 1937), pp. 14-16
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