Uno studio sulla Gioconda, il più famoso capolavoro di Leonardo da Vinci (Vinci, 1452 - Amboise, 1519) ha rivelato per la prima volta, attraverso un’analisi non invasiva condotta con mezzi digitali, che l’artista realizzò il celeberrimo ritratto di monna Lisa con la tecnica dello spolvero: lo studio sarà pubblicato sulla rivista Journal of Cultural Heritage ed è stato condotto da Pascal Cotte, ingegnere dei laboratori Lumière Technology, e da Lionel Simonot, specialista di proprietà ottiche dei materiali dell’Università di Poitiers. La scoperta di Cotte e Simonot conferma dunque che la Gioconda non è stata dipinta a mano libera: Leonardo ha dapprima eseguito un disegno preparatorio e poi lo ha trasferito sul supporto definitivo con la tecnica dello spolvero. Si trattava di una tecnica, molto diffusa presso i pittori toscani, che serviva per riportare un disegno: si adoperava un cartone con il disegno, che veniva forato lungo i contorni, quindi appoggiato sul supporto e tamponato con un sacchetto riempito di carboncino. Il pittore rimuoveva quindi il cartone e trovava, sul supporto, una traccia a puntini del disegno.
L’analisi è stata condotta con le tecnologie di Lumière Technology su richiesta del Louvre. I due studiosi sono partiti dalla documentazione disponibile: le analisi condotte in precedenza, e in particolar modo le ultime riflettografie realizzate tra il 2004 e il 2006, avevano rivelato la presenza di pentimenti, ma non avevano menzionato la presenza di tracce dello spolvero. Il dipinto è stato dapprima digitalizzato con una fotocamera multispettrale sviluppata da Lumière Technology con l’obiettivo di massimizzare le performance ottiche e digitali: la fotocamera è in grado di produrre immagini ad alta risoluzione su 13 lunghezze d’onda (dieci nella banda visibile, e tre nella banda NIR, vicina alla banda infrarossa).
“Il problema nella ricerca dei disegni preparatori”, si legge nello studio, “sta nel fatto che il pigmento del carboncino usato per lo spolvero non ha una firma spettrale. L’obiettivo è quindi rilevare piccolissime differenze spettrali legate al carboncino, ovviamente conoscendo a priori l’area dove è situato il disegno preparatorio. [...] Gli strati pittorici dei dipinti antichi di solito sono spessi, approssimativamente, 1 millimetro, e le loro proprietà ottiche (assorbimento e dispersione) consentono alla luce di penetrare in base alla sua lunghezza d’onda. Tuttavia, l’estrema complessità dell’interazione tra la luce e il materiale riguarda tutte le componenti della superficie pittorica: le vernici, la varietà dei pigmenti, le dimensioni della grana dei pigmenti e della loro forma, i leganti (per esempio l’olio, il mastice, la cera, l’uovo), i seccativi (il piombo), gli additivi (colle, vernici, mastici, vetro), i metodi di preparazione, le sovrapposizioni, lo spessore di ciascuno strato, i disegni preparatori e la preparazione della superficie (carbonato di calcio, calcite) e i fattori d’invecchiamento dei materiali. Senza una precisa conoscenza della struttura degli strati, è impossibile stabilire un modello predittivo per ottenere un’immagine all’esatta profondità desiderata”. Per superare questo ostacolo, l’analisi di Cotte e Simonot ha combinato le immagini ottenute dalla camera multispettrale con un metodo innovativo ribattezzato L.A.M. (“layer amplification method”, metodo di amplificazione degli strati), che prevede l’impiego di diversi coefficienti di calcolo da applicare alle immagini ottenute con la fotocamera multispetterale al fine di ricavare ulteriori immagini situate tra le diverse lunghezze d’onda. Cotte e Simonot hanno rivelato che questo metodo ha consentito di ottenere 1.650 diverse immagini.
Il metodo, spiegano i due studiosi, può dare anche falsi positivi: le immagini devono essere quindi validate da un esperto che verifica le informazioni acquisite (“dev’essere uno specialista di pittura”, dicono i due ingegneri, “in modo che possa interpretare correttamente i segnali rilevati”). Per provare la bontà del metodo, i due hanno anche preparato una tavola di test, anch’essa eseguita con la tecnica dello spolvero, ricoprendo le tracce del disegno con strati di colore stesi con spessori crescenti: la tecnica L.A.M. applicata al dipinto di prova ha consentito di rilevare lo spolvero molto meglio rispetto alle riflettografie.
E nella Gioconda le tracce dello spolvero sono state riscontrate in due punti del dipinto: sull’attaccatura dei capelli alla fronte, e sul bordo inferiore della mano destra. Si tratta di due punti del dipinto dove la superficie pittorica assorbe poca luce ed è stato dunque possibile ottenere dei risultati puntuali. Le tracce sulla fronte sono disposte peraltro in un’altra posizione rispetto al dipinto finito, segno che Leonardo cambiò idea in corso d’opera. C’è infine un terzo dettaglio che è stato rilevato dall’analisi multispettrale, un piccolo disegno vicino alla testa, la cui forma ricorda quasi quella di una forcina per capelli, per il quale Cotte e Simonot non hanno una spiegazione certa (“sembra appartenere”, scrivono nello studio, “a un progetto precedente che poi Leonardo ha abbandonato”: forse, ipotizzano, una decorazione nella capigliatura della Gioconda che poi l’artista non ha incluso nella redazione definitiva).
“Abbiamo dimostrato”, spiegano i due ricercatori nelle conclusioni, “che un disegno preparatorio sotto uno spesso strato di biacca può emergere utilizzando una fotocamera multispettrale e la tecnica L.A.M. Le riflettografie infrarosse non sono sufficienti da sole: è necessario combinare le bande spettrali, soprattutto nella zona visibile”. E ancora, la ricerca dimostra per la prima volta l’utilizzo dello spolvero sulla monna Lisa, e di conseguenza prova l’esistenza di un cartone da cui l’opera sarebbe stata tratta. Inoltre, questa scoperta, sostengono Cotte e Simonot, “ci consente di stimare il grado di libertà che Leonardo si concedeva nell’esecuzione di un dipinto”.
Curiosamente, questo ritrovamento è del tutto incidentale, dal momento che la finalità dell’indagine era quella di conoscere la firma spettrale dei pigmenti utilizzati da Leonardo, che era stata richiesta a Cotte e Simonot dal Centre de recherche et de restauration des musées de France. “È stata una grande emozione”, ha dichiarato Cotte al Journal del CNRS, il Centre National de la Recherche Scientifique (omologo francese del nostro CNR). “Ho dovuto mostrare le immagini a tante persone per convincermi che non sognavo”. Cotte e Simonot ringraziano infine il Louvre per aver autorizzato la digitalizzazione del dipinto e per aver dunque reso possibile la ricerca.
Nella fotografia sotto: la Gioconda con le immagini ricavate dallo studio di Cotte e Simonot che evidenziano i punti in cui sono state ritrovate le tracce dello spolvero.
Importante scoperta su Leonardo da Vinci: trovate le tracce dello spolvero sulla Gioconda |