Il pubblico le ha viste di recente alla mostra Caravaggio and Bernini che si è tenuta in due tappe, tra il 2019 e il 2020, al Kunsthistorisches Museum di Vienna e al Rijksmuseum di Amsterdam. In Italia sono state esposte soltanto due volte: a Palazzo Strozzi nel 1962, alla mostra sui Bronzetti italiani del Rinascimento, e a Roma, nel 1899, per l’Esposizione berniniana che si tenne quell’anno al Palazzo dei Conservatori, in Campidoglio. Adesso, le quattro teste grottesche urlanti di Gian Lorenzo Bernini (Napoli, 1598 – Roma, 1680) arrivano per la prima volta sul mercato: a presentarle ai potenziali acquirenti, con richiesta da 1,6 milioni di euro, è Flavio Gianassi FG Fine Art che ha scelto il prestigioso palcoscenico della Biennale Internazionale dell’Antiquariato di Firenze per far vedere da vicino a tutti le quattro teste, quattro elementi in bronzo che facevano parte della carrozza personale di un Bernini all’apice del successo, e possono essere datate a un periodo tra il 1650 e il 1655.
Vennero fuse dallo stesso modello e colpiscono per l’espressione del volto: occhi spalancati, sopracciglia fortemente inarcate, bocca che grida, i capelli e la barba divisi in ciocche spigolose per esprimere un moto di disperazione, senza avere però carattere naturalistico: sono semmai da vedere come quattro testine caricaturali, di genere grottesco, da intendere soltanto come decorazione. L’attenzione al dettaglio, anche nella dimensione e nella funzione decorativa applicata, è stata messa in relazione con la testa ferina a bocca aperta che orna l’elsa della spada dell’Ares Ludovisi, aggiunta dal Bernini. La loro monocromia dorata non è un limite alla ricerca del movimento e della drammaticità, ottenute grazie al geniale uso di luci e ombre, curve e spigoli, che riesce a renderle quasi vive. Opere di fine esecuzione, stravaganti, dotate ciascuna di un foro irregolare sulla nuca (serviva per alloggiare i piumaggi in voga all’epoca), erano state realizzate originariamente come elementi laterali per la carrozza personale di Bernini. Sarà proprio Bernini, in epoca imprecisata, a rimuoverle dalla vettura per includerle nella sua collezione personale e collocarle, come ricorda il primo inventario, nella sala dell’appartamento nobile del suo palazzo in via della Mercede insieme ad un “ritratto di Papa Urbano Ottavo fatto di creta cotta” e ad un “ritratto del Card.l Borghese di creta cotta”. Si tratta di un gruppo di sculture, oggi montate su piedistalli di marmo nero Marquiña, che sono sempre, ininterrottamente rimaste in possesso degli eredi dell’artista, fino a oggi.
È da sottolineare che la tradizione familiare le ricordava come ornamenti della carrozza utilizzata da papa Innocenzo X, realizzate in occasione dell’inaugurazione della Fontana dei Quattro Fiumi del Bernini in piazza Navona, il 12 giugno 1651, ma in realtà, proprio grazie alle scoperte sugli inventari, è ormai evidente che fossero state fuse dall’artista per la sua carrozza. La loro storia, come detto, è tuttavia sempre stata legata a quella della famiglia Bernini. Dopo la scomparsa dello scultore nel novembre del 1680, la sua raccolta personale passò al figlio Paolo Valentino, che la teneva nella residenza in via della Mercede 11, nel Rione III Colonna di Roma, nella quale l’artista viveva già dal 1641, anno in cui acquistava l’immobile dalla marchesa Fulvia Naro. Valentino era nato nel 1648 dal matrimonio di Gian Lorenzo con Caterina Tezio, avvenuto il 15 maggio 1639, era stato anche lui scultore e aveva lavorato assieme al padre. Nell’inventario del 1681, il primo effettuato dopo la morte dell’artista, le sculture sono riportate nell’appartamento nobile come “quattro Testine di gettito di bronzo con li suoi piedi di pietra”. Anche quando l’eredità passa a Prospero, nipote di Bernini e figlio di Paolo Valentino e Maria Laura Maccarani, di antica e nobile famiglia romana, la collezione resta nel palazzo di via delle Mercede. In quanto discendente diretto di Gian Lorenzo, egli ereditò la parte più consistente della collezione, alla quale si deve aggiungere l’eredità degli zii Pietro Filippo e Francesco. Prospero aveva ottemperato a quanto stabilito nel testamento del nonno, facendo redigere, a intervalli di venticinque anni, nel 1706 e nel 1731, la “rinovatione”. Nell’atto del 1706 sono ricordate nell’anticamera “quattro Testine di gettito di bronzo son li suoi piedi di pietra, quali erano li vasi della carrozza già descritta”. Nello stesso inventario compare peraltro una descrizione della “rimessa contigua al tinello”, dove sono ancora presenti “Due carrozze tutte con le sue bandinelle e con tutte le mute di dette bandinelle, quali erano della b.m. del detto signor Cavaliere Giovanni Lorenzo, e per tanto antichissime, e vecchie, le quali per il lasso del tempo si di prima come per essere state coperte di scorruccio dopo la morte di detto signor Cavaliere si sono lograte dalli signori heredi, e vi sono rimasti quattro pomi di metallo d’una carrozza, quali si sono fatti indorare, e si conservano”.
Nell’inventario del 1756 Prospero dichiarava solo brevemente che nulla era cambiato e che tutte le statue e i dipinti rimanevano come e dove erano nel 1731, non eseguendo così la pratica richiesta dalle disposizioni testamentarie. Alla morte di Prospero succede il figlio, Mariano che il 12 agosto 1771 fa redigere un nuovo inventario. Grazie a quest’ultimo sappiamo la disposizione degli ambienti e delle opere nel palazzo di via della Mercede, dove le quattro teste della carrozza di Gian Lorenzo erano collocate nell’anticamera e descritte, ai numeri 170-173, come “quattro Teste di Metallo dorato gettato sul modello originale del Bernino con piedi di Bianco e negro”. Il documento, redatto dal rigattiere Stefano Sartori con l’aiuto del pittore Gaspare Scaramucci, oltre alle misure delle opere fornisce anche le loro attribuzioni. Mariano, inoltre, alla morte della madre Ortenzia Manfroni eredita il Palazzo di via del Corso, pur mantenendo la sua residenza in via della Mercede. Dopo la morte di Mariano (1789) l’eredità passa al figlio di prime nozze Francesco, il quale alla sua morte nel 1841 la lascerà, come documentato, al fratello Prospero Junior, figlio di seconde nozze di Mariano. Le opere sono ricordate nell’inventario del 9 novembre 1841, presenti “nella camera alla descritta con una fenestra sulla strada, denominata dé quadri” sopra un “tavolino di albuccio verniciato rosso intagliato, e dorato ad oro buono con pietra al di sopra di giallo, e nero […] quattro Mascheroni di metallo dorati originali del celeberrimo autore Bernini, con basi di porto venere”. In questa successione i quattro bronzi, insieme alle opere più importanti della collezione Bernini, passano dal palazzo di via della Mercede a quello di via del Corso, dove dal 1816 risiedevano Prospero e la sua famiglia. Il 19 maggio 1858, alla morte di Prospero Bernini, viene redatto un nuovo inventario questa volta presso via del Corso 151, dove nella camera da letto, sopra “un tavolino di legno intagliato e dorato in pietra sopra impellicciata di verde di ponsella” vengono registrati i quattro bronzetti descritti come “quattro piccoli busti di metallo dorato a buono”.
Alla morte di Prospero Bernini, non avendo eredi maschi, l’asse ereditario passa a Vincenzo Galletti, marito della figlia Concetta Caterina, ultima dei Bernini, morta nel 1866. Presso di loro sono ricordati nella guida de “i rioni di Roma” del 1899 come “quattro teste grottesche di metallo, modellate dal Bernini stesso”. Dei loro figli sopravvive solo Teresa Galletti che sposa Augusto Giocondi, dai quali nasce Caterina Giocondi che a sua volta sposerà Francesco Forti nel 1890. Da questi nasce Carlo Forti, padre degli attuali proprietari. Infine, il 20 febbraio 1964 viene redatto, da Giuliano Briganti, l’ultimo catalogo e stima dei dipinti e delle sculture di proprietà della famiglia Forti e provenienti dalla successione di Casa Giocondi, erede di Gian Lorenzo Bernini. Il nucleo originario della collezione di Gian Lorenzo, come possiamo leggere nel suo testamento, comprendeva opere da lui realizzate, ma anche altre acquistate e commissionate ad altri artisti.
Non abbiamo idea di fosse il significato ultimo delle quattro teste, ammesso che lo abbiano avuto e non fossero solo una dimostrazione della genialità berniniana. C’è chi, al più, le ha associate alla tradizione dei marginalia, le figure marginali deformi, spaventose o bizzarre del mondo sottosopra che forniscono un commento derisorio, ma decorativo, sulla serietà dell’esistenza terrena. In ogni modo avrebbero avuto una funzione sarcastica sulla carrozza dello scultore: probabilmente avevano lo scopo di esplicitare la sua posizione sulla vita quotidiana, la posizione di chi non si prendeva troppo sul serio oppure non prendeva sul serio gli altri, tanto da ritenerli meritevoli di urla beffarde se avessero osato guardare la carrozza dell’artista.
La scultura berniniana ha una lunga tradizione di volti stravaganti. Già nel 1619, quando Bernini era poco più che ventenne, si ritrova il primo esempio di espressione incisiva e violenta, come mai realizzata prima in scultura. L’Anima Dannata, oggi conservata nel palazzo dell’Ambasciata Spagnola a Roma, è infatti il primo volto, sfigurato da un urlo quasi ferino, in cui il marmo non è da limite al dinamismo dell’opera, che rappresenta un giovane, oppresso dal tormento, con lo sguardo rivolto in basso, e che rende partecipe il pubblico dei suoi orrori. Anche se probabilmente il soggetto è ritenuto un fauno, Rudolf Wittkower suggerì che l’opera avrebbe potuto essere stata lavorata davanti allo specchio e quindi possa essere un autoritratto. Simile dramma è quello che anima il succitato intervento di Bernini sull’Ares Ludovisi: la statua romana, itrovata nel 1621, entrò a far parte della collezione di antichità del facoltoso cardinale Ludovico Ludovisi che affidò al giovanissimo Bernini l’incarico di completare l’opera. Rifinita la superficie e rifatto il piede destro, Bernini si divertì con la testa urlante dell’elsa, simile ai bronzi della sua carrozza.
Non era raro che a Roma gli scultori venissero chiamati per realizzare i disegni, spesso esuberanti, scultorei e simbolici, delle vetture ufficiali, e sono varie le invenzioni documentate per tali decorazioni del Bernini. Lo scultore progettò, per esempio, le figure ornamentali per la carrozza donata da papa Alessandro VI alla regina Cristina di Svezia nel 1655, la cui invenzione è testimoniata dal disegno autografo conservato alla Royal Library di Windsor, e probabilmente, si occupò anche di quella destinata al re di Spagna. È solo grazie ad un disegno di Nicodemus Tessin il Giovane (Stoccolma, Nationalmuseum), derivato a sua volta da un disegno Bernini, che conosciamo il design esterno di quest’ultima prestigiosa che presenta agli angoli dei fregi con mascheroni grotteschi simili ai bronzi. Questo fa pensare, come ha osservato la studiosa Jennifer Montagu, che Bernini trovasse tali motivi particolarmente adatti a essere utilizzati come decorazioni per queste tipologie di carrozze.
Il fatto che già nel 1899 le sculture furono esposte alla sopraccitata Esposizione berniniana del 1899 denota l’interesse che gli studiosi hanno sempre avuto per queste piccole sculture. La mostra del 1899, pensata per celebrare il terzo centenario della nascita dell’artista (1898), fu un grande evento inaugurato il 19 aprile 1899 preso il Palazzo dei Conservatori a Roma, e come ricorda un articolo di Civiltà Cattolica di quell’anno, le quattro teste erano esposte nel mezzo della Sala degli Orazi e dei Curiazi insieme ad altri bozzetti e bronzi dell’artista. Si deve tuttavia a Stanislao Fraschetti, nella sua fondamentale monografia su Bernini, la prima in assoluto dedicata all’artista, la prima attribuzione scientifica dei bronzi. Racconta infatti di una visita in casa Giocondi dove “si conservano quattro mascheroni di bronzo dorati, di mano del Bernini [...] posati su uno zoccolo di marmo policromo. Hanno i ceffi contratti quasi in un senso di portentosa meraviglia” e aggiunge che quelle testine “hanno i capelli foggiati nel modo consueto dei bozzetti dell’artista, e cioè serbano quasi l’impronta del pollice e dell’indice che formarono la ciocca semplice e unita come una escrescenza solida”.
Solo dopo circa sessant’anni, nel 1961, le opere tornano ad essere visibili al grande pubblico, come autografe di Bernini, al Victoria and Albert Museum, in occasione della mostra Italian Bronze Statuettes alla quale segue, nello stesso anno, la mostra al Rijksmuseum di Amsterdam e l’anno successivo quella di Palazzo Strozzi a Firenze, Bronzetti italiani del Rinascimento. John Pope Hennessy, nel suo articolo del 1963 a commento della mostra del V&A, pur rammaricandosi che la sezione barocca non fosse ricca come sperato, riconosceva ai curatori il merito di essere riusciti ad includere le quattro teste dorate. Le opere sono state sempre concordemente pubblicate come autografe fin dalla prima monografia su Bernini, e solo Wittkower nel 1981 esitò a riferirle alla mano diretta di Bernini, sulla base dell’inventario del 1706 che non cita l’autore. Un’opinione, quella di Wittkower, superata dal successivo rinvenimento dell’inventario del 1681.
Oggi dunque sul mercato finisce un gruppo di opere in bronzo che dimostrano non solo un momento importante della carriera di Bernini, ma anche quello che l’artista aveva realizzato per se stesso. Denotano inoltre un tratto della sua personalità spesso eccessiva ed eccentrica. E sono inoltre opere mai uscite dallo stretto ambito familiare. Naturale, dunque, che ci sia curiosità e attesa per un’eventuale vendita.