Uno dei più autorevoli studiosi di Caravaggio (Milano, 1571 – Porto Ercole, 1610), Alessandro Zuccari, ha messo in dubbio l’autografia di uno dei più noti dipinti attribuiti al pittore lombardo, il Davide e Golia del Museo del Prado: secondo Zuccari, alcuni dettagli del dipinto, meglio leggibili a seguito della recente pulitura operata dal museo di Madrid, non corrisponderebbero alla tecnica tipica di Caravaggio, ma lascerebbero propendere a suo avviso per un’attribuzione a Giovanni Antonio Galli detto lo Spadarino (Roma, 1585 – 1652).
Lo studioso ha avanzato l’ipotesi (rimandando tuttavia le conclusioni definitive ad analisi più approfondite) in un articolo pubblicato sulla versione online della rivista scientifica Storia dell’Arte di cui lo stesso Zuccari è direttore. Il docente dell’Università La Sapienza di Roma premette che comunque già in passato erano stati avanzati dubbi sulla paternità dell’opera, e lui stesso aveva avuto perplessità fin da quando la tela venne esposta nel 1985 alla grande mostra The Age of Caravaggio che si tenne a New York e a Napoli: in quell’occasione, l’autografia caravaggesca venne avallata da Mina Gregori, una delle massime autorità in fatto di Caravaggio. Il dipinto venne pubblicato come autografo, per la prima volta, da Adolfo Venturi nel 1927, tuttavia già pochi anni dopo c’era chi aveva espresso dei dubbi: tra questi, Juan Ainaud de Lasarte nel 1947 e Bernard Berenson nel 1951 (entrambi consideravano l’opera del Prado una copia). Anche Roberto Longhi ritenne inizialmente, nel 1943, che doveva trattarsi di un’opera di Carlo Saraceni o della sua scuola, anche se poi rivide la propria opinione (a otto anni di distanza) attribuendo il dipinto a Caravaggio dopo aver esaminato le riproduzioni pubblicate da Lasarte a seguito di una pulitura. Longhi riteneva infatti che la qualità del dipinto fosse troppo alta per una copia. Mina Gregori, nella scheda del dipinto pubblicata sul catalogo della mostra The Age of Caravaggio, scriveva che un’analisi del David del Prado sconta la difficoltà di una collocazione stilistica e cronologica nell’ambito della produzione di Caravaggio. “E nonostante la scrivente”, si legge nella scheda, “sia fermamente convinta che Caravaggio concepì l’immagine, al momento non può decidere se si tratta di un autografo o, cosa che sembra meno probabile, una copia”.
La stessa Gregori, tuttavia, come già Richard Spear nel 1971 (che Gregori citava nella scheda), notava un’affinità col Narciso conservato a Roma a Palazzo Barberini, un dipinto per il quale la critica, oggi, ha quasi all’unanimità scartato l’autografia caravaggesca, in favore di un’attribuzione allo Spadarino (quarant’anni fa, invece, i contorni della questione non erano ancora così chiari).
Zuccari, come anticipato, afferma di aver nutrito dubbi sull’autografia fin dall’epoca della mostra del 1985, “per la composizione un po’ schematica specialmente nel corpo di Golia e per il panneggio poco naturalistico che avvolge il braccio sinistro di Davide”, scrive lo studioso nel suo articolo, aggiungendo tuttavia di non aver espunto il dipinto dal catalogo di Caravaggio (come hanno fatto altri, per esempio Sybille Ebert-Schifferer che non considera l’opera nelle sue monografie su Michelangelo Merisi) per via dell’ampio accordo degli studiosi sull’attribuzione e per la mancanza di un nome alternativo al quale ascrivere l’opera. Lo studioso sostiene di aver avuto l’intuizione del nome dello Spadarino non appena visto il dipinto dal vero a seguito della recente pulitura. “Questo restauro”, aveva affermato Almudena Sánchez, responsabile dell’intervento, “ci mostra un nuovo Caravaggio, fornendoci un’immagine del dipinto fino ad ora sconosciuta, l’immagine autentica di questo grande capolavoro che dopo tanto tempo nell’ombra recupera la luce con cui fu concepito”. Un Caravaggio talmente nuovo... da suscitare dubbi.
Secondo Zuccari, il primo elemento su cui soffermarsi (e di cui dubitare, a suo avviso) è la linea scura che delimita il braccio di Davide e che il pittore ha tracciato, scrive lo studioso, “per evitare che la cromia chiara dell’incarnato non abbia il dovuto risalto su quella della manica di camicia”. Si tratta, spiega Zuccari, “di un espediente diffuso a cui Caravaggio solitamente non ricorreva e quando faceva uso del ‘disegno pittorico’ per definire le forme (dai laterali Contarelli in poi), mascherava le pennellate scure con colori appropriati: si veda ad esempio il braccio sinistro della Giuditta di Palazzo Barberini laddove si sovrappone alla camicia bianca. Invece, il braccio del giovane eroe, pur ben costruito volumetricamente, dal gomito al polso crea un certo effetto di ‘sagoma ritagliata’. A questo proposito sarà interessante esaminare le indagini radiografiche del Davide madrileno con quelle di opere certe del Merisi”.
Il secondo elemento dubbio secondo Zuccari sono gli incarnati “lucidi” che, scrive lo studioso, “non hanno corrispondenza con le modalità con cui li dipinge Caravaggio. Basti confrontare la figura di Davide con il nudo adolescenziale dell’Amor vincitore di Berlino per rendersi conto di come il pittore lombardo preferisca mantenere una certa opacità dell’epidermide, sebbene il corpo del ragazzo sia fortemente illuminato. I punti di luce così evidenti sul ginocchio e sulla mano destra di Davide costituiscono un carattere tipico dello Spadarino e si ritrovano, ad esempio, nel Narciso, nell’Angelo custode (Rieti, San Rufo) e nel San Sebastiano di Senlis (Musée de la Vénerie)”.
Ci sarebbero poi somiglianze tra il volto di Davide e alcune figure di adolescenti che si possono trovare nella produzione dello Spadarino, per esempio l’angelo giovane che compare nel dipinto con Santa Francesca Romana della Collezione BNL di Roma. Ancora, ulteriore elemento che sarebbe secondo Zuccari del tutto insolito per Caravaggio è il viso del protagonista in ombra, tant’è che gli altri dipinti con lo stesso soggetto, come il David di Vienna o quello della Galleria Borghese, presentano l’eroe biblico in posa frontale. Ma secondo Zuccari occorrerebbe dubitare anche della figura di Golia, “sia nella resa un po’ goffa del corpo, sia nella fisionomia del volto”.
Tuttavia un elemento favorevole a un’autografia caravaggesca potrebbe essere rappresentato dai pentimenti riscontrati dall’analisi delle radiografie, dal momento che è radicata l’opinione che Caravaggio fosse solito modificare di frequente le sue composizioni. “In origine infatti”, scrive ancora Zuccari, “la testa del gigante aveva un aspetto orrificante, con gli occhi sgranati, la bocca spalancata e i denti superiori in vista; pertanto il committente deve aver chiesto di ‘addolcire’ l’immagine, oppure il pittore preferì correggere il quadro per renderlo più appetibile sul mercato”. Tuttavia, la presenza di pentimenti servirebbe solo a escludere l’idea che si tratti di una copia, ma non fugherebbe i dubbi sull’autografia, poiché Caravaggio non era di certo l’unico artista a modificare le opere una volta cominciate e, anzi, secondo Zuccari “è necessario sfatare questo topos, che ricorre troppo spesso per dimostrare l’attribuzione di un dipinto al maestro lombardo”.
In conclusione, Zuccari non intende “declassare”, come afferma, un capolavoro del Prado, quanto piuttosto riaprire un dibattito che a suo avviso “non è giunto a conclusioni convincenti, come non lo erano quelle riguardanti il Narciso della Galleria Nazionale di Palazzo Barberini”.