Un Caravaggio mai visto prima si svela al pubblico. Dal 23 novembre 2024 al 23 febbraio 2025, le Gallerie Nazionali di Arte Antica a Roma ospiteranno infatti un evento di portata storica: la prima esposizione al pubblico del Ritratto di monsignor Maffeo Barberini, opera di Caravaggio (Michelangelo Merisi; Milano, 1571 – Porto Ercole, 1610), visibile nella Sala Paesaggi di Palazzo Barberini.
Mai esposto prima d’ora, il dipinto proviene da una collezione privata ed è unanimemente considerato un’opera autografa di Caravaggio. L’opera ritrae Maffeo Barberini (Firenze, 1568 – Roma, 1644), futuro papa Urbano VIII, intorno ai suoi trent’anni. Raffigurato seduto su una poltrona collocata in diagonale, il monsignore è immerso in un’atmosfera drammatica creata dal forte chiaroscuro, con il volto e le mani illuminati da una luce potente che buca il buio dello sfondo. Il personaggio, vestito con abiti talari nei toni del verde, tiene una lettera piegata nella mano sinistra, mentre la destra, con un gesto improvviso, sembra dirigersi verso un interlocutore fuori dalla scena. Il movimento dinamico, l’intensità dello sguardo e i dettagli raffinati della pittura rivelano lo straordinario talento di Caravaggio nella resa psicologica e narrativa dei suoi soggetti.
“È il Caravaggio che tutti volevano vedere, ma sembrava impossibile”, afferma Thomas Clement Salomon, Direttore delle Gallerie Nazionali di Arte Antica. “Siamo felici e orgogliosi che le Gallerie Nazionali di Arte Antica siano riuscite in questa impresa e che per la prima volta in assoluto questo capolavoro possa essere ammirato da tutti a Palazzo Barberini”.
Il dipinto venne attribuito per la prima volta a Caravaggio da Roberto Longhi nel 1963. “Non più documento memorativo di mera somiglianza, e neppure presentazione amplificante e retorica come nel classicismo formale o cromatico di Roma o di Venezia”, scriveva lo storico dell’arte, “il ritratto appare qui, e forse per la prima volta, come esempio di realtà atteggiata. E che altro era da aspettarsi dal Caravaggio? Proprio a chi gli rimproverava di essere privo di ’attione’ il Caravaggio mostrava qui che persino il ritratto doveva essere azione, rappresentazione, dramma in nuce. [...] E così si apriva il ritratto moderno”. Il ritratto di Maffeo Barberini colma una lacuna significativa nella produzione ritrattistica del Merisi, noto più per i suoi soggetti sacri e mitologici. I ritratti di Caravaggio, infatti, sono estremamente rari, e molti di essi sono andati perduti.
Longhi, che pubblicò nel 1963 l’opera sulla rivista Paragone, la considerava un punto di riferimento per comprendere l’evoluzione della ritrattistica del pittore. La scoperta del dipinto si intreccia con una disputa tra Longhi e Giuliano Briganti, che ne fu il primo scopritore stando a quanto emerso dalla corrispondenza tra i due, e anche lui attribuì l’opera al Merisi, per primo, cedendo poi a Longhi il diritto di pubblicazione (la conferma di quanto accadde si ha in una lettera del 2 luglio 1963). Secondo l’ipotesi di Longhi, il quadro doveva essere rimasto alla famiglia Barberini per secoli, pervenendo sul mercato antiquario nel momento della grande dispersione della collezione, intorno al 1935. In quel tempo, tra 1962 e il 1963, il dipinto ebbe un significativo intervento di restauro. Anche Federico Zeri accolse l’attribuzione a Caravaggio. Nella Fototeca dello studioso, conservata all’Università di Bologna, una fotografia del dipinto contenuta nel fascicolo intitolato a Caravaggio ha sul retro la scritta autografa di Zeri con l’indicazione della sua provenienza dal mercante e conoscitore d’arte romano Sestieri, già curatore della Galleria Barberini. Dopo il ritrovamento di Longhi, sebbene non sia mai stato esposto al pubblico, il dipinto è stata accettato unanimemente dalla critica come autografo di Caravaggio.
Le caratteristiche autografiche del dipinto sono state confermate da esperti come Mia Cinotti, che lo incluse nella sua monografia caravaggesca del 1983, e da altri studiosi illustri come Federico Zeri, Francesca Cappelletti, Gianni Papi, Maria Cristina Terzaghi, Rossella Vodret, Alessandro Zuccari, e Keith Christiansen.
Sebbene non vi siano prove certe sull’identità dell’effigiato, il dipinto è tradizionalmente ritenuto il ritratto intorno ai trent’anni di monsignor Maffeo Barberini, futuro papa Urbano VIII (1623) e grande promotore delle arti, che sin da giovane fu letterato, poeta e collezionista. La prima testimonianza su ritratti fatti da Caravaggio per i Barberini è del biografo e medico senese Giulio Mancini, fonte particolarmente attendibile, sia perché fu un fine intenditore d’arte che aveva conosciuto personalmente il Merisi, sia perché fu il futuro medico di Urbano VIII. Secondo il biografo, Caravaggio “fece ritratti per Barbarino” (Mancini, 1617 - 1621). La notizia è ripresa da Giovan Pietro Bellori (1672) che cita espressamente due opere eseguite per quel committente: “Al cardinale Maffeo Barberini, oltre al ritratto, fece il Sacrificio di Abramo” (oggi alla Galleria degli Uffizi),
La maggior parte degli studiosi ritiene che l’opera sia databile intorno al 1599 circa e che sia stata commissionata a seguito della nomina di monsignor Maffeo a chierico della Camera Apostolica (marzo 1598), tappa fondamentale del cursus honorum curiale per il cardinalato (1606). È questo il momento in cui Caravaggio cominciò “ad ingagliardire gli oscuri”, frase efficace coniata dal Bellori per indicare il momento in cui il pittore iniziò a creare dipinti dai potenti contrasti di luce e di ombra che corrispondono alla cifra stilistica con cui si identifica l’intera opera del maestro. Secondo altri studiosi, il dipinto sarebbe da posticipare al 1603. Al ritratto potrebbero riferirsi i quattro pagamenti ricevuti da Caravaggio tra 1603 e 1604 per l’esecuzione di un quadro commissionato da Maffeo, di cui non viene specificato il soggetto. Il Ritratto si collocherebbe, perciò, nel momento in cui Clemente VIII inviò il prelato come nunzio pontificio a Parigi, alla corte del re di Francia Enrico IV. Sarebbe stato perciò richiesto al pittore dal colto e ambizioso Maffeo prima di intraprendere il delicatissimo viaggio diplomatico, che risulterà decisivo per la sua carriera.
Il dipinto colma una lacuna considerevole nell’attività del Merisi. La pratica del ritratto fu tutt’altro che insignificante per il Caravaggio del periodo romano. Il maestro, secondo le fonti, eseguì molti ritratti soprattutto di personalità della Curia e di amici e conoscenti, ma si tratta di opere per la quasi totalità andate perdute o distrutte. L’attività richiedeva una pittura veloce e sicura per la presenza del modello.
Il biografo Mancini rivela che il Merisi faceva ritratti “senza similitudine”, ovvero sottratti all’obbligo della accurata somiglianza fisiognomica ed era valentissimo. Con questo esercizio pittorico – campo di sperimentazione della pittura naturalistica – si realizzava al meglio la possibilità di dipingere dal vero e superare in vivezza la realtà fisica di uomini e oggetti, catturati in un’unità di visione, azione e sentimento. L’ecclesiastico indossa una berretta e un abito talare smanicato, sopra una veste bianca plissettata. La figura di tre quarti, illuminata da un fascio di luce, è seduta su una poltrona disposta di sbieco ed emerge da un ambiente buio e vuoto. Ridotti al minimo sono gli attributi che ne descrivono il ruolo: la veste, la poltrona, il rotolo di documenti, la lettera piegata. Lo sguardo impaziente, la bocca socchiusa e l’azione della mano che buca lo spazio “con la destra sospesa e rotante” (Longhi) suggeriscono che si stia rivolgendo a qualcuno fuori dalla scena, mentre l’altra mano, dalle forme arrotondate, stringe energicamente una lettera. In primissimo piano è un rotolo di documenti, chiuso da un cordone di velluto, fulcro attrattivo non casuale, che serve da guida prospettica della composizione e che può essere una traccia per l’identificazione del personaggio. Se le matrici culturali dell’opera sono state individuate dalla critica nella ritrattistica rinascimentale veneto-lombarda, da Giorgione a Moroni, il committente, che certamente è un intellettuale della più alta sfera sociale, è rappresentato qui, grazie alla luce incidente, con un’evidenza naturalistica e un’immediatezza del tutto inedite
La luce illumina l’epidermide, levigata e abbagliante, specie sulla fronte dove si rintraccia un impasto denso che imposta l’area della massima incidenza sull’occhio destro. Gli occhi chiari sono segnati da un leggero strabismo che accentua la vivezza dell’espressione. Tipica di Caravaggio è la tecnica di costruzione degli occhi, dove a separare la sclera dall’iride, il pittore lascia in vista un sottile profilo della preparazione e sull’iride applica una piccola e corposa pennellata di biacca che fissa il riflesso della luce e dà intensità allo sguardo. La gamma cromatica è limitata a pochi colori: bianco di piombo e terre per l’incarnato (senza cinabro), verde di rame per l’abito e lo schienale della poltrona, cinabro per i profili rossi, giallorino per le borchie dello schienale, terre brune per la preparazione che traspaiono dagli strati più sottili delle maniche.
Le sfumature sono giocate su una sinfonia di verdi, che la luce accende in riflessi e accordi originalissimi: il verde metallico della veste che nelle parti in ombra si attenua nei toni del verde oliva e il verde dorato e squillante dei velluti della poltrona e del cordone con i fiocchi del rotolo di documenti. Ammirare Il quadro nella sua materialità permette finalmente al pubblico di fruire di un’opera di Caravaggio mai vista in precedenza e consentirà ad esperti e studiosi di approfondirne gli aspetti scientifici e critici