Il cofanetto di Veroli. Uno spaccato di arte profana nel Medioevo | Finestre sull'Arte - Antiquitates

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2012, Quarta puntata

Il cofanetto di Veroli, di produzione bizantina (ci troviamo a Costantinopoli tra il IX e il XII secolo), è una rara testimonianza di arte profana prodotta nel Medioevo. In un'epoca in cui l'arte aveva una funzione pubblica, religiosa o comunque di rappresentanza, non è facile trovare oggetti commissionati da privati e che sono quindi liberi dagli schemi della fruizione pubblica: il cofanetto di Veroli, con decorazioni a soggetto mitologico, è uno di questi oggetti e Luca ce lo descrive nel suo articolo. L'opera è oggi conservata presso il Victoria & Albert Museum di Londra.


La concezione dell’arte che si aveva nel medioevo, in riferimento soprattutto a quella ufficiale – quella che parla alla gente, quella di rappresentanza, in altre parole, quella pubblica – esula dal concetto di “arte per l’arte”. Ci troviamo generalmente di fronte a opere “funzionali”, rappresentazioni che espongono precisi messaggi stabiliti e che non si possono allontanare da schemi codificati, pre-definiti, decisi a tavolino al momento della commissione dell’opera. Questa sorta di “assioma” è valido per i grandi cicli di affreschi, per le statue, per i mosaici, per i codici miniati e così via. Si tratta di un concetto che abbiamo intravisto, in parte, nelle opere che sono state trattate precedentemente.

In Oriente, la lunga diatriba che ebbe luogo tra VIII e IX secolo riguardo la liceità dell’utilizzo delle immagini sacre si risolse in favore di queste ultime, partendo dal presupposto che l’artista non inventa ma semplicemente ripete un modello che affonda la propria origine nella rappresentazione “dal vivo” dei personaggi della storia sacra. L’evangelista Luca, ad esempio, che era stato testimone diretto della vita di Cristo, ne aveva rappresentato diversi episodi, così come aveva ritratto la Madonna. Tali rappresentazioni erano state ripetute in maniera fedele nel corso dei secoli, cosicché chi osservava un’icona della Vergine non aveva alcun dubbio che quello fosse il vero volto della Madre di Cristo. La ripetizione fedele del modello era un “marchio di garanzia” sull’immagine. L’adesione al vero e il rispetto per i dogmi teologici sono i punti di partenza per la lettura di un’opera d’arte.

Diverso è, invece, l’approccio che si deve prestare nei confronti di quei pochi superstiti che ci sono pervenuti dell’arte privata, quella destinata al singolo e che non era fatta per una visione pubblica. Opere spesso costosissime, richieste da dotte persone di alto lignaggio e che, svincolate dai rigidi dettami imposti dalla fruizione pubblica, mostrano una vitalità inaudita sia nei riguardi della realizzazione, che della costruzione semantica delle raffigurazioni. È il caso ad esempio, della cosiddetta Cassetta di Veroli, un cofanetto bizantino che rientra in una nutrita classe di oggetti realizzati a Costantinopoli tra la fine del IX e l’inizio del XII secolo. Si tratta, in sostanza, di cofanetti portaoggetti realizzati applicando ad un’anima di legno placchette intagliate in avorio od osso. Un elemento condiviso da tutti questi oggetti, ovvero bande decorative che incorniciano le placche principali, all’interno delle quali sono intagliati fiori stilizzati entro cerchi, ha valso per le cassette l’appellativo di cassette a rosette.

Attualmente conservata presso il Victoria & Albert Museum di Londra, la più celebre di tali cassette si trovava fino al 1861 nella Cattedrale di Veroli, poco distante da Roma. Realizzata a Costantinopoli nella prima metà del X secolo – all’interno della cerchia che gravitava intorno all’imperatore Costantino VII Porfirogenito (913-959), se non per richiesta dell’imperatore stesso –, la cassetta si compone di sette pregiatissimi pannelli di avorio intagliato (e in qualche parte sicuramente dipinto e dorato), incorniciati da bande di rosette, che rappresentano storie le cui origini affondano principalmente nella mitologia greca, attraverso la mediazione dell’arte tardo antica. Sul coperchio a scorrimento, a partire da sinistra, si osservano il Ratto di Europa affiancato da un gruppo di giovani intenti a scagliare pietre contro il toro-Zeus (immagine che non fa parte del mito); seguono un gruppo di amorini danzanti sulle note suonate da Ercole, con una lira, e due centauri, con un flauto traverso ed uno zufolo; chiudono la scena tre personaggi che piroettano, identificati come Menadi.

Amorini danzanti sono il leit motiv di quasi tutte le placche che conferisce uno spirito comico e burlesco alle scene rappresentate. Sulla placca sinistra del pannello frontale, infatti, un erote (ovvero un amorino) guarda, attraverso una maschera barbuta, una giovane donna mentre un altro le toglie una spina dal piede; la giovane, vestita, si appoggia ad un uomo, nudo, visto da tergo che tiene le briglie di un cavallo impennato (personaggi variamente interpretati come Fedra e Ippolito o come Elena e Castore); un terzo erote lega questa scena a quella successiva nella quale Bellerofonte (il personaggio mitologico che uccise la Chimera) tiene le redini d’oro di Pegaso il quale si sta abbeverando presso le fonti della ninfa Pirene, che chiude la scena. Nella placca successiva (l’unica senza amorini) è intagliato il sacrificio di Ifigenia probabilmente da un’illustrazione perduta della Ifigenia in Aulide di Euripide. Il sacerdote Calcante sta per tagliare una ciocca di capelli della giovane, retta dal comandante Taltibio; ai lati del gruppo centrale, Menelao e Achille stanno in posizione specularmente opposta con una gamba sollevata e poggiata su quella che sembra essere una piccola ara; agli estremi, le figure di Asclepio e Igea sono totalmente estranee all’episodio euripideo.

I divertissements proseguono sui pannelli laterali. Da un lato, infatti, un amorino cavalca un animale marino imitando una nereide mentre è osservato da un compagno che gioca ad interpretare Tritone, appollaiato su un altare avvolto da un serpente. Sull’altro pannello, invece, la marcia di Dioniso che sta sul carro trainato da pantere è interrotta da un erote che si tuffa con le terga scoperte dentro una cestina.

Ancora eroti sui pannelli del lato tergale. A sinistra, sei sono alle prese con animali di vario genere in una sorta di teatrino comico che continua anche sulla placca di destra. Qui, ad esclusione di una coppia di amanti (Marte e Venere?) è nuovamente sbeffeggiato il mito di Europa impersonata da un amorino, mentre sulla destra ritorna di nuovo il putto che finisce nella cesta e che fluttua sopra un episodio “a luci rosse”.

Lo spirito comico e di canzonatura degli episodi mitologici nulla toglie alla qualità di uno dei più raffinati esempi dell’intaglio bizantino in avorio. Ci troviamo, infatti, di fronte ad un pezzo ricchissimo sia da un punto di vista tecnico (il grado di difficoltà nella tecnica del sottosquadro che arriva anche a staccare intere parti del corpo creando così, in una profondità minore di un centimetro, delle vere e proprie microsculture a tutto tondo) che economico (al X secolo, la difficoltà nel reperimento dell’avorio aveva reso il materiale più costoso dell’oro e lo aveva destinato quasi unicamente alla realizzazione di opere sacre). Opere del genere, inoltre, gettano un lampo di luce sulla conoscenza della vita di tutti i giorni nella Bisanzio dell’età media la cui concezione, per secoli, è stata mascherata da un alone di sacralità e atemporalità creato dalla lettura di quelle che erano le descrizioni ufficiali che sono arrivate a noi.

Bibliografia:

  1. J. Beckwith, The Veroli Casket, London 1962
  2. The Glory of Byzantium: Art and Culture of the Middle Byzantine Era, AD 843-1261, New York 1997, scheda n. 153
  3. Byzantium. 330-1453, London 2009, scheda n. 66

Luca Cipriani








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