Sul finire della carriera, a partire dai primi anni del 1500, il Perugino lasciò Firenze dove ormai si stava affermando il Rinascimento maturo e la sua arte non era più aggiornata, e si rifugiò nelle terre natali, in Umbria: nei dintorni di Perugia continuò a produrre opere, seppur non molto al passo con i tempi, di altissima qualità. Anselmo ci parla di alcuni di questi capolavori.
Enrico Castelnuovo e Carlo Ginzburg, nel loro saggio “Centro e periferia”, pubblicato nella celebre “Storia dell'Arte Italiana”, edita dalla casa editrice Einaudi, esaminano il rapporto fra una zona, definita centro, da cui si irradiano le “novità” storico-artistiche, ed un'altra, denominata periferia, che assorbe in maniera passiva le suddette novità ed accoglie gli artisti “scacciati” dal centro, in quanto ritenuti fuori moda.
A questo destino andò incontro Pietro di Cristoforo Vannucci, noto con il soprannome “Perugino”. Siamo negli anni di poco precedenti il 1505: l'artista sta lavorando a Firenze, dove per lungo tempo, grazie “all'aria angelica et molto dolce” delle sue figure, secondo lo studioso Pietro Scarpellini, era riuscito a far breccia nell'animo dei suoi contemporanei, ma ora la concorrenza è agguerritissima. Scarpellini annota come, nella città toscana, “la nuova generazione che pure deve tanto al Perugino, da fra Bartolomeo a Mariotto Albertinelli, allo stuolo dei minori, Ridolfo del Ghirlandaio, il primo Granacci, Giuliano Bugiardini, Antonio del Ceraiolo, Raffaello Botticini, cui è da aggiungere il “vecchio” Lorenzo di Credi, e il giovanissimo Andrea del Sarto […] amministra quel “preclassicismo” di cui Pietro era stato in qualche modo l'iniziatore fino dai primi anni novanta, quasi meglio di lui stesso”. Inoltre bisogna “mettere sul conto il ritorno a Firenze del vecchio compagno del Vannucci nella bottega del Verrocchio, Leonardo […] senza contare che va affacciandosi il classicismo vero, questo sì veramente rivoluzionario, di Michelangelo”. Castelnuovo acutamente notò come Perugino fu costretto a rifugiarsi in periferia “per poter continuare a lavorare e a ricevere commissioni per una produzione che al centro non soddisfa più”.
In questa chiave va pertanto letto il graduale trasferimento della bottega peruginesca dalla città toscana a Perugia dove, fin dal 1 gennaio 1501, l'artista aveva aperto una bottega in proprio. Perciò, come annota ancora Castelnuovo, non possiamo parlare in questo caso “di «ritardo periferico» in senso proprio”. Infatti, come scrive Scarpellini, il trasferimento del Perugino cade in un “momento particolarmente ricco per la storia della pittura a Perugia, quando tra i maestri della vecchia guardia come Perugino e Pintoricchio, e i giovani, tra cui naturalmente in prima linea Raffaello, si svolge una corrispondenza fitta, assidua di idee, e che porta indubbiamente a un arricchimento della vecchia editoriale peruginesca la quale stava ormai languendo a Firenze”. Pietro inizia pertanto ad usare Perugia come base per esplorare i luoghi minori dell'Umbria. Nel 1503 è a Montefalco, ove replica la Natività da lui dipinta nel Collegio del Cambio di Perugia. Pietro non ha alcun problema infatti a riutilizzare in nuovi dipinti figure già elaborate in passato. L'anno successivo torna a Castel della Pieve, suo borgo natio, dove realizza, per l'Oratorio di Santa Maria dei Bianchi, un affresco raffigurante l'Adorazione dei Magi. Questa composizione, affollatissima e vistosa, presenta (come ha giustamente notato Scarpellini) un “grande splendore cromatico” ed un “nuovo, più largo, senso del paesaggio, in un'evidente ritorno pintoricchiesco”, con il chiaro intento, sempre secondo Scarpellini, “di accattivarsi il plauso dei compaesani”. La composizione presenta una straordinario campionario di espressioni diverse, da quella imbambolata della Vergine a quella devota del giovane uomo che, nella porzione del dipinto posta alla sinistra di san Giuseppe volge lo sguardo al cielo. Nell'affresco Pietro ha inserito anche dei gustosi piccoli episodi, notiamo ad esempio come il cane bianco posto al centro della scena appaia spaventato dal bue e dall'asinello o come i membri del seguito dei Magi, non contagiati dall'atmosfera devota, chiaccherino tranquillamente. Un altro esempio della continua ripresa, da parte del Perugino, di temi già utilizzati in opere precedenti si nota nel san Sebastiano, dipinto dall'artista nel 1505 per la comunità di Panicale, in cui Pietro riprende il tema della gran piazza. Idea scenica che risale per certi versi alle esperienze architettoniche urbinate e fiorentine, che qui appaiono però, come nota sempre Scarpellini, “abbastanza ammanierate, imbarocchite in un sentimento ritmico e pittoresco”.
Il suo spostamento verso Perugia non impedì a Pietro di mantenere i contatti con committenti importanti quali Isabella d'Este, la cui interessante corrispondenza con il pittore ci narra i retroscena delle vicende del quadro raffigurante la Lotta di Amore e Castità, opera commissionata dalla marchesa per decorare il suo studiolo. Quando, verso la fine del giugno 1505, il quadro giunse a Mantova, apparve nettamente inferiore rispetto a quelli dipinti dal Mantegna accanto a cui era stato posto. Non è difficile individuarne il motivo, nota Scarpellini: Pietro era stato obbligato “a seguire la complicata, pedantesca allegoria” che l'intellettuale di corte Paride da Ceresara gli aveva proposto, finendo così per realizzare “una specie di lezioso e zuccheroso preannuncio d'Arcadia”. Dalle lettere emerge inoltre il non facile carattere dell'artista, elemento confermato dalle sue reazioni alle critiche che gli vennero mosse allo svelamento dell'Assunzione di Maria, opera da lui realizzata (sostituendo Filippino Lippi, scomparso improvvisamente nell'aprile 1504) per il convento fiorentino della Santissima Annunziata. Ricorda Vasari che quando venne fatto notare a Pietro di essersi “servito di quelle figure che altre volte era usato mettere in opera: dove tentandolo gli amici suoi dicevano, che affaticato non s’era, e che aveva tralasciato il buon modo dell’operare o per avarizia o per non perder tempo” il Perugino rispose “io ho messo in opera le figure altre volte lodate da voi, e che vi sono infinitamente piaciute: se ora vi dispiacciono e non le lodate, che ne posso io?”. Risposta che provocò una notevolissima riduzione della sua attività fiorentina.
La particolare cifra stilistica del Perugino, caratterizzata da figure aggraziate e dolci che gli valsero l'assegnazione da parte di Giovanni Santi (padre di Raffaello) del titolo di “divin pictore”, rimarrà talmente legata al suo nome che la critica ottocentesca attribuirà a Pietro un dipinto realizzato dal pittore piemontese Defendente Ferrari nel 1521, collocato nella sacrestia della cattedrale d'Ivrea e raffigurante l'Adorazione del Bambino con il B. Warmondo e donatore, in quanto il monogramma con cui il Ferrari siglò l'opera (FP) venne erroneamente letto come “Fecit Perugino” e non come “Ferraris Pinxit”.
Anselmo Nuvolari Duodo