Un'opera poco nota di Pietro Paolini, il “Doppio ritratto con Stefano Coli”, ci fornisce interessanti spunti non soltanto sull'arte del pittore lucchese ma anche sul suo inserimento nell'ambiente culturale della Lucca del Seicento. Un'opera dall'intenso sapore intellettuale che ci viene raccontata da Giovanni nel sesto appuntamento della rubrica "La nota".
Il “Doppio ritratto con Stefano Coli” (Torino, Galleria Voena) può essere d’aiuto se si vuole contestualizzare la figura del pittore Pietro Paolini e fare luce sui suoi legami con gli intellettuali dell’ambiente lucchese del XVII secolo. La firma dell’autore dell’opera, datata al quarto decennio del Seicento, si legge su una delle due lettere in primo piano, a sinistra, “S(igno)re Oblig(atissimo) Pietro Paolini”. L’indirizzo sull’altra lettera reca trascritto , invece, “A casa del sig. St(efano) Coli Lucca”.
In realtà, la lettera sotto i libri con il nome di Pietro Paolini custodisce un ulteriore significato oltre a quello ovvio di fornire un posto adatto ad inserire il nome dell’autore: diversamente da quanto avviene per le firme simili di altri artisti del Cinquecento e del Seicento, Pietro Paolini infatti non ha indirizzato la finta lettera a se stesso, ma ha adoperato la formula conclusiva di una lettera inviata ad un’altra persona (il suo cliente Stefano Coli). Tale scelta potrebbe alludere al fatto che con questo quadro il Paolini intendeva rendere grazie per un favore che gli era stato fatto dal Coli; forse, seguendo questa ipotesi, proprio il dipinto in questione potrebbe essere un dono di ringraziamento. L’uso di questa formula epistolografica convenzionale suggerisce che il rapporto tra il Paolini e l’effigiato non fosse di intima familiarità. E lo stesso linguaggio formale del dipinto, imponendo una certa distanza tra i due personaggi dipinti e il pittore, sembra sottolineare questa considerazione. Contrariamente ad altri ritratti di mano del Paolini (ad esempio, il “Ritratto virile” , Roma, collezione Marchesi o “Uomo che scrive alla lucerna”, Lucca, collezione Mazzarosa de’ Vincenzi)i due effigiati non sono visti dal sotto in su ma appaiono in un atteggiamento più riservato e solenne. Quest’aria di rispettoso distacco viene poi mitigata dalla vivace immediatezza dei loro gesti, come ad esempio il casuale e momentaneo atteggiamento di additare il libro aperto, e dai loro visi vivaci rivolti verso lo spettatore con l’espressione di una composta ma amichevole distanza.
Sebbene siano illeggibili i titoli dei quattro libri sullo scaffale in fondo a destra, non è detto che si tratti di quattro libri di medicina e che dunque Stefano Coli, medico come il padre Girolamo, sia qui raffigurato nel suo ruolo professionale pubblico. Egli, infatti, era attivo anche come letterato e, sebbene non siano sopravvissute sue opere scritte, il Manuale dei decreti dell’Accademia degli Oscuri elenca il suo nome tra i membri del 1643. Il ritratto di Stefano Coli potrebbe essere dunque l’unico esempio superstite di una serie di ritratti di poeti, documentati come opere di Pietro Paolini da diverse fonti letterarie che fanno cenno, fra l’altro, anche ad un ritratto di un altro poeta, Francesco di Poggio, e forse anche un’ effige della poetessa Isabetta Coreglia.
Si evince, dunque, che Paolini partecipava attivamente alla vita culturale della sua città, incentrata in quegli anni sull’arguto dibattito del paragone tra le arti visive e quelle della parola. Probabilmente il pittore, trasponendo sulla tela i colti concetti letterari, aspirava allo status di artista “dotto”, forse ispirandosi al ben noto esempio del suo concittadino, il Cavaliere Paolo Guidotti. Il dipinto in esame, insomma, fornisce una prova tangibile dell’alto livello della vita culturale nella Lucca barocca, di cui Paolini, con gli strumenti della sua arte visiva, è stato uno dei protagonisti.
Giovanni De Girolamo