Uno dei principali protagonisti del Rinascimento urbinate, vale a dire Giovanni Santi (Colbordolo, 1440 - Urbino, 1494), è conosciuto oggi soprattutto per esser stato padre d’uno dei più grandi pittori che la storia dell’arte ricordi, Raffaello Sanzio (Urbino, 1483 - Roma, 1520): in realtà, il rammentarlo esclusivamente per il suo illustre figlio non rende giustizia alla sua elevata statura artistica. Certo, su Giovanni Santi ha pesato per secoli il pesante giudizio di Giorgio Vasari, che lo aveva definito, nella prima edizione delle Vite, un “pittore non molto eccellente, anzi non pur mediocre”, valutazione poi limata nell’edizione giuntina: “pittore non molto eccellente, ma sì bene uomo di buono ingegno ed atto a indirizare i figliuoli per quella buona via che a lui, per mala fortuna sua, non era stata mostra nella sua gioventù”. Un pregiudizio che, tolti alcuni pionieristici contributi ottocenteschi (a cominciare da quello, risalente al 1822, di Luigi Pungileoni, il primo a separare l’attività di Giovanni da quella dell’ingombrante figlio, per proseguire con quelli di Crowe e Cavalcaselle, e con le ricerche di studiosi internazionali come Johann David Passavant e Henry Austen Layard), è stato demolito solo nel Novecento, dapprima con alcuni saggi degli anni Trenta (su tutti quello del 1934 di Raimond van Marle), e poi nella seconda metà del secolo grazie agli studî di storici dell’arte come Renée Dubos, Ranieri Varese (autore della prima monografia italiana dedicata all’artista: fu pubblicata nel 1994), Pietro Zampetti e Rodolfo Battistini, che hanno contribuito a ridisegnare la fisionomia di questo artista a lungo dimenticato, e infine definitivamente delegittimati con l’importante mostra monografica che la Galleria Nazionale delle Marche di Urbino ha organizzato, dal 30 novembre 2018 al 17 marzo 2019, per segnare un’ulteriore, importante tappa nel percorso della sua rivalutazione.
Rodolfo Battistini ha definito Giovanni Santi “un artista non grandissimo ma di larga cultura”: e in effetti non fu solo valente pittore, ma anche letterato (nel 1482 scrisse un lungo poema, La vita e le gesta di Federico di Montefeltro duca di Urbino, un componimento in terza rima da oltre ventiduemila versi: per fornire un metro di paragone, la Divina Commedia ne conta poco più di quattordicimila), drammaturgo (per il teatro si ricorda il suo Amore al tribunale della pudicizia del 1474, spettacolo da lui non solo scritto, ma anche diretto) e, volendo adoperare un metro di giudizio moderno, anche storico dell’arte, dacché nella sua summenzionata cronaca rimata sulla vita e sulle gesta del duca d’Urbino non mancano giudizî su artisti che dimostrano quanto vaste fossero le sue conoscenze in fatto d’arte. Su Mantegna, per esempio, scrisse che “et certamente la natura, Andrea / dotò de tante excelse e degne parte, / che già non so se più dar potea. / Perché de tucti i membri de tale arte / lo integro e chiaro corpo lui possede / più che huom de Italia e de le externe parte”. Santi fu anche tra i primi ammiratori di Leonardo da Vinci, artista che paragonò al Perugino (quando scrisse il poema su Federico da Montefeltro, Leonardo aveva appena venticinque anni) in un elenco di pittori attivi a Firenze: “due giovin par d’etade e par d’amori / Leonardo da Vinci e ’l Perusino / Pier della Pieve che son divin pittori”. Pareri lusinghieri anche quelli su van Eyck e van der Weyden: “A Brugia fu, fra gli altri più lodati / el gran Jannès, e ’l discepul Rugiero, / cum tanti di excellentia chiar dotati / ne la cui arte et alto magistero / di colorir, son stati sì excellenti / che han superati molte volte el vero”.
E in effetti il tema del confronto tra il vero e la pittura appassionò molto Giovanni Santi, che dei pittori italiani di fine Quattrocento fu tra i più attenti ai linguaggi descrittivi dei pittori fiamminghi. C’è un passaggio particolarmente interessante della sua cronaca rimata, e sul quale s’è a lungo concentrata l’attenzione degli studiosi, che recita: “chi serra quel che possi el chiar colore / lucido e trasparente di un rubino / contrafar mai el suo vago splendore? / Chi è quel che possi el sol in sul matino / dipengere mai o un specchiar dell’acque / cum fronde e fior vicini al lor confino ? / Qual mai sì eccellente al mondo nacque / che un bianco giglio facci o fresca rosa / cum quel bel pur ch’a natura piacque ? / El paragon se trova ove ogni cosa / Vinta riman né si può causare / al paragon sufficiente chiosa”: in questi versi, Giovanni Santi si domanda se esistano davvero pittori che siano in grado di catturare il colore “lucido e trasparente di un rubino” riproducendo il suo splendore, se ci sia qualcuno capace di restituire perfettamente un giglio o una rosa e, in definitiva, se l’arte possa davvero imitare ciò che si trova in natura. Molti critici hanno letto questo passaggio come una critica negativa di Santi nei confronti dei pittori che si sforzano di creare pitture che siano quanto mai vicine al vero: una diversa interpretazione è invece quella della storica dell’arte Kim Butler che, al contrario, coglie una vena d’ironia nelle parole dell’artista urbinate, e sostiene che non si spiegherebbero certi tentativi da parte di Santi (su tutti, quelli nel realizzare molte gemme e pietre preziose che adornano i suoi personaggi e che, sottolinea Butler, sono state sempre “rese con grande accuratezza”) se si prendessero alla lettera i versi della sua cronaca. Uno degli aspetti interessanti della produzione di Giovanni Santi è che, grazie alla mole del suo scritto, è possibile cercare d’individuare, nella sua pratica artistica, i riscontri delle sue idee, e particolarmente esemplificativo in tal senso è uno dei suoi maggiori capolavori, l’Annunciazione oggi conservata alla Galleria Nazionale delle Marche di Urbino.
Giovanni Santi, Annunciazione (1489-1491 circa; olio su tavola, 260 x 187,2 cm; Urbino, Galleria Nazionale delle Marche, in deposito dalla Pinacoteca di Brera, Milano) |
L’Annunciazione di Giovanni Santi esposta alla Galleria Nazionale delle Marche di Urbino. Ph. Credit Finestre sull’Arte |
Giovanni Santi, Annunciazione, dettaglio |
Giovanni Santi, Annunciazione, dettaglio |
Giovanni Santi, Annunciazione, dettaglio |
Giovanni Santi, Annunciazione, dettaglio |
Giovanni Santi eseguì il dipinto all’incirca nel 1489, su commissione di Giovanna Feltria della Rovere (Urbino, 1463 - Roma, 1513), ultima esponente della dinastia dei Montefeltro e madre di Francesco Maria della Rovere (Senigallia, 1490 - Pesaro, 1538), futuro duca di Urbino. L’opera, probabilmente, fu commissionata proprio per celebrare l’arrivo del nascituro, secondogenito maschio di Giovanna (che a sua volta era figlia di Federico di Montefeltro) e del marito Giovanni della Rovere, duca di Sora, ed era destinata alla chiesa di Santa Maria Maddalena a Senigallia, città nella quale, peraltro, l’opera è temporaneamente tornata nel 2014: infatti, durante il periodo delle spoliazioni napoleoniche, e per l’esattezza nel 1809, fu inviata alla Pinacoteca di Brera, dove con tutta probabilità era esposta assieme ad altri dipinti provenienti dalle Marche, e alla quale peraltro l’opera ancora formalmente appartiene, benché sia stata concessa dagli anni Sessanta in esposizione a Urbino. Per completezza c’è da aggiungere che, nel 2009, la Pinacoteca aveva cercato di riottenere l’opera da Urbino (insieme alla predella della Pala di Montone, opera del perugino Berto di Giovanni), e dalle Marche si erano però levate voci unanimemente critiche. Dopo alcuni giorni la Soprintendenza milanese aveva rinunciato a riottenere l’opera, ma in cambio aveva chiesto e ottenuto che l’Annunciazione venisse spostata dalla Casa di Raffaello, dove allora si trovava, alla Galleria Nazionale, dov’è esposta tuttora.
La scena si svolge, come da iconografia rinascimentale, sotto un bel portico che dà su di un giardino recintato (l’hortus conclusus simbolo delle virtù di Maria): la Vergine sta sotto al portico e l’angelo è appena fuori, giunto da poco (ha le ali ancora spiegate), mentre reca, anch’egli come da iconografia, il giglio simbolo di purezza alla Vergine che fa per inginocchiarsi con le mani giunte sul petto in segno di rispetto. Sopra, il Padreterno osserva l’incontro da un grande tondo e, a fianco a lui, il piccolo Gesù Bambino fattosi carne scende su di una nuvola rosa reggendo una croce. Infine, alle spalle dei personaggi s’apre un vasto paesaggio collinare, di quelli che probabilmente erano familiari all’artista marchigiano.
Su questa Annunciazione, la critica si è espressa con pareri alquanto oscillanti. In termini negativi si posizionò Adolfo Venturi, che nella sua Storia dell’arte italiana così descrisse il dipinto: “Ancora l’enorme Dio Padre, entro un variopinto anellone; ancora l’architettura con rivestimenti marmorei, imitata da quella di Fra Carnovale; il paese con la roccia laterale e le montagne globose, come nel Paimezzano. L’Arcangelo prende un aspetto di grazia, e la sonnolenta Madonna si veste d’umiltà”. Piuttosto severi anche van Marle, che definiva “mediocre” l’Annunciazione, e Crowe e Cavalcaselle, che così ne parlavano: “la figura della Vergine ha i soliti caratteri e le stesse forme gentili che, più o meno, si notano in tutte le Nostre Donne del Santi. Quella del Padre Eterno è parimente di tipo e di forme un po’ volgari come usò di fare il nostro pittore in simili figure. L’Angelo ha mossa assai sciolta non priva di grazia ma un po’ studiata, e forme svelte con buone proporzioni”. Molto rigido anche Passavant, che nella sua opera Raffaello d’Urbino e il padre suo, Giovanni Santi del 1882 aveva definito “duro” il disegno e mancante d’armonia il colorito. Fin troppo entusiastiche, invece, le considerazioni di Fréd Berence, che nel 1936 scriveva, nel suo studio Raphaël, ou la puissance de l’esprit: “s’il avait peint, ou plutôt s’il nous était resté, quatre ou cinq tableaux de cette qualité, il aurait sa place entre Mantegna et le Pérugin. Il se dégage de l’ensemble de l’œuvre une sincérité immédiate, à laquelle Pérugin n’a jamais atteint, une sévérité qui rappelle Mantegna, avec moins de précision, et Piero della Francesca, avec moins de puissance” (“se avesse dipinto, o meglio se ci fossero rimaste, quattro o cinque opere di questa qualità, [Giovanni Santi] avrebbe trovato il suo posto tra Mantegna e il Perugino. La composizione sprigiona una sincerità immediata, alla quale il Perugino non è mai arrivato, una severità che ricorda Mantegna, con meno precisione, e Piero della Francesca, con meno potenza”). A tirare le somme sarebbe stato Ranieri Varese nella sua monografia del 1994: “il quasi concorde giudizio negativo ci pare ingiusto e non corrispondente alla qualità reale del dipinto il quale dimostra un uso consapevole e sicuro degli elementi della costruzione prospettica e, pur attento alle esperienze dei pittori contemporanei, non rinuncia a scelte autonome”.
L’Annunciazione è, in effetti, un interessante compendio degl’interessi, delle teorie, degli spunti e, appunto, degli elementi autonomi che compongono l’arte di Giovanni Santi, artista che rimase fedele alle proprie idee per pressoché tutto l’arco della sua carriera, e produsse opere con uno stile che, nel corso degli anni, non subì quasi mai variazioni (si consideri inoltre che la prima opera datata di Giovanni Santi è la pala di Gradara del 1484, e che l’artista scomparve nel 1494). La succitata Kim Butler ha svolto una serrata analisi delle fonti iconografiche di Giovanni Santi, e tutto ciò che appare evidente dalla “pratica” del dipinto trova un puntuale riscontro in quella che possiamo considerare una sorta di “enunciazione teorica” formulata dal pittore nel suo poema La vita e le gesta di Federico di Montefeltro duca di Urbino. Butler comincia dal Padre Eterno, la cui morfologia facciale richiamerebbe quelle di Melozzo da Forlì (Forlì, 1438 - 1494): vengono alla mente, in particolare, gli affreschi del Santuario della Santa Casa di Loreto, contemporanei o di poco precedenti rispetto all’Annunciazione di Giovanni Santi (che citò l’artista forlivese come il “Melozzo a me sì caro / che in prospectiva ha steso tanto il passo”). Proseguendo, la Vergine è una citazione pressoché pedissequa della Madonna che si trova nella cimasa del Polittico di sant’Antonio di Piero della Francesca (Borgo Sansepolcro, 1412 - 1492), la sontuosa opera oggi conservata alla Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia ma originariamente eseguita per il convento di Sant’Antonio del capoluogo umbro: per Butler si tratta di una prova della presenza di Giovanni Santi in città. Ma da Piero deriverebbe anche l’idea di posizionare i personaggi che appaiono nel cielo su una linea diagonale che conduce verso la Vergine: in Piero era la colomba dello Spirito Santo, in Giovanni Santi, invece, sono il Padre Eterno nel tondo (quello che a molti commentatori è parso quasi bolso e invadente) e il Gesù Bambino fattosi carne. Una scelta che, per Butler, “si rivela proficua sia per la profondità prospettica sia per l’ordine geometrico della composizione, che propone un gioco quasi razionale di forme rettangolari, semicircolari, circolari e triangolari”: Giovanni Santi, in breve, fa sua la propensione di Piero a impostare su solidi schemi geometrici le composizioni.
Ci sono poi importanti suggestioni provenienti dall’arte di Leonardo da Vinci, il giovane che, come s’è visto, Giovanni Santi ammirò molto. Possiamo trovarli nella figura dell’arcangelo Gabriele, e per Butler sono addirittura tre i “punti di contatto” che l’Annunciazione del pittore marchigiano palesa con l’omologa Annunciazione che Leonardo dipinse tra il 1472 e il 1475 circa e che oggi è conservata agli Uffizi. L’artista vinciano introdusse la novità iconografica dell’arcangelo che si inginocchia direttamente sull’erba del giardino: un’idea che viene puntualmente ripresa da Giovanni Santi. La seconda tangenza con Leonardo sta nella posa della figura, che quasi ricalca uno studio di panneggio del genio toscano, oggi conservato a Roma, all’Istituto Centrale per la Grafica: alcuni studiosi hanno ipotizzato si trattasse di uno studio per l’Annunciazione. Anche Santi raccoglie il panneggio attorno ai piedi dell’angelo (oltre che della Vergine): “queste tecniche”, sottolinea Butler, “insieme a un meticoloso scorcio delle figure, riescono a conferire dinamicità ai protagonisti, in netto contrasto con le figure statiche, dai panneggi lineari, colonnari, del dipinto di Piero della Francesca”. E infine, ulteriore dimostrazione d’interesse per l’opera di Leonardo, è lo studio delle ombre che trapela una certa attenzione nei confronti delle ricerche sugli effetti ottici da parte del giovane artista di Vinci. Si guardi poi il gioiello adornato di perle che ferma sul petto la sopravveste dell’arcangelo Gabriele: interessante esempio della glittica di Giovanni Santi, la grande spilla, con la luce che fa brillare le perle e le parti in oro, contraddice in certa misura il proposito delineato nella cronica di lasciar perdere le sfide alla natura, dal momento che il pittore è alla chiara ricerca di quegli stessi effetti di verisimiglianza che cerca d’ottenere anche con le ombre morbidamente sfumate dei due protagonisti.
Melozzo da Forlì, particolare dei volti nell’Entrata di Cristo in Gerusalemme, affresco del Santuario della Santa Casa di Loreto |
Piero della Francesca, Polittico di sant’Antonio (1460-1470 circa; tecnica mista su tavola, 338 x 238 cm; Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria) |
Piero della Francesca, Polittico di sant’Antonio, l’Annunciazione |
Leonardo da Vinci, Annunciazione (1472-1475 circa; olio e tempera su tavola, 98 x 217 cm; Firenze, Uffizi) |
L’angelo dell’Annunciazione di Leonardo da Vinci |
Leonardo da Vinci, Studio di panneggio (1473-1480 circa; disegno a biacca e punta di metallo su carta, 257 x 190 mm; Roma, Istituto Centrale per la Grafica, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, Fondo Corsini) |
Il pittore di Urbino assorbì la lezione degli artisti cui volle riferirsi per allestire una composizione che, in accordo coi suoi intendimenti, doveva essere votata all’armonia e al movimento, e andare alla ricerca di “relievo”, ovvero di effetti scultorei: “poi diligentia e vago colorire / cum tucti i termini suoi e varij distanzi / moventia de disegnio e fa stupire / qualunque i scorti suoi vede e remira / che inganan l’ochio e l’arte fan gioire / le prospective quale drieto se tira / arithmetrica e insiem geometria / e l’alta architectura a lei se invia / cum quanto ingegno in huom possibil sia / reluce e splende exprime in gran concepti / ond’io stupisco i’ nella menta mia. / Insuma quel che molti alti intellecti / nella pictura excelsa han dimostrati / riluce in lui cum sui termin perfecti / ne pretermesso ha ancor cum dolci e grati / modi il relievo per che alla sculptura / mostrar quanto idea el cielo e i dolci fati”. Riassumendo, Giovanni Santi dimostra d’apprezzare gli artisti che adoperano il loro ingegno ricorrendo alla scienza della prospettiva al fine di dar vita e scorci ed effetti illusionistici “che inganan l’ochio e l’arte fan gioire”. E Giovanni Santi, con i mezzi che aveva a disposizione, e guardando ai suoi alti modelli di riferimento (non a caso tutti grandi interpreti della prospettiva come Melozzo e Piero della Francesca, straordinarî maestri degli effetti ottici come Leonardo, e superbi imitatori del vero come gli artisti fiamminghi), cercò di mettere in pratica i suoi propositi anche nell’Annunciazione.
Occorre infine immaginare che questo modo d’intendere l’arte sarebbe stato trasmesso al giovanissimo Raffaello (anche se c’è da evidenziare che sul reale apporto della lezione di Giovanni Santi sul Raffaello bambino s’è a lungo discusso e ancora si discute): “la pratica artistica (teorica e imitativa) di Giovanni Santi”, conclude Butler, “consente di contestualizzare in modo molto preciso il primo approccio di suo figlio all’arte della pittura. In particolare, permette di capire l’approccio sincretico di quest’ultimo alle fonti, quasi sempre costituite dai modelli elogiati e imitati dal padre”. Se si pensa alle prime prove di Raffaello, dallo Stendardo della Santissima Trinità alla Pala del beato Nicola da Tolentino, ma anche se ci si spinge oltre, non sarà difficile trovare riferimenti a molti degli artisti che il padre Giovanni aveva apprezzato: certo, si trattava in larga parte dei pittori che avevano animato l’ambiente artistico della Urbino degli ultimi decennî del Quattrocento, ma nei confronti dei suoi modelli il giovane Raffaello mostrò sempre quell’atteggiamento “critico” che aveva animato le ricerche del padre.
Bibliografia di riferimento
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo