Il giovane Tintoretto, dagli esordî fino allo spettacolare Miracolo dello schiavo


Recensione della mostra 'Il giovane Tintoretto', a Venezia, Gallerie dell'Accademia dal 7 settembre 2018 al 6 gennaio 2019

“Essendo molto inclinato da natura al disegno, si diede con gran diligenza à disegnare tutte le cose buone a Vinegia, e fece grande studio sopra le statue rappresentanti Marte, e Nettuno di Jacopo Sansovino, e poscia si prese per principal maestro l’opere del divino Michelagnolo, non riguardando à spesa alcuna per haver formate le sue figure della Sacrestia di San Lorenzo e parimente tutti i buoni modelli delle migliori statue che siano in Firenze […] ma nel colorire dice havere imitato la natura, e poi particolarmente Tiziano”: così scrisse, nel 1584, il letterato e critico d’arte Raffaello Borghini (Firenze, 1537 – 1588) a proposito di Jacopo Robusti detto Tintoretto (Venezia, 1519 – 1594). La critica è infatti concorde nell’affermare che grande modello di riferimento per l’artista veneziano fu Michelangelo Buonarroti (Caprese, 1475 – Roma, 1564), nonostante rimanga ancora incerta la risposta a un preciso quesito: Tintoretto vide mai personalmente e direttamente i capolavori michelangioleschi a Roma? Secondo Rodolfo Pallucchini (Milano, 1908 – Venezia, 1989), studioso fondamentale per la biografia del Tintoretto, poiché dedicò gran parte della sua vita lavorativa allo studio di quest’ultimo, “è molto probabile che l’artista verso la metà del quinto decennio si sia recato a Roma: forse nello stesso anno in cui si recava Tiziano”, ma “la tradizione non ricorda tale viaggio”. Dello stesso parere fu Sydney J. Freedberg (Boston, 1914 – Washington, 1997), a cui sembrava impossibile che l’artista fosse stato influenzato dall’arte di altri autori: tenendo conto del prorompente michelangiolismo che egli aveva notato nel giovane Tintoretto, ipotizzò un viaggio a Firenze o a Roma nel 1540, in particolare confrontando la Sacra Conversazione Molin dell’artista veneziano, opera firmata e datata 1540, con le statue della Sacrestia di San Lorenzo realizzate da Michelangelo.

Tuttavia è di fatto nella grande tela del Miracolo dello schiavo che sono stati scoperti e studiati i più significativi rimandi alle opere di Buonarroti: dalla Cappella Paolina, alle tombe medicee, al gruppo scultoreo dei Due lottatori rimasto a bozzetto, al Giudizio finale della Cappella Sistina. La tela è stata la prima opera pubblica di Tintoretto destinata a una prestigiosa Scuola grande, ovvero quella di San Marco, e fu Pietro Aretino (Arezzo, 1492 – Venezia, 1556) in una lettera ad assicurare che il capolavoro era già stato concluso nell’aprile 1548, aggiungendo le sue lodi: “Da che la voce de la publica laude si conferma con quella propria da me datavi nel gran quadro de l’istoria dedicata in la scola di San Marco, mi rallegro non meno con il mio giudizio, che sa tanto inanzi, ch’io mi facci con la vostra arte, che passa sì oltra. E sì come non è naso, per infredato che sia, che non senta in qualche parte il fume de lo incenso, così non è uomo sì poco instrutto ne la virtù del disegno, che non si stupisca nel rilievo de la figura, che, tutta ignuda, giuso in terra è offerta a le crudeltà del martiro. I suoi colori son carne, il suo lineamento ritondo, e il suo corpo vivo, talché vi giuro per il bene ch’io vi voglio, che le cere, l’arie, e le viste de le turbe che la circondano, sono tanto simili a gli effetti ch’esse fanno in tale opra, che lo spettacolo pare più tosto vero che finto”. Tra Pietro Aretino e il pittore c’era un rapporto di committenza (lo incaricò di lavorare a Palazzo Bolani) e di grande stima (la “prestezza” caratteristica di Tintoretto era da lui considerata un pregio); sembra inoltre che l’artista abbia ritratto lo stesso Aretino nel citato Miracolo dello schiavo, nell’uomo barbuto che spunta dalle colonne al di sopra della donna con in braccio un bimbo, sulla sinistra del dipinto.

La grande tela del Miracolo dello schiavo rappresenta inoltre una sorta di spartiacque tra l’arte giovanile di Tintoretto e la sua fase più matura, ed è per questo che è stata collocata in conclusione del percorso espositivo Il giovane Tintoretto, la mostra allestita presso le Gallerie dell’Accademia di Venezia fino al 6 gennaio 2019. Tuttavia l’opera è stata assunta anche come punto di partenza di un’altra mostra dedicata a Tintoretto nella città lagunare, all’interno di Palazzo Ducale. La seconda esposizione si direbbe quindi un prosieguo della prima: ne Il giovane Tintoretto si intende delineare il percorso artistico personale che il pittore intraprese per giungere alla realizzazione della sua prima opera pubblica destinata a un’istituzione di grandissimo rilievo nel primo decennio di attività, mentre in Tintoretto 1519 – 1594 (questo il titolo della mostra di Palazzo Ducale) vengono delineate le tappe più significative della sua carriera, dalla metà degli anni Quaranta del Cinquecento al 1594, anno della sua scomparsa.

Sala della mostra Il giovane Tintoretto a Venezia, Gallerie dell'Accademia
Sala della mostra Il giovane Tintoretto a Venezia, Gallerie dell’Accademia


Sala della mostra Il giovane Tintoretto a Venezia, Gallerie dell'Accademia
Sala della mostra Il giovane Tintoretto a Venezia, Gallerie dell’Accademia


Sala della mostra Il giovane Tintoretto a Venezia, Gallerie dell'Accademia
Sala della mostra Il giovane Tintoretto a Venezia, Gallerie dell’Accademia


Sala della mostra Il giovane Tintoretto a Venezia, Gallerie dell'Accademia
Sala della mostra Il giovane Tintoretto a Venezia, Gallerie dell’Accademia

Com’è giunto Tintoretto all’esecuzione del suo primo grande capolavoro? Quali sono state le influenze ricevute nella città di Venezia? Le risposte a tali quesiti sono complesse, poiché non si possiede alcuna documentazione coeva sulla sua formazione, bensì solo resoconti biografici scritti un secolo più tardi. Questo è il punto di partenza da cui prende le mosse la mostra Il giovane Tintoretto, che si sviluppa attraverso dipinti che realizzò lui stesso nel primo decennio della sua attività artistica e altri eseguiti da artisti suoi contemporanei che passarono dalla città della laguna.

A cominciare dagli anni Trenta del Cinquecento, giunsero dall’Italia centrale lo scultore e architetto toscano Jacopo Sansovino (Firenze, 1486 – Venezia, 1570), l’architetto bolognese Sebastiano Serlio (Bologna, prima del 1490 – Fontainebleau, 1554 circa) e il letterato Pietro Aretino, quando Venezia era governata dal doge Andrea Gritti, tra il 1523 e il 1538. Sansovino diede alla città un assetto rinascimentale e all’antica, Serlio si occupò di redigere le regole generali di architettura trattando le cinque “maniere” degli edifici, Aretino intrattenne relazioni al fine di promuovere la cultura artistica locale. Sotto l’influenza di questi personaggi, artisti dell’epoca che operavano a Venezia realizzarono opere portatrici di tali novità: significativa sotto questo punto di vista è la Consegna dell’anello al doge, dipinto realizzato da Paris Bordon (Treviso, 1500 – 1571) tra il 1533 e il 1535 che raffigura la parte conclusiva della leggenda del pescatore, secondo cui nella notte del 25 febbraio 1340 un pescatore traghettò al Lido i santi Nicola, Giorgio e Marco e assistette al miracolo che portò alla fine della burrasca di mare che stava minacciando la città; nel dipinto (assente dal percorso mostra ma visibile nella sua collocazione usuale alle Gallerie dell’Accademia) è rappresentato il momento in cui il pescatore consegna al doge Bartolomeo Gradenigo l’anello ricevuto da san Marco come segno di protezione verso la città. Nella composizione del dipinto si nota l’esplicita influenza di Sansovino e Serlio nell’interesse per l’architettura: una grande scenografia circonda l’evento e vari elementi sono citazioni della trattatistica d’architettura rinascimentale di Serlio; l’edificio sullo sfondo invece richiama il progetto di Sansovino per il rinnovamento di Palazzo Ducale voluto da Gritti.

Nel telero di Bordon è evidenziato inoltre il colorismo tizianesco che lo stesso Tintoretto assunse a modello: Tiziano (Pieve di Cadore, 1488/1490 circa – Venezia, 1576) infatti apparteneva a quella tradizione veneziana basata sul colore, che conferiva al dipinto una particolare profondità e intimità, e sull’introduzione di elementi naturalistici. Da notare le vesti dei personaggi raffigurati nella Consegna dell’anello al doge, dove il colore mette in risalto la materia dei tessuti: aspetto ben visibile nella Cena in Emmaus dello stesso Tiziano, compiuta tra il 1533 e il 1534 alla corte di Federico II Gonzaga per il nobile mantovano Nicola Maffei. O ancora nel Giudizio di Salomone del 1533 realizzato da Bonifacio Veronese (Verona, 1487 – Venezia, 1553), altro artista di educazione tizianesca: qui permane il cromatismo tipico di Tiziano con colori brillanti, il naturalismo e la presenza di un paesaggio che compare oltre le architetture, ma vengono introdotti anche schemi compositivi raffaelleschi, come le figure scalate a fregio e i gruppi di personaggi posti ai lati del dipinto, che circolavano a Venezia tramite stampe e disegni. A influenzare in modo significativo il giovane Tintoretto fu anche il friulano Giovanni Antonio de’ Sacchis, detto Pordenone (Pordenone, 1483 circa – Ferrara, 1539), il quale rendeva tangibile nelle sue opere, o meglio nei suoi “scorci terribili di figure”, il profondo legame con l’arte michelangiolesca, che l’artista aveva potuto ammirare con i suoi occhi durante un viaggio a Roma. In mostra sono esposti i santi Martino e Cristoforo, raffigurati dipinti nelle antiche ante per l’armadio destinato alla custodia del tesoro della chiesa di San Rocco: i santi occupano l’intero spazio delle tavole e sembrano fuoriuscire con grande prorompenza e forza; i corpi dei santi e del cavallo di san Martino possiedono pienamente il caratteristico plasticismo di Michelangelo. Lo stesso Tintoretto dal 1549 realizzerà nella chiesa di San Rocco il telero raffigurante San Rocco che visita gli appestati, avendo ben presenti gli affreschi della cupola e del coro eseguiti da Pordenone nello stesso luogo. La scelta di rappresentare figure monumentali che lasciano poca visibilità al paesaggio sullo sfondo, come negli scorci di Pordenone, è un aspetto presente nella Sacra Famiglia (1539) di Polidoro da Lanciano (Lanciano, 1510 circa – Venezia, 1565), pittore che risente insieme a Bonifacio Veronese e a Paris Bordon della lezione tizianesca, come si nota dai panneggi dei personaggi.

All’inizio degli anni Quaranta del Cinquecento altri artisti portarono a Venezia nuovi influssi: Francesco Salviati (Firenze, 1510 – Roma, 1563) e Giorgio Vasari (Arezzo, 1511 – Firenze, 1574), toscani che esportarono nella laguna tratti della cultura tosco-romana ed emiliana. Il primo, arrivato a Venezia nel luglio 1539, inserì nelle sue opere figure dalle fisionomie eleganti che ricordavano quelle dipinte dal Parmigianino (Parma, 1503 – Casalmaggiore, 1540). Esemplare è la pala d’altare realizzata per le monache camaldolesi di Bologna raffigurante la Madonna col Bambino in trono fra vari santi, tra cui santa Cristina con la freccia conficcata nella fronte, e inginocchiati nella parte inferiore del dipinto il fondatore dell’ordine Romualdo e la beata Lucia, badessa del monastero di Santa Cristina di Settifonte; tra questi ultimi è raffigurato il modellino di quel monastero dal quale le monache si erano trasferite nel 1247. D’ispirazione parmigianinesca la Madonna, dalla forma allungata, il volto elegante e la mano portata in avanti che regge il velo di Gesù Bambino. Il panneggio della Vergine e la posa del Bambino in piedi sulle ginocchia della madre si ritroveranno nella Sacra Conversazione Molin di Tintoretto, dipinto che è anche ispirato alla Madonna della Sacrestia di San Lorenzo realizzata da Michelangelo. Giorgio Vasari soggiornò nella laguna nell’aprile 1542, poiché gli fu commissionato il soffitto della Camera Nova a Palazzo Corner: l’artista lo decorò con soggetti allegorici, ma quando il soffitto venne demolito, le tavole vennero disperse. Tra queste, la Giustizia e la Pazienza visibili in mostra, che ricomparvero in vari palazzi veneziani e successivamente vendute alle Gallerie dell’Accademia nel 1987. Le due figure sono rappresentate in lieve scorcio: la Giustizia è di spalle con il codice della legge e la spada, suoi attributi, ed è posta al centro tra due personaggi con fasci littori e un altro che indossa una corona identificabile con Salomone o con Traiano; la Pazienza invece è seduta al centro del dipinto con lo sguardo rivolto verso il basso e appare serena sotto il peso del giogo che tiene su una spalla. L’uomo accanto è stato identificato con Giobbe e probabilmente è stato ispirato al Geremia di Michelangelo della Cappella Sistina. Vasari avrebbe dovuto decorare anche il soffitto della chiesa di Santo Spirito in Isola, ma a seguito della sua partenza da Venezia nel 1542, l’incarico fu affidato a Tiziano. Quest’ultimo creò un soffitto illusionistico con scene dell’Antico Testamento e un ciclo per l’Albergo Nuovo della Scuola Grande di San Giovanni Evangelista: fulcro di tale ciclo era il San Giovanni Evangelista a Patmos, che i visitatori possono ammirare nel percorso espositivo. Il dipinto, custodito alla National Gallery di Washington, raffigura in una prospettiva dal basso il santo patrono della Scuola accompagnato dai suoi attributi, l’aquila e il libro, mentre alza le braccia al cielo stupito dopo aver sentito la voce di Dio sull’isola di Patmos. Oltre a Salviati e a Vasari, giunsero giovani artisti legati alla cultura tosco-romana: tra questi, Giuseppe Porta Salviati (Castelnuovo di Garfagnana, 1520 circa – Venezia, 1575/1576), già nella bottega romana di Francesco Salviati, da cui prese lo pseudonimo, e Lambert Sustris (Amsterdam, 1510/1515 – Venezia, 1584). Forniscono un’idea della loro arte, attraverso la quale diffusero in terra veneziana la cultura tosco-romana, le loro due opere in esposizione, rispettivamente la Resurrezione di Lazzaro (1543 circa) e Il cerchio della frode (1541-1542 circa). A Venezia i due artisti lavorarono alla decorazione di importanti palazzi cittadini, quali Palazzo del Capitanio, in particolare alla Sala dei Giganti, e il palazzo del giurista Marco Mantova Benavides. Prima di addentrarsi nelle opere d’esordio di Tintoretto, la mostra analizza un aspetto fondamentale per la divulgazione di tipi e modelli da impiegare nei dipinti: in particolare furono significative le xilografie che illustrano Le Sorti, intitolate Giardino di Pensieri, la cui prima edizione venne pubblicata nel 1540; sul frontespizio appare la firma di Giuseppe Porta, ma sono stati riconosciuti interventi di Francesco Salviati, Lambert Sustris, Andrea Schiavone. Da citare anche la Vita di Maria Vergine (1539) e la Vita di Catherina Vergine (1541) di Pietro Aretino, che contengono xilografie di straordinaria eleganza.

Paris Bordon, Consegna dell'anello al doge (1533-1535; olio su tela, 370 x 300 cm; Venezia, Gallerie dell'Accademia)
Paris Bordon, Consegna dell’anello al doge (1533-1535; olio su tela, 370 x 300 cm; Venezia, Gallerie dell’Accademia)


Bonifacio Veronese, Giudizio di Salomone (1533; olio su tela, 180 x 309 cm; Venezia, Gallerie dell'Accademia)
Bonifacio Veronese, Giudizio di Salomone (1533; olio su tela, 180 x 309 cm; Venezia, Gallerie dell’Accademia)


Tiziano, Cena in Emmaus (1533-1534; olio su tela, 160 x 244 cm; Parigi, Louvre)
Tiziano, Cena in Emmaus (1533-1534; olio su tela, 160 x 244 cm; Parigi, Louvre)


Giovanni Antonio de' Sacchis detto il Pordenone, San Martino e san Cristoforo (1527-1528 circa; olio su tavola, 247,4 x 147,4 cm; Venezia, Scuola Grande di San Rocco)
Giovanni Antonio de’ Sacchis detto il Pordenone, San Martino e san Cristoforo (1527-1528 circa; olio su tavola, 247,4 x 147,4 cm; Venezia, Scuola Grande di San Rocco)


Polidoro da Lanciano, Sacra Famiglia con santa Caterina, san Giovannino e due angeli (1539 circa; olio su tela, 152 x 205 cm; Berlino, Staatliche Museen)
Polidoro da Lanciano, Sacra Famiglia con santa Caterina, san Giovannino e due angeli


Giorgio Vasari, Allegoria della Giustizia (1542; olio su tavola, 78 x 180 cm; Venezia, Gallerie dell'Accademia)
Giorgio Vasari, Allegoria della Giustizia (1542; olio su tavola, 78 x 180 cm; Venezia, Gallerie dell’Accademia)


Giorgio Vasari, Allegoria della Pazienza (1542; olio su tavola, 77 x 184 cm; Venezia, Gallerie dell'Accademia)
Giorgio Vasari, Allegoria della Pazienza (1542; olio su tavola, 77 x 184 cm; Venezia, Gallerie dell’Accademia)


Tiziano, San Giovanni Evangelista a Patmos (1547 circa; olio su tela, 237,6 x 263 cm; Washington, National Gallery of Art)
Tiziano, San Giovanni Evangelista a Patmos (1547 circa; olio su tela, 237,6 x 263 cm; Washington, National Gallery of Art)


Giuseppe Porta Salviati, Resurrezione di Lazzaro (1543 circa; olio su tavola, 162 x 264 cm; Venezia, Fondazione Giorgio Cini)
Giuseppe Porta Salviati, Resurrezione di Lazzaro (1543 circa; olio su tavola, 162 x 264 cm; Venezia, Fondazione Giorgio Cini)


Lambert Sustris, Il cerchio della frode (1541-1542 circa; olio su tela, 155 x 356 cm; Firenze, Fondazione di Studi di Storia dell'Arte Roberto Longhi)
Lambert Sustris, Il cerchio della frode (1541-1542 circa; olio su tela, 155 x 356 cm; Firenze, Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi)

Tra il 1539 e il 1540 Tintoretto realizzò una particolare Conversione di San Paolo, oggi conservata alla National Gallery di Washington: un soggetto molto diffuso negli artisti del Cinquecento, poiché consentiva di misurarsi con una scena di battaglia. Quella rappresentata da un giovane Tintoretto agli esordî, che sta cercando di trovare il suo proprio stile, è una battaglia scomposta, nella quale regna la confusione. A parte alcuni elementi non finiti, come le onde o la testa del soldato a cavallo sul ponte, la critica ha sottolineato come l’artista introdusse in quest’opera figure che rimandavano ad altri artisti: il protagonista, Paolo, caduto da cavallo è ispirato alla Conversione di Saulo nel cartone di Raffaello (Urbino, 1483 – Roma, 1520) per un arazzo della Cappella Sistina; la battaglia e la natura con sovrapposizioni di uomini e animali potrebbe essere riconducibile a un disegno di Francesco Salviati, tramandato da un’incisione di Enea Vico (Firenze, 1523 – Ferrara, 1567). Il cavallo bianco che sembra fuoriuscire dalla parte sinistra della tela richiama l’affresco del Pordenone per la facciata di Palazzo Talenti, mentre l’uomo immerso nell’acqua in basso a destra è simile a uno dei giganti che Giulio Romano (Roma, 1499 circa – Mantova, 1546) raffigurò a Mantova nella Sala dei Giganti. Tuttavia, un forte influsso si ritiene proveniente dalla Battaglia di Cadore di Tiziano, eseguita nel 1538 per la Sala del Maggior Consiglio, di cui in mostra è presente uno studio in un foglio autografo custodito al Louvre: in particolare si notano in comune il ponte, l’acqua, il paesaggio in lontananza, l’arrivo della tempesta e i corpi che precipitano a terra in una generale spinta verso il basso. Quest’ultimo elemento crea un’affinità con la parte sinistra dell’Adorazione dei Magi, realizzata da Jacopo Robusti tra il 1538 e il 1539, oggi conservata al Museo del Prado; i corpi dei soldati sono infatti affini ai magi che con i loro doni ruzzolano da una valle a cavallo o a piedi. Dell’originale opera di Tiziano non è rimasto nulla: è andata distrutta nell’incendio di Palazzo Ducale di Venezia scoppiato nel 1577.

Prima opera datata di Tintoretto è la cosiddetta Sacra Conversazione Molin, nome che deriva dall’iscrizione che si legge sulla pietra nell’angolo in basso a sinistra del dipinto: “Jachobus” seguito da una ruota stilizzata simile a quella di un mulino e la data, 1540. Tra le varie interpretazioni, si è pensato a un pittore di nome Jacopo Molin, alter ego di Tintoretto, o al nome del committente veneziano Jacopo di Alvise dei Molin; in quest’ultimo caso però l’iscrizione non rimanderebbe alla firma dell’artista, bensì solo alla datazione. I personaggi raffigurati sulla tela appaiono di dimensioni monumentali e lasciano poco visibile il paesaggio circostante: caratteristica che Tintoretto riprende, come si è detto, da Pordenone. Al centro della scena la Madonna, che ricorda quella della Sacrestia medicea di Michelangelo nel modo in cui si appoggia con le braccia alla roccia e nello sbilanciamento della figura, e tiene sulle ginocchia Gesù Bambino, il quale è posto in posizione slanciata verso san Francesco e santa Caterina; quest’ultima è sbilanciata in avanti e si appoggia sulla grande ruota del martirio. Oltre alla Madonna di Michelangelo, la Madonna della Sacra Conversazione Molin presenta affinità anche con la citata Madonna col Bambino e santi di Francesco Salviati eseguita per la chiesa di Santa Cristina a Bologna, soprattutto riguardo al panneggio della sua veste. A differenza degli altri personaggi rappresentati con un certo dinamismo, il san Francesco nella parte destra dell’opera appare statico.

Tintoretto, Conversione di san Paolo (1544 circa o 1539-1540; olio su tela, 152,5 x 236,5 cm; Washington, National Gallery of Art)
Tintoretto, Conversione di san Paolo (1544 circa o 1539-1540; olio su tela, 152,5 x 236,5 cm; Washington, National Gallery of Art)


Tiziano, Studio per la Battaglia di Cadore (1537 circa; carboncino e matita nera, acquerello bruno, rialzato di gesso e acquerello bianco su carta azzurra, riquadrato a matita nera, 383 x 442 mm; Parigi, Louvre, Département des arts graphiques)
Tiziano, Studio per la Battaglia di Cadore (1537 circa; carboncino e matita nera, acquerello bruno, rialzato di gesso e acquerello bianco su carta azzurra, riquadrato a matita nera, 383 x 442 mm; Parigi, Louvre, Département des arts graphiques)


Pittore veneto della seconda metà del XVI secolo (Leonardo Corona?), La battaglia di Cadore, da Tiziano (prima del 1577; olio su tela, 121 x 134 cm; Firenze, Uffizi)
Pittore veneto della seconda metà del XVI secolo (Leonardo Corona?), La battaglia di Cadore, da Tiziano (prima del 1577; olio su tela, 121 x 134 cm; Firenze, Uffizi)




Tintoretto, Adorazione dei magi (1538-1539 circa; olio su tela, 174 x 203 cm; Madrid, Museo Nacional del Prado)
Tintoretto, Adorazione dei magi (1538-1539 circa; olio su tela, 174 x 203 cm; Madrid, Museo Nacional del Prado)
Tintoretto, Madonna col Bambino tra i santi Giacomo, Elisabetta, Giovannino, Zaccaria, Caterina d'Alessandria e Francesco (1540; olio su tela, 171,5 x 244 cm; Collezione privata)
Tintoretto, Madonna col Bambino tra i santi Giacomo, Elisabetta, Giovannino, Zaccaria, Caterina d’Alessandria e Francesco (1540; olio su tela, 171,5 x 244 cm; Collezione privata)

Guardano invece a Giulio Romano i tre ottagoni con scene mitologiche, parte dei sedici dipinti che decoravano il soffitto di Palazzo Pisani a San Paternian. Le tre opere, che oggi fanno parte delle collezioni della Galleria Estense di Modena, ricordano infatti le decorazioni nella Sala di Psiche a Palazzo Te di Mantova, presupponendo quindi un possibile viaggio nella città lombarda. Commissionati da Vettore Pisani presumibilmente in occasione del suo matrimonio con Paolina Foscari, e primi della lunga serie di commissioni di alto profilo che l’artista riuscì a ottenere, i dipinti raffigurano Apollo e Dafne, la Strage dei figli di Niobe, Deucalione e Pirra in preghiera davanti alla statua della dea Temi. Le scene sono ispirate alle Metamorfosi di Ovidio e la loro composizione denota la necessaria vista dal basso verso l’alto, al fine di ammirare da una giusta prospettiva gli scorci di quei corpi muscolosi. Tuttavia, si è visto anche il riferimento a Vasari nel riportare le figure in superficie e tessere intrecci lineari, come nell’Apollo e Dafne, dove entrambe le figure di spalle sono legate da un dinamico intreccio. Di argomento ovidiano è poi un altro dipinto, conservato al Wadsworth Atheneum Museum of Art di Hartford, che Tintoretto compì per il soffitto di una camera della dimora veneziana di Pietro Aretino. Ne è testimonianza una lettera che quest’ultimo scrisse al pittore nel febbraio 1545 per ringraziarlo per “le due istorie, una in favola di Apollo e Marsia, e l’altra in la novella di Argo e di Mercurio” dipinte “in meno spazio di tempo che non si mise in pensare al ciò che dovevate dipignere nel palco de la camera”. Aretino sottolinea ancora una volta la “prestezza” del pittore. È esposto in mostra come quadro sciolto La contesa tra Apollo e Marsia, molto differente, anche se destinato similmente al soffitto, dai precedenti ottagoni: qui infatti la composizione non è basata su scorci di figure dal basso di stampo pordenoniano, bensì su un’impostazione toscana e salviatesca. Sul lato sinistro Apollo con una lira da braccio e Marsia con uno strumento simile a una ciaramella suonano davanti a tre giudici barbuti sotto la supervisione di Minerva.

Più vicina all’arte di Bonifacio Veronese e alla cultura tosco-romana la Cena in Emmaus di Budapest, realizzata nel 1543 circa: Tintoretto aggiunse però un sentimento più patetico, una tensione drammatica ormai in pieno movimento e i suoi caratteristici colori, giocando anche con la luce che illumina fortemente la tovaglia candida e la veste blu di uno dei servitori. La scena gioca inoltre sulle diagonali: da notare i bastoni dei pellegrini, l’insegna della locanda e la tavola posta di spigolo; Cristo è concentrato e pensoso nella benedizione del pane, mentre tutti gli altri personaggi che affollano la scena, i pellegrini e i quattro servitori, sono raffigurati in movimento. Si potrebbe affiancare a quest’opera l’Ultima Cena di Giuseppe Porta Salviati eseguita tra il 1545 e il 1547 per il refettorio del monastero di Santo Spirito in Isola, nella quale si trovano figure di spalle o di tre quarti in pose in movimento, colori accesi dei panneggi e un rinnovato plasticismo dei corpi. La composizione costruita su diagonali giunge a una fase successiva di più elevati livelli nella Disputa di Gesù nel tempio conservata nel Museo del Duomo di Milano. Grazie alla prospettiva, il pittore rappresenta sulla destra una sequenza di dottori utilizzando tratti dinamici e veloci e conferisce al grande dipinto una straordinaria profondità: motivo per il quale si rivelarono fondamentali gli studi architettonici dall’Italia centrale. Le figure ai lati in primo piano rivelano il forte influsso michelangiolesco, per cui queste appaiono monumentali, e in particolare la giovane donna in piedi a sinistra rimanda alle Sibille della Cappella Sistina. Inoltre particolare è il fatto che quest’ultima sia l’unica ad ascoltare le parole di Gesù tra la totale indifferenza e disattenzione dei dottori. Prima della Disputa, l’artista imposta un’altra opera sull’utilizzo delle diagonali: si tratta della Sacra Famiglia con il procuratore Girolamo Marcello che giura nelle mani di san Marco, del 1545 circa. La monumentalità della figura di san Marco sulla destra di stampo pordenoniano crea una scena organizzata lungo un’acuta diagonale; il Bambino tra le braccia della Vergine si slancia per indicare la pagina del Vangelo, mentre in posizione inferiore appare il procuratore Marcello, che risente della tradizionale ritrattistica tizianesca.

Tintoretto, Apollo e Dafne (1542 circa; olio su tavola, 153 x 133 cm; Modena, Gallerie Estensi)
Tintoretto, Apollo e Dafne (1542 circa; olio su tavola, 153 x 133 cm; Modena, Gallerie Estensi)


Tintoretto, Deucalione e Pirra in preghiera davanti alla statua della dea Temi (1542 circa; olio su tavola, 127 x 124 cm; Modena, Gallerie Estensi)
Tintoretto, Deucalione e Pirra in preghiera davanti alla statua della dea Temi (1542 circa; olio su tavola, 127 x 124 cm; Modena, Gallerie Estensi)


Tintoretto, Strage dei figli di Niobe (1542 circa; olio su tavola, 127 x 124 cm; Modena, Gallerie Estensi)
Tintoretto, Strage dei figli di Niobe (1542 circa; olio su tavola, 127 x 124 cm; Modena, Gallerie Estensi)


Tintoretto, La contesa tra Apollo e Marsia (1544-1545; olio su tela, 140,5 x 239 cm; Hartford, Wadsworth Atheneum Museum of Art)
Tintoretto, La contesa tra Apollo e Marsia (1544-1545; olio su tela, 140,5 x 239 cm; Hartford, Wadsworth Atheneum Museum of Art)


Tintoretto, Cena in Emmaus (1543 circa; olio su tela, 156 x 212 cm; Budapest, Szépm?vészeti Múzeum)
Tintoretto, Cena in Emmaus (1543 circa; olio su tela, 156 x 212 cm; Budapest, Szépm?vészeti Múzeum)


Tintoretto, Disputa di Gesù nel tempio (1545-1546; olio su tela, 197 x 319 cm; Milano, Museo del Duomo)
Tintoretto, Disputa di Gesù nel tempio (1545-1546; olio su tela, 197 x 319 cm; Milano, Museo del Duomo)


Tintoretto, Sacra Famiglia con il procuratore Girolamo Marcello che giura nelle mani di san Marco (1545 circa; olio su tela, 148 x 193 cm; Collezione privata)
Tintoretto, Sacra Famiglia con il procuratore Girolamo Marcello che giura nelle mani di san Marco (1545 circa; olio su tela, 148 x 193 cm; Collezione privata)

Con l’ultima sezione si raggiunge il culmine del percorso espositivo: il visitatore si proietta verso la parete opposta della sala, sulla quale è stato collocato il grande telero del Miracolo dello schiavo che, come detto, segna la fine de Il giovane Tintoretto e la vera affermazione pubblica dell’artista sulla scena veneziana. Oltre alla celeberrima opera, però, si ha per la prima volta la possibilità di vedere riuniti tre dipinti di stesso soggetto, ovvero l’Ultima Cena, realizzati da artisti che negli stessi anni rappresentarono la scena utilizzando stili differenti: quella di Tintoretto per la Scuola del Santissimo Sacramento di San Marcuola, datata 27 agosto 1547, quella di Jacopo Bassano (Bassano del Grappa, 1515/1516 – 1592) conservata alla Galleria Borghese, che venne commissionata nel 1546 dal nobile veneziano Battista Erizzo e venne saldata entro marzo 1548, e quella di Giuseppe Porta Salviati per il refettorio di Santo Spirito in Isola, oggi nella chiesa di Santa Maria della Salute. La versione di Porta Salviati è ancora influenzata dai modelli dell’Italia centrale con spunti salviateschi e parmigianineschi, ma risente anche molto del colorismo tizianesco e inoltre le figure appaiono dipinte in movimento. Nell’Ultima Cena di Jacopo Bassano lo spazio diviene claustrofobico, affollato dagli apostoli raffigurati con un forte naturalismo e con un’accentuata gestualità. Cristo, rivolgendo lo sguardo verso lo spettatore, indica se stesso e l’agnello sacrificato; intorno le altre numerose figure parlano e discutono tra loro. Sulla tovaglia bianca compaiono pane, vino, frutta, coltelli e, in basso al centro, sono raffigurati la fiasca e il bacile che alludono alla lavanda dei piedi: in ogni elemento spicca un grande naturalismo. Le cromie utilizzate sono fredde con toni di verdi, viola, rosa e azzurro. Quella di Tintoretto è una scena concitata, dominata da intensa espressività con gesti e pose dinamici e complicati. I personaggi sono tutti riuniti attorno alla tavola al centro del dipinto, alcuni seduti, altri in piedi; fulcro è Cristo e gli apostoli formano piccoli gruppi quasi simmetrici. Ai lati dell’opera, due giovani donne procedono verso la tavola: quella a sinistra regge un calice di vino, quella a destra tiene un vassoio con vivande ed è accompagnata da due bambini, di cui uno in braccio e l’altro che cammina attaccato alla veste della donna. Queste sono state interpretate come la Fede e la Carità. Nella parte inferiore al centro del dipinto è stato lasciato uno spazio vuoto probabilmente perché avrebbe fornito uno sfondo neutro al Cristo posto sul banco del Sacramento; l’opera infatti potrebbe essere stata collocata sulla parete sopra al banco. La luce costituisce un elemento significativo: provenendo da sinistra, illumina solo alcune parti dei personaggi, lasciandone in ombra altre. Si crea quindi un gioco di luce e ombra che diverrà tipico nell’arte del Tintoretto: lo si nota in maniera meno accentuata anche nell’Ultima Cena di Bassano, in particolare nelle teste degli apostoli: aspetto che indica un rapporto tra i due artisti e le due rispettive opere.

Giunti di fronte all’enorme dipinto del Miracolo dello schiavo si ha subito l’impressione di una scena affollata e alquanto dinamica: il particolare che colpisce maggiormente è la posizione capovolta di san Marco, che scende dall’alto a testa in giù sulla scena e l’artista lo ritrae sospeso, fermando il suo movimento come in un’istantanea. La scena rappresentata riguarda uno dei miracoli postumi del santo: un signore di Provenza inflisse a uno schiavo il supplizio, poiché quest’ultimo si era diretto a venerare le reliquie di san Marco contro la volontà del suo padrone. Si può vedere infatti il signore di Provenza seduto su un trono all’estremità destra della tela e il corpo nudo a terra dello schiavo che sta subendo varie torture dagli aguzzini. Ma il supplizio viene interrotto improvvisamente dall’apparizione del santo, che si slancia dall’alto sulla folla di curiosi e provoca la rottura degli strumenti del martirio: ben visibile è il martello spezzato in due parti tra le mani del personaggio raffigurato in piedi con un turbante sul capo e una veste sui toni del verde, oltre ad altri strumenti sparsi a terra. La folla di curiosi è costituita da personaggi di varia estrazione sociale e provenienza geografica: si mescolano infatti abiti esotici ad abiti veneziani cinquecenteschi. C’è chi si sporge dal colonnato sulla sinistra, chi osserva stupito la scena con lo sguardo rivolto verso lo schiavo, il tutto con movimenti in torsione di stampo manieristico. Da notare la giovane donna con un bimbo in braccio, appoggiata al basamento della loggetta, che inarca la schiena all’indietro per vedere meglio la scena: figura femminile che ricorda la Cacciata di Eliodoro dal tempio di Raffaello. Anche Michelangelo era solito evidenziare certe parti del corpo per creare maggiore espressività anatomica. Ulteriori riferimenti all’arte michelangiolesca si trovano nelle figure ai piedi del trono, nate dagli studi sui modelli della Sacrestia medicea e basate sul gruppo scultoreo dei Due lottatori rimasto a bozzetto, ma soprattutto nell’asse verticale che lega il santo allo schiavo. Un aspetto proposto già da Buonarroti nella Conversione di Saulo della Cappella Paolina, opera datata 1542-43: anche qui il santo plana sulla scena sottostante, ma quell’asse è reso tangibile dal fascio di luce verticale che lega proprio i due soggetti; Tintoretto invece riduce la distanza spaziale tra i due, creando contrasto tra il corpo in ombra del santo e il corpo illuminato dello schiavo. Inoltre questo vario repertorio di corpi le cui pose si dispongono a incastro rimandano certamente al Giudizio finale della Cappella Sistina.

Il Miracolo dello schiavo era stato presumibilmente preceduto da un bozzetto raffigurante La messa in salvo del corpo di san Marco (1547 circa), oggi conservato a Bruxelles. Allo scoppio di un temporale, il corpo di san Marco dopo il martirio subito viene portato in salvo, prima che i pagani lo brucino. Per la composizione della scena, per il corpo nudo a terra illuminato da un fascio di luce e per le architetture presenti, il dipinto è stato ipotizzato essere una prima prova della grande tela del 1548 destinata alla Scuola Grande di San Marco. Il tema del Miracolo dello schiavo era inoltre stato proposto da Sansovino nei suoi rilievi della cantoria della Basilica marciana tra il 1541 il 1544, qui esposti in mostra. Attorno al Miracolo dello schiavo si crea quindi un dialogo tra il menzionato bozzetto, probabilmente antecedente dell’opera, e i rilievi bronzei prodotti da uno di quegli artisti che con il loro arrivo a Venezia influenzarono la produzione giovanile di Tintoretto.

Giuseppe Porta Salviati, Ultima cena (1545-1547; olio su tela, 230 x 395 cm; Venezia, Santa Maria della Salute)
Giuseppe Porta Salviati, Ultima cena (1545-1547; olio su tela, 230 x 395 cm; Venezia, Santa Maria della Salute)


Jacopo Bassano, Ultima cena (1547-1548; olio su tela, 168 x 270 cm; Roma, Galleria Borghese)
Jacopo Bassano, Ultima cena (1547-1548; olio su tela, 168 x 270 cm; Roma, Galleria Borghese)


Tintoretto, Ultima cena (1547; olio su tela, 157 x 433 cm; Venezia, San Marcuola)
Tintoretto, Ultima cena (1547; olio su tela, 157 x 433 cm; Venezia, San Marcuola)


Jacopo Sansovino, Miracolo dello Schiavo e Conversione del signore di Provenza oppure Miracolo del soldato in Lombardia (entrambi 1541-1544; bronzo, 48,5 x 65,8 cm; Venezia, Basilica di San Marco)
Jacopo Sansovino, Miracolo dello Schiavo e Conversione del signore di Provenza oppure Miracolo del soldato in Lombardia (entrambi 1541-1544; bronzo, 48,5 x 65,8 cm; Venezia, Basilica di San Marco)


Jacopo Sansovino, Miracolo dello schiavo
Jacopo Sansovino, Miracolo dello schiavo


Tintoretto, San Marco libera lo schiavo dal supplizio della tortura, detto anche Miracolo dello schiavo (1548; olio su tela, 415 x 541 cm; Venezia, Gallerie dell'Accademia)
Tintoretto, San Marco libera lo schiavo dal supplizio della tortura, detto anche Miracolo dello schiavo (1548; olio su tela, 415 x 541 cm; Venezia, Gallerie dell’Accademia)

Il giovane Tintoretto si rivela una mostra ben strutturata (di particolare pregio i confronti con gli artisti coevi, che consentono una efficace contestualizzazione degli esordî della sua arte, ricostruiti con grandissima precisione) per rendere comprensibili tutti i passaggi artistici e culturali che condussero il giovane artista a divenire uno dei pittori più significativi della sua Venezia: da autodidatta seguì le diverse tendenze che si susseguirono nella sua terra per giungere a un suo proprio modo di fare pittura, elevandosi all’affermazione artistica. E per proseguire la conoscenza della sua arte, il visitatore non farà altro che recarsi a Palazzo Ducale.


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Ilaria Baratta

L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta

Giornalista, è co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. È nata a Carrara nel 1987 e si è laureata a Pisa. È responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.






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